La presente tesi di Dottorato traccia, nella sua prima parte, un’indagine interdisciplinare sulla sifilide, la più diffusa malattia venerea del XVI secolo – allora difficilmente identificabile – che cronisti, medici e letterati della prima Età moderna inizialmente «morbum gallicum vocant», poiché comparse per la prima volta in occasione della campagna militare che il re di Francia, Carlo VIII, organizzò nel 1494 per conquistare il Regno di Napoli. Solo nel 1530 con l’opera di Girolamo Fracastoro, Syphilis sive De morbo gallico, la malattia sarà poeticamente battezzata sifilide, ma, prima di allora, di fronte al profondo turbamento psicosomatico e alle alterazioni corporali del sifilitico, la difficoltà di definire per verba il nuovo morbo contagioso fu un’operazione assai complessa e non priva di implicazioni politiche. I medici del Rinascimento, pur mettendo in campo tutto il loro sapere, non riuscirono, infatti, a pronunciare subito una diagnosi precisa, né disposero di terapie ad hoc nella cura dei pazienti e ricercavano la sua eziologia ora tra gli astri celesti ora tra gli umori umani. Intanto, nell’orizzonte culturale cinquecentesco la connessione tra passione erotica, infezione e devianza morale si faceva sempre più stretta e la malattia divenne l’espressione di un’epoca tormentata, confusa e radicalmente sovvertita. Di conseguenza, si intensificarono nella letteratura i riferimenti all’eros come forza distruttiva e devastante, come malattia che corrompe l’anima e il corpo, sia quello dell’individuo sia il corpo cosiddetto sociale: il primo capitolo di questo lavoro si propone di analizzare la valenza metaforica della sifilide e le armi, letterarie e politiche, che furono adottate verso i presunti responsabili del contagio, in primis la prostituta, da sempre ritenuta, per retriva misoginia, il vettore dei mali dell’umanità, e poi lo straniero, che, bramoso di potere, voleva asservire l’Italia. Nel generale riassetto che la letteratura conosce all’inizio del Seicento, il genere eroicomico, nato sulle spoglie dell’epica tassiana, è quello che appare più funzionale al prevalere di certi contenuti accordati al clima epidemico. La sua peculiarità è elevare, attraverso la nobiltà dello stile epico, personaggi e situazioni vili, tipici perlopiù della commedia: è proprio nella discrasia tra la materia narrata e l’iperbolico tono adottato, sproporzionato rispetto ai contenuti, che nasce il comico. Nel solco di questa nuova tradizione si inserisce Giovanni Battista Lalli, che nel 1629 pubblica un poema giocoso in sei canti intitolato La Franceide overo Del mal francese, oggetto di studio della seconda parte della tesi, in cui si offre una moderna edizione commentata dell’opera. Grazie a una profonda sensibilità verso i fenomeni della storia e della civiltà, Lalli supera i confini imposti da una pedissequa conformazione ai modelli classici e con la rinnovata forza della parola si misura con la tradizione per restituirne un prodotto originale. Sulla scia di Alessandro Tassoni, che nel 1622 aveva pubblicato il poema eroicomico La secchia rapita e aveva definito i caratteri e le modalità dell’intertestualità parodica, bilanciata fra storia e letteratura, tra cronaca e retorica, Lalli riprende gli antichi asti dell’Eneide virgiliana e collega la diffusione della sifilide sulla terra a una vendetta di Giunone contro Venere. Dentro questa cornice mitologica, il poeta dispone tre battaglie: la prima intrapresa contro la malattia; la seconda tra tredici cavalieri italiani e altrettanti francesi durante la Disfida di Barletta, per stabilire il nome del morbo; la terza tra gli stessi tredici italiani e gli indigeni d’America, dove i cavalieri erano stati inviati per prelevare il legno santo. Se, tuttavia, la prima battaglia è metaforica, le altre due sono paradigmatiche per affermare la virtus italiana, che nel Seicento era stata messa in discussione dalla dominazione straniera. Analizzando da un punto di vista filologico le fonti, i modelli e le intime suggestioni dell’Autore, questa tesi intende dimostrare quanto sia importante il recupero e la valorizzazione delle opere eroicomiche, poiché, oltre a costituire un passaggio fondamentale della storia letteraria, fino ad oggi tralasciate in virtù di un canone che ha evidentemente bisogno di essere aggiornato e ampliato, esse sono anche fonti preziose da riscoprire per il lessico, i proverbi, gli idiomatismi e le tradizioni locali che conservano e tramandano talvolta in modo, se non unico, raro.
La rappresentazione della sifilide nel Seicento: edizione e commento de La Franceide di Giovanni Battista Lalli / DEL GAUDIO, Ilenia. - (2024). [10.14274/del-gaudio-ilenia_phd2024]
La rappresentazione della sifilide nel Seicento: edizione e commento de La Franceide di Giovanni Battista Lalli
DEL GAUDIO, ILENIA
2024-01-01
Abstract
La presente tesi di Dottorato traccia, nella sua prima parte, un’indagine interdisciplinare sulla sifilide, la più diffusa malattia venerea del XVI secolo – allora difficilmente identificabile – che cronisti, medici e letterati della prima Età moderna inizialmente «morbum gallicum vocant», poiché comparse per la prima volta in occasione della campagna militare che il re di Francia, Carlo VIII, organizzò nel 1494 per conquistare il Regno di Napoli. Solo nel 1530 con l’opera di Girolamo Fracastoro, Syphilis sive De morbo gallico, la malattia sarà poeticamente battezzata sifilide, ma, prima di allora, di fronte al profondo turbamento psicosomatico e alle alterazioni corporali del sifilitico, la difficoltà di definire per verba il nuovo morbo contagioso fu un’operazione assai complessa e non priva di implicazioni politiche. I medici del Rinascimento, pur mettendo in campo tutto il loro sapere, non riuscirono, infatti, a pronunciare subito una diagnosi precisa, né disposero di terapie ad hoc nella cura dei pazienti e ricercavano la sua eziologia ora tra gli astri celesti ora tra gli umori umani. Intanto, nell’orizzonte culturale cinquecentesco la connessione tra passione erotica, infezione e devianza morale si faceva sempre più stretta e la malattia divenne l’espressione di un’epoca tormentata, confusa e radicalmente sovvertita. Di conseguenza, si intensificarono nella letteratura i riferimenti all’eros come forza distruttiva e devastante, come malattia che corrompe l’anima e il corpo, sia quello dell’individuo sia il corpo cosiddetto sociale: il primo capitolo di questo lavoro si propone di analizzare la valenza metaforica della sifilide e le armi, letterarie e politiche, che furono adottate verso i presunti responsabili del contagio, in primis la prostituta, da sempre ritenuta, per retriva misoginia, il vettore dei mali dell’umanità, e poi lo straniero, che, bramoso di potere, voleva asservire l’Italia. Nel generale riassetto che la letteratura conosce all’inizio del Seicento, il genere eroicomico, nato sulle spoglie dell’epica tassiana, è quello che appare più funzionale al prevalere di certi contenuti accordati al clima epidemico. La sua peculiarità è elevare, attraverso la nobiltà dello stile epico, personaggi e situazioni vili, tipici perlopiù della commedia: è proprio nella discrasia tra la materia narrata e l’iperbolico tono adottato, sproporzionato rispetto ai contenuti, che nasce il comico. Nel solco di questa nuova tradizione si inserisce Giovanni Battista Lalli, che nel 1629 pubblica un poema giocoso in sei canti intitolato La Franceide overo Del mal francese, oggetto di studio della seconda parte della tesi, in cui si offre una moderna edizione commentata dell’opera. Grazie a una profonda sensibilità verso i fenomeni della storia e della civiltà, Lalli supera i confini imposti da una pedissequa conformazione ai modelli classici e con la rinnovata forza della parola si misura con la tradizione per restituirne un prodotto originale. Sulla scia di Alessandro Tassoni, che nel 1622 aveva pubblicato il poema eroicomico La secchia rapita e aveva definito i caratteri e le modalità dell’intertestualità parodica, bilanciata fra storia e letteratura, tra cronaca e retorica, Lalli riprende gli antichi asti dell’Eneide virgiliana e collega la diffusione della sifilide sulla terra a una vendetta di Giunone contro Venere. Dentro questa cornice mitologica, il poeta dispone tre battaglie: la prima intrapresa contro la malattia; la seconda tra tredici cavalieri italiani e altrettanti francesi durante la Disfida di Barletta, per stabilire il nome del morbo; la terza tra gli stessi tredici italiani e gli indigeni d’America, dove i cavalieri erano stati inviati per prelevare il legno santo. Se, tuttavia, la prima battaglia è metaforica, le altre due sono paradigmatiche per affermare la virtus italiana, che nel Seicento era stata messa in discussione dalla dominazione straniera. Analizzando da un punto di vista filologico le fonti, i modelli e le intime suggestioni dell’Autore, questa tesi intende dimostrare quanto sia importante il recupero e la valorizzazione delle opere eroicomiche, poiché, oltre a costituire un passaggio fondamentale della storia letteraria, fino ad oggi tralasciate in virtù di un canone che ha evidentemente bisogno di essere aggiornato e ampliato, esse sono anche fonti preziose da riscoprire per il lessico, i proverbi, gli idiomatismi e le tradizioni locali che conservano e tramandano talvolta in modo, se non unico, raro.File | Dimensione | Formato | |
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