Da più di un decennio, il delitto di maltrattamenti contro i familiari riveste una posizione di primo rilievo nell’agenda del legislatore penale. La rinnovata centralità dipende, in buona parte, dalla volontà politica di inasprire il contrasto al fenomeno criminologico della violenza domestica e di genere, del quale il reato in esame è ritenuto sommamente espressivo, pur non esaurendolo, dato che, come si avrà modo di verificare, non si può stabilire un legame biunivoco tra i due. Nonostante i numerosi rimaneggiamenti degli ultimi anni, l’art. 572 c.p. replica le carenze strutturali e le antinomie che inficiavano la versione originaria della norma incriminatrice, tra le quali la laconicità nella descrizione del precetto e la notoria inesattezza della collocazione topografica. La presente tesi riferisce di come tali storture, mai emendate e trascinate nella nostra epoca sin dagli anni Trenta, possano essere controllate inquadrando il delitto de quo in seno alla dogmatica del reato abituale, che, in effetti, è figura in grado di intercettare le dinamiche proprie dell’attività persecutoria sviluppatasi all’interno di un contesto relazionale. Una volta rimarcati i profili differenziali tra il reato abituale e i paradigmi criminosi contigui, nell’ambito del primo capitolo, si è valorizzata l’autonomia ontologica ed assiologica di tale tipo penale e, dunque, la necessità di preservarlo dalle istanze abolizioniste da cui è spesso attinto; inoltre, si è ritenuto di condividere la più diffusa qualificazione del delitto di cui all’art. 572 c.p. alla stregua di un reato necessariamente abituale proprio e, conseguentemente, di rifiutare quell’indirizzo che ipotizza la riconducibilità alla abitualità impropria, che pure persegue la nobile finalità di rimediare alla notoria indeterminatezza dei maltrattamenti in famiglia, radicandone la tipicità su basi più solide. Nella tesi, si prospetta la possibilità di colmare il vulnus in punto di tassatività valorizzando altri aspetti, tra i quali la stessa nozione di reiterazione, la consistenza dell’offesa abituale, la componente della convivenza e l’abuso quale connotato modale della condotta vessatoria. Pur agevolando il percorso verso la determinatezza, la riconduzione al genus dei reati abituali è anche alla base delle numerose perplessità ermeneutiche che l’illecito in parola suscita allorché si relazioni con i principali istituti di parte generale. A titolo esemplificativo, avendo accantonato la prospettiva di avvicinamento alla fattispecie complessa, persiste la necessità di verificare quale sia la capacità consuntiva espressa dal reato abituale e di individuare i limiti oltre i quali si dischiude nuovamente la disciplina del concorso di reati. In questa sede, inoltre, si può fare menzione alla problematica intertemporale connessa alla sopravvenienza di una modificatio in peius incidente sulla condotta maltrattante perfezionata ma non ancora consumata del tutto; all’interrogativo circa l’ammissibilità della variante tentata oppure, ancora, a quello relativo alle condizioni necessarie per la configurazione del concorso di persone o per l’imputazione delle circostanze: di questi aspetti, ci si è occupati analiticamente nell’ambito del secondo capitolo. Il terzo capitolo indaga la dimensione vivente del delitto di maltrattamenti in famiglia, tanto sul versante processuale quanto su quello sostanziale. Sul fronte processuale, è stato ineludibile il confronto con l’ampio sistema preventivo di contrasto alla violenza domestica allestito dal codice rosso e dal relativo “rafforzamento” del 2023, che, per quanto giustificato dalla natura relazionale del reato di specie, è comunque foriero di taluni squilibri in rapporto alla posizione del mero indiziato (si pensi al ventaglio delle misure di prevenzione e, in particolare, alla possibilità di applicare finanche quella personale della sorveglianza speciale). Quanto al fronte sostanziale, invece, si sono analizzate le principali tendenze emerse in giurisprudenza, verificandone la conformità con le premesse dogmatiche poste nei primi due capitoli. Di sovente, si è constatata l’inclinazione a dilatare le maglie della fattispecie (il che è reso particolarmente evidente dagli orientamenti che ammettono la configurabilità dei c.d. maltrattamenti reciproci nonché da quelli in materia di violenza assistita) e, più in generale, a plasmare la condotta tipica in termini omissivi e ipergiuridicizzanti, focalizzandosi sull’inadempimento degli obblighi solidaristici connessi alla qualifica di familiare o di convivente. Per converso, si propone di ridefinire la condotta maltrattante in termini di reiterazione di atti offensivi (contra ius) e antigiuridici (non iure) non giustificati dalla logica della reciprocità, commessi abusando di una posizione di vantaggio, giuridica o materiale, rispetto al soggetto passivo, nel contesto della convivenza o di una frequentazione provvista di analoga assiduità. Per conformare l’attuale precetto alla definizione ivi avanzata, si suggerisce il richiamo espresso alla all’abitualità affianco alla descrizione della condotta, che potrebbe continuare ad incentrarsi sul verbo “maltrattare”. Riferendosi alle relazioni intrafamiliari, una volta precisato il carattere irrinunciabile della convivenza, il riferimento alla «persona della famiglia» appare prime facie sovrabbondante, istaurandosi tra i due concetti un rapporto di genere a specie, al più, potrebbe conservare una certa utilità come segnalatore della già menzionata posizione di vantaggio, ossia per fugare ogni dubbio circa la estraneità all’art. 572 c.p. di quelle forme di coabitazione svincolate dal nesso affettivo o parentale. Quand’anche si decidesse di mantenere la formulazione odierna, vi sarebbe comunque la necessità di rimpiazzare la “e” con funzione aggiuntiva alla congiunzione disgiuntiva “o”. Mentre, non sembra dirimente procedere allo “spacchettamento” in due distinte norme incriminatrici, a seconda che la relazione intersoggettiva sia domestica oppure extrafamiliare - come anche è stato proposto – non potendosi escludere che, in tali ambiti, si raggiungano vette analoghe di vessatorietà. L’ultimo capitolo dà conto dei diversi approcci alla violenza domestica mostrati dai principali ordinamenti europei di civil law, ciò con l’obiettivo ultimo di ricavare dalla privilegiata visuale comparatistica alcuni spunti utili alla riflessione nazionale sull’art. 572 c.p., sia in ottica ermeneutica che in prospettiva de lege ferenda.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia nella teoria generale del reato e nel diritto vivente / Scorcia, Sirio Moreno. - (2025 Dec 02). [10.14274/scorcia-sirio-moreno_phd2025-12-02]

Il delitto di maltrattamenti in famiglia nella teoria generale del reato e nel diritto vivente

SCORCIA, Sirio Moreno
2025-12-02

Abstract

Da più di un decennio, il delitto di maltrattamenti contro i familiari riveste una posizione di primo rilievo nell’agenda del legislatore penale. La rinnovata centralità dipende, in buona parte, dalla volontà politica di inasprire il contrasto al fenomeno criminologico della violenza domestica e di genere, del quale il reato in esame è ritenuto sommamente espressivo, pur non esaurendolo, dato che, come si avrà modo di verificare, non si può stabilire un legame biunivoco tra i due. Nonostante i numerosi rimaneggiamenti degli ultimi anni, l’art. 572 c.p. replica le carenze strutturali e le antinomie che inficiavano la versione originaria della norma incriminatrice, tra le quali la laconicità nella descrizione del precetto e la notoria inesattezza della collocazione topografica. La presente tesi riferisce di come tali storture, mai emendate e trascinate nella nostra epoca sin dagli anni Trenta, possano essere controllate inquadrando il delitto de quo in seno alla dogmatica del reato abituale, che, in effetti, è figura in grado di intercettare le dinamiche proprie dell’attività persecutoria sviluppatasi all’interno di un contesto relazionale. Una volta rimarcati i profili differenziali tra il reato abituale e i paradigmi criminosi contigui, nell’ambito del primo capitolo, si è valorizzata l’autonomia ontologica ed assiologica di tale tipo penale e, dunque, la necessità di preservarlo dalle istanze abolizioniste da cui è spesso attinto; inoltre, si è ritenuto di condividere la più diffusa qualificazione del delitto di cui all’art. 572 c.p. alla stregua di un reato necessariamente abituale proprio e, conseguentemente, di rifiutare quell’indirizzo che ipotizza la riconducibilità alla abitualità impropria, che pure persegue la nobile finalità di rimediare alla notoria indeterminatezza dei maltrattamenti in famiglia, radicandone la tipicità su basi più solide. Nella tesi, si prospetta la possibilità di colmare il vulnus in punto di tassatività valorizzando altri aspetti, tra i quali la stessa nozione di reiterazione, la consistenza dell’offesa abituale, la componente della convivenza e l’abuso quale connotato modale della condotta vessatoria. Pur agevolando il percorso verso la determinatezza, la riconduzione al genus dei reati abituali è anche alla base delle numerose perplessità ermeneutiche che l’illecito in parola suscita allorché si relazioni con i principali istituti di parte generale. A titolo esemplificativo, avendo accantonato la prospettiva di avvicinamento alla fattispecie complessa, persiste la necessità di verificare quale sia la capacità consuntiva espressa dal reato abituale e di individuare i limiti oltre i quali si dischiude nuovamente la disciplina del concorso di reati. In questa sede, inoltre, si può fare menzione alla problematica intertemporale connessa alla sopravvenienza di una modificatio in peius incidente sulla condotta maltrattante perfezionata ma non ancora consumata del tutto; all’interrogativo circa l’ammissibilità della variante tentata oppure, ancora, a quello relativo alle condizioni necessarie per la configurazione del concorso di persone o per l’imputazione delle circostanze: di questi aspetti, ci si è occupati analiticamente nell’ambito del secondo capitolo. Il terzo capitolo indaga la dimensione vivente del delitto di maltrattamenti in famiglia, tanto sul versante processuale quanto su quello sostanziale. Sul fronte processuale, è stato ineludibile il confronto con l’ampio sistema preventivo di contrasto alla violenza domestica allestito dal codice rosso e dal relativo “rafforzamento” del 2023, che, per quanto giustificato dalla natura relazionale del reato di specie, è comunque foriero di taluni squilibri in rapporto alla posizione del mero indiziato (si pensi al ventaglio delle misure di prevenzione e, in particolare, alla possibilità di applicare finanche quella personale della sorveglianza speciale). Quanto al fronte sostanziale, invece, si sono analizzate le principali tendenze emerse in giurisprudenza, verificandone la conformità con le premesse dogmatiche poste nei primi due capitoli. Di sovente, si è constatata l’inclinazione a dilatare le maglie della fattispecie (il che è reso particolarmente evidente dagli orientamenti che ammettono la configurabilità dei c.d. maltrattamenti reciproci nonché da quelli in materia di violenza assistita) e, più in generale, a plasmare la condotta tipica in termini omissivi e ipergiuridicizzanti, focalizzandosi sull’inadempimento degli obblighi solidaristici connessi alla qualifica di familiare o di convivente. Per converso, si propone di ridefinire la condotta maltrattante in termini di reiterazione di atti offensivi (contra ius) e antigiuridici (non iure) non giustificati dalla logica della reciprocità, commessi abusando di una posizione di vantaggio, giuridica o materiale, rispetto al soggetto passivo, nel contesto della convivenza o di una frequentazione provvista di analoga assiduità. Per conformare l’attuale precetto alla definizione ivi avanzata, si suggerisce il richiamo espresso alla all’abitualità affianco alla descrizione della condotta, che potrebbe continuare ad incentrarsi sul verbo “maltrattare”. Riferendosi alle relazioni intrafamiliari, una volta precisato il carattere irrinunciabile della convivenza, il riferimento alla «persona della famiglia» appare prime facie sovrabbondante, istaurandosi tra i due concetti un rapporto di genere a specie, al più, potrebbe conservare una certa utilità come segnalatore della già menzionata posizione di vantaggio, ossia per fugare ogni dubbio circa la estraneità all’art. 572 c.p. di quelle forme di coabitazione svincolate dal nesso affettivo o parentale. Quand’anche si decidesse di mantenere la formulazione odierna, vi sarebbe comunque la necessità di rimpiazzare la “e” con funzione aggiuntiva alla congiunzione disgiuntiva “o”. Mentre, non sembra dirimente procedere allo “spacchettamento” in due distinte norme incriminatrici, a seconda che la relazione intersoggettiva sia domestica oppure extrafamiliare - come anche è stato proposto – non potendosi escludere che, in tali ambiti, si raggiungano vette analoghe di vessatorietà. L’ultimo capitolo dà conto dei diversi approcci alla violenza domestica mostrati dai principali ordinamenti europei di civil law, ciò con l’obiettivo ultimo di ricavare dalla privilegiata visuale comparatistica alcuni spunti utili alla riflessione nazionale sull’art. 572 c.p., sia in ottica ermeneutica che in prospettiva de lege ferenda.
2-dic-2025
violence against women; domestic violence
maltrattamenti contro familiari e convinventi (art. 572 c.p.); violenza domestica
Bellagamba, Filippo
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