La diffusione delle tecnologie digitali si è sviluppata con una rapidità superiore alle attese e la digitalizzazione ha modificato l’approccio all’informazione, alla cultura e al tempo libero, modificando l’antropologia sociale del nostro Paese. La pandemia, in questo contesto, ha rappresentato un momento straordinario di accelerazione della cosiddetta alfabetizzazione digitale. Sono stati mesi in cui i cittadini hanno realizzato quanto sia importante avere una rete veloce ed affidabile. E quanto l’accesso digitale alla sanità, all’istruzione, all’informazione, ai servizi della pubblica amministrazione, ai trasporti, avrebbe loro semplificato la vita. L’apprendimento e il lavoro da remoto sono passati in poco tempo da pratiche di nicchia a fenomeni di massa modificando abitudini e mentalità. L’Italia, però, non è riuscita a tenere il ritmo di altri Stati membri europei; tal che, secondo l’indice annuale DESI del 2022 (digitalizzazione dell’economia e della società) si trova ancora al 18° posto nella classifica dei 27 Stati dell’Unione. Le prime posizioni sono appannaggio dei paesi nordici: Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia; in coda rimangono Grecia, Bulgaria e Romania. Di fronte a un fenomeno in così rapida espansione delle tecnologie digitali, è stata avvertita dall’Unione europea la necessità di regolamentare questo settore, per accompagnare quel cambiamento che è stato definito dalla Commissione “il decennio digitale”. Così, all’inizio del 2020, con la comunicazione “Plasmare il futuro digitale dell’Europa”, la Commissione europea ha formalizzato l’intenzione di ripensare le norme del mercato interno per i servizi digitali, rilevando che tali servizi (in particolare, quelli forniti dalle grandi piattaforme online) stanno determinando una profonda trasformazione dei flussi economici, delle relazioni sociali e dell’esercizio di alcuni diritti fondamentali (quali la libertà di espressione e l’accesso ad informazioni verificate), offrendo, da un lato, nuove opportunità di crescita per il mercato unico ma amplificando, dall’altro, i rischi per cittadini e utenti. Il 15 dicembre 2020 la Commissione europea ha presentato due attese proposte legislative: il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA). Il DMA e il DSA sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, rispettivamente, il 12 ottobre 2022 e il 27 ottobre 2022, e sono attualmente in vigore. I due regolamenti sono al centro dell’ambizioso obiettivo della Commissione europea di fare di questo il “decennio digitale” dell’Europa. Si tratta di due riforme rivolte ad introdurre un quadro normativo mirato a regolamentare i mercati in cui le piattaforme online offrono servizi digitali, tra cui ad esempio il commercio elettronico, gli acquisiti in-app e altri servizi di intermediazione, nonché i motori di ricerca e la vendita di spazi pubblicitari. L’obiettivo dei due regolamenti, nella ratio del legislatore europeo, mira a promuovere un sano e pluralistico ecosistema digitale, attraverso una maggiore responsabilizzazione del mondo della rete. Lo studio si propone di osservare e analizzare l’impatto dei succitati regolamenti europei nel diritto vigente negli Stati membri dell’Unione europea, con uno sguardo approfondito all’impatto nell’ordinamento italiano, e di farlo con una consapevolezza nuova. I due citati regolamenti, difatti, non appaiono un mero strumento giuridico, ma il risultato di un cambiamento di paradigma anzitutto culturale. Si può essere tentati di giudicare il susseguirsi degli interventi legislativi in materia di comunicazioni, servizi e commercio digitale come vano sforzo di rincorsa del diritto. Quale settore, del resto, si dimostra in grado di balzi tecnologici tanto frequenti quanto impensabili? Negli ultimi anni, la rivoluzione delle grandi piattaforme digitali ha sedotto ampie fette dell’opinione pubblica, suscitato il supporto entusiastico del mondo accademico, ha innescato le marce alte sotto lo sguardo spesso benevolo dei regolatori. Le grandi società big tech si sono fatte portatori di messaggi per anni indiscussi, quasi messianici: la frase celebre dei fondatori di Google “on the internet, competition is one click away” è forse uno dei più seducenti e al tempo stesso rischiosi messaggi. L’idea che il commercio online e la potenza dei motori di ricerca fossero gli strumenti infallibili di una nuova fase di distruzione creatrice schumpeteriana ha consentito che le grandi piattaforme crescessero senza troppo temere le conseguenze di assurgere a posizioni di mercato dominanti. Se l’effetto per il consumatore finale è maggiore scelta e prezzi più bassi, l’approccio dei regolatori, specie statunitensi, è stato allora laissez faire, laissez passer. Eppure, la tutela del consumatore finale non è l’unico fine nobile della disciplina antitrust, né la misura del prezzo più basso è l’unico strumento con cui si misura. Il mercato stesso e la corretta competizione tra i suoi attori sono oggetto di tutela tanto quanto i consumatori. Il Digital Markets Act introduce l’applicazione di obblighi stringenti per i servizi di piattaforme che controllano l’accesso ai mercati digitali, il Digital Services Act prevede che le piattaforme online molto grandi, per garantire un adeguato livello di trasparenza e assunzione di responsabilità, diano evidenza di come vengono svolte alcune delle loro attività quali, ad esempio, la pubblicità online, e consentano alle autorità e ai ricercatori di poter accedere ad alcuni dei loro dati. Il DSA auspica, altresì, che determinate competenze vengano attribuite ad un’Autorità ad hoc, non ancora designata, le cui caratteristiche e le linee generali possono riconoscersi, nel nostro ordinamento, nell’attuale Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (“Agcom”), alla quale andrebbero riconosciute ulteriori competenze. Non dimentichiamo che l’Agcom nasce da una gemmazione di competenze che negli anni si sono aggiunte partendo dagli anni ‘80, come Garante per l’editoria, negli anni ‘90 come Garante della radiotelevisione e a partire dagli anni 2000, del nuovo processo di digitalizzazione. A questo unico organismo sono state così attribuite funzioni di regolamentazione e vigilanza nei settori delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo, dell’editoria, delle poste e negli ultimi anni in materia digitale. Il paradigma culturale che accompagna queste due riforme europee sta cambiando, i principi che le ispirano sono il frutto di una presa di consapevolezza meditata, frutto di anni di giurisprudenza, innovazioni, tentativi: il DMA e il DSA presentano norme chiare contro l’abuso di posizione dominante, richiedono maggiore trasparenza sugli algoritmi e sui dati che li alimentano, aumentano la vigilanza sull’uso dei dati personali, impongono maggiore responsabilità alle piattaforme sui contenuti che diffondono. Nel nuovo ecosistema digitale, così visibile ovunque eppure così impalpabile, si forma l’opinione pubblica, prende vita il dibattito plurale, prende forma una nuova economia. Il corretto funzionamento dell’ecosistema digitale è dunque un bene pubblico. Sono queste le ragioni che dovrebbero spingere l’Italia a recuperare posizioni nella classifica che la vede oggi tra i Paesi dell’Unione meno digitalizzati, al fine di consentire, preservando la tutela di diritti e libertà fondamentali, l’accesso tanto ai cittadini quanto agli operatori del mercato alle enormi potenzialità della rete.

La diffusione delle tecnologie digitali e le conseguenze nei campi del sapere e dell’informazione alla luce del nuovo quadro normativo europeo: l’impatto del Digital Markets Act e del Digital Services Act nel decennio digitale dell’UE

Anna Chimenti
2023-01-01

Abstract

La diffusione delle tecnologie digitali si è sviluppata con una rapidità superiore alle attese e la digitalizzazione ha modificato l’approccio all’informazione, alla cultura e al tempo libero, modificando l’antropologia sociale del nostro Paese. La pandemia, in questo contesto, ha rappresentato un momento straordinario di accelerazione della cosiddetta alfabetizzazione digitale. Sono stati mesi in cui i cittadini hanno realizzato quanto sia importante avere una rete veloce ed affidabile. E quanto l’accesso digitale alla sanità, all’istruzione, all’informazione, ai servizi della pubblica amministrazione, ai trasporti, avrebbe loro semplificato la vita. L’apprendimento e il lavoro da remoto sono passati in poco tempo da pratiche di nicchia a fenomeni di massa modificando abitudini e mentalità. L’Italia, però, non è riuscita a tenere il ritmo di altri Stati membri europei; tal che, secondo l’indice annuale DESI del 2022 (digitalizzazione dell’economia e della società) si trova ancora al 18° posto nella classifica dei 27 Stati dell’Unione. Le prime posizioni sono appannaggio dei paesi nordici: Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia; in coda rimangono Grecia, Bulgaria e Romania. Di fronte a un fenomeno in così rapida espansione delle tecnologie digitali, è stata avvertita dall’Unione europea la necessità di regolamentare questo settore, per accompagnare quel cambiamento che è stato definito dalla Commissione “il decennio digitale”. Così, all’inizio del 2020, con la comunicazione “Plasmare il futuro digitale dell’Europa”, la Commissione europea ha formalizzato l’intenzione di ripensare le norme del mercato interno per i servizi digitali, rilevando che tali servizi (in particolare, quelli forniti dalle grandi piattaforme online) stanno determinando una profonda trasformazione dei flussi economici, delle relazioni sociali e dell’esercizio di alcuni diritti fondamentali (quali la libertà di espressione e l’accesso ad informazioni verificate), offrendo, da un lato, nuove opportunità di crescita per il mercato unico ma amplificando, dall’altro, i rischi per cittadini e utenti. Il 15 dicembre 2020 la Commissione europea ha presentato due attese proposte legislative: il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA). Il DMA e il DSA sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, rispettivamente, il 12 ottobre 2022 e il 27 ottobre 2022, e sono attualmente in vigore. I due regolamenti sono al centro dell’ambizioso obiettivo della Commissione europea di fare di questo il “decennio digitale” dell’Europa. Si tratta di due riforme rivolte ad introdurre un quadro normativo mirato a regolamentare i mercati in cui le piattaforme online offrono servizi digitali, tra cui ad esempio il commercio elettronico, gli acquisiti in-app e altri servizi di intermediazione, nonché i motori di ricerca e la vendita di spazi pubblicitari. L’obiettivo dei due regolamenti, nella ratio del legislatore europeo, mira a promuovere un sano e pluralistico ecosistema digitale, attraverso una maggiore responsabilizzazione del mondo della rete. Lo studio si propone di osservare e analizzare l’impatto dei succitati regolamenti europei nel diritto vigente negli Stati membri dell’Unione europea, con uno sguardo approfondito all’impatto nell’ordinamento italiano, e di farlo con una consapevolezza nuova. I due citati regolamenti, difatti, non appaiono un mero strumento giuridico, ma il risultato di un cambiamento di paradigma anzitutto culturale. Si può essere tentati di giudicare il susseguirsi degli interventi legislativi in materia di comunicazioni, servizi e commercio digitale come vano sforzo di rincorsa del diritto. Quale settore, del resto, si dimostra in grado di balzi tecnologici tanto frequenti quanto impensabili? Negli ultimi anni, la rivoluzione delle grandi piattaforme digitali ha sedotto ampie fette dell’opinione pubblica, suscitato il supporto entusiastico del mondo accademico, ha innescato le marce alte sotto lo sguardo spesso benevolo dei regolatori. Le grandi società big tech si sono fatte portatori di messaggi per anni indiscussi, quasi messianici: la frase celebre dei fondatori di Google “on the internet, competition is one click away” è forse uno dei più seducenti e al tempo stesso rischiosi messaggi. L’idea che il commercio online e la potenza dei motori di ricerca fossero gli strumenti infallibili di una nuova fase di distruzione creatrice schumpeteriana ha consentito che le grandi piattaforme crescessero senza troppo temere le conseguenze di assurgere a posizioni di mercato dominanti. Se l’effetto per il consumatore finale è maggiore scelta e prezzi più bassi, l’approccio dei regolatori, specie statunitensi, è stato allora laissez faire, laissez passer. Eppure, la tutela del consumatore finale non è l’unico fine nobile della disciplina antitrust, né la misura del prezzo più basso è l’unico strumento con cui si misura. Il mercato stesso e la corretta competizione tra i suoi attori sono oggetto di tutela tanto quanto i consumatori. Il Digital Markets Act introduce l’applicazione di obblighi stringenti per i servizi di piattaforme che controllano l’accesso ai mercati digitali, il Digital Services Act prevede che le piattaforme online molto grandi, per garantire un adeguato livello di trasparenza e assunzione di responsabilità, diano evidenza di come vengono svolte alcune delle loro attività quali, ad esempio, la pubblicità online, e consentano alle autorità e ai ricercatori di poter accedere ad alcuni dei loro dati. Il DSA auspica, altresì, che determinate competenze vengano attribuite ad un’Autorità ad hoc, non ancora designata, le cui caratteristiche e le linee generali possono riconoscersi, nel nostro ordinamento, nell’attuale Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (“Agcom”), alla quale andrebbero riconosciute ulteriori competenze. Non dimentichiamo che l’Agcom nasce da una gemmazione di competenze che negli anni si sono aggiunte partendo dagli anni ‘80, come Garante per l’editoria, negli anni ‘90 come Garante della radiotelevisione e a partire dagli anni 2000, del nuovo processo di digitalizzazione. A questo unico organismo sono state così attribuite funzioni di regolamentazione e vigilanza nei settori delle telecomunicazioni, dell’audiovisivo, dell’editoria, delle poste e negli ultimi anni in materia digitale. Il paradigma culturale che accompagna queste due riforme europee sta cambiando, i principi che le ispirano sono il frutto di una presa di consapevolezza meditata, frutto di anni di giurisprudenza, innovazioni, tentativi: il DMA e il DSA presentano norme chiare contro l’abuso di posizione dominante, richiedono maggiore trasparenza sugli algoritmi e sui dati che li alimentano, aumentano la vigilanza sull’uso dei dati personali, impongono maggiore responsabilità alle piattaforme sui contenuti che diffondono. Nel nuovo ecosistema digitale, così visibile ovunque eppure così impalpabile, si forma l’opinione pubblica, prende vita il dibattito plurale, prende forma una nuova economia. Il corretto funzionamento dell’ecosistema digitale è dunque un bene pubblico. Sono queste le ragioni che dovrebbero spingere l’Italia a recuperare posizioni nella classifica che la vede oggi tra i Paesi dell’Unione meno digitalizzati, al fine di consentire, preservando la tutela di diritti e libertà fondamentali, l’accesso tanto ai cittadini quanto agli operatori del mercato alle enormi potenzialità della rete.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11369/436869
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