ABSTRACT Lo studio della potestà pubblica pone la questione del discrimen tra il potere autoritativo e il potere che tale non è. Taluno ha ricercato una soluzione semplice, ma di difficile appiglio teorico: rilievo dirimente assumerebbe la natura discrezionale o vincolata del provvedimento amministrativo. Seguendo tali coordinate, se si ritiene che nell’ambito dell’attività amministrativa il potere pubblico si caratterizzi per la definizione discrezionale del proprio contenuto, la categoria degli atti vincolati, in quanto dà attuazione a disposizioni legislative già definite nei contenuti, esula dall‘ambito di indagine dei provvedimenti autoritativi: il comando verrebbe direttamente dalla legge e non dalla pubblica autorità. Così argomentando, dovrebbe escludersi l’attività vincolata dall‘attività autoritativa, ammettendosi perciò che non tutta l‘attività amministrativa si caratterizza per essere autoritativa. Qualora viceversa ci si incentri sul piano degli effetti, l‘atto autoritativo è atto dotato di particolare forza e capacità di imporsi, caratteristica questa senz’altro comune all’atto vincolato. Senz‘altro un esempio di poteri che consentono di muoversi con ampia discrezionalità sull’an, sul quomodo e sul quando, sono i poteri istruttori dell’A.F., ma non può ritenersi che un potere sia contraddistinto solo dal libero esercizio o dalla libera definizione dei suoi contenuti. Il potere, oltre che per le modalità del suo esercizio, si qualifica anche sotto il profilo dell‘efficacia, perché un provvedimento può dirsi imperativo quando ha la capacità di imporsi e la forza per essere eseguito in assenza della cooperazione del destinatario. Un atto autoritativo esplica innanzitutto i propri effetti sulla posizione del privato destinatario del provvedimento, ma anche su terzi, variamente coinvolti dal potere pubblico. Punto cruciale per individuare gli strumenti di tutela azionabili contro gli atti e i comportamenti della pubblica autorità è l’identificazione della posizione giuridica soggettiva che si oppone al potere. In merito alla dicotomia diritto soggettivo + interesse legittimo, non soccorre in ausilio la previsione secondo cui la giurisdizione esclusiva, caratterizzata dall‘esercizio di una attività autoritativa, sarebbe luogo di incontro tra le diverse posizioni giuridiche soggettive. Può accadere, come è nostra opinione che accada nel procedimento tributario, che lo stesso individuo assuma una posizione diversa a seconda del momento procedimentale e della specifica pretesa avanzata. Si pensi agli effetti degli atti amministrativi illegittimi, poi annullati: si potrebbe opinare che l’effetto <degradante>, secondo la teoria c.d. dell’affievolimento, esplicato dall’esercizio del potere pubblico sulla sfera privata rende meri comportamenti gli effetti che si sono medio tempore prodotti in esecuzione di atti espressione di autorità, poi caducati per effetto di una pronuncia giudiziale di annullamento. In particolare, è lecito porsi la questione di quale posizione giuridica si configuri dinanzi a tale situazione o a fronte dell‘attività vincolata della P.A., al fine di cogliere i mezzi di tutela apprestati dall’ordinamento e dunque di delineare i poteri cognitori che caratterizzano le varie tipologie di giudizio. Se si ha riguardo ai caratteri dell’esecutività e dell’inoppugnabilità, sembra che ci si debba necessariamente indirizzare verso la sfera degli interessi legittimi. Ciò tuttavia deve tener conto di quanto si dirà in merito all’attività vincolata, e dell‘esistenza della giurisdizione esclusiva, cui è connaturata proprio la presenza di diritti. Argomentando in tema di sovranità tributaria ed interesse fiscale, va puntualizzato che la sovranità, intesa come potere politico, è organizzata in quanto all’attribuzione ad autorità pubbliche, all’individuazione dei poteri giuridici autoritativi atti a farla valere, alla determinata forza riconosciuta al titolare del potere. La sovranità tributaria, avente oggetto tributario, deve essere legale, nel senso che il suo esercizio richiede l’autorità legislativa e la forma di legge, e deve tradursi in una minima produzione di legge: la sovranità tributaria si risolve nell’esercizio del potere giuridico dell’autorità legislativa di istituire il tributo con norme ed assieme del potere giuridico in capo all’autorità amministrativa di integrare con proprio atto la disciplina del tributo. Attraverso la legge, il regolamento ed i provvedimenti trova esplicazione la sovranità tributaria. Le autorità pubbliche, dopo aver istituito il tributo per acquisire il fabbisogno di utilità necessario per lo svolgimento del loro agire, senza necessità del consenso dei consociati interessati, possono comminare sanzioni e punire comportamenti non conformi alle norme tributarie, ricorrendo anche all’impiego della coercizione per realizzare l’imposizione e la riscossione dei tributi. Rispetto all’oggetto tributario le autorità si sono fornite di poteri, allo scopo di provvedere ad un interesse economico che pertiene alle stesse autorità, il cosiddetto interesse fiscale pubblico. La Corte Costituzionale ha qualificato come tale l’interesse generale alla riscossione dei tributi, che è condizione di vita per la comunità, rendendo possibile il regolare funzionamento dei servizi statali. Perseguire tale interesse, come interesse della collettività e non dell’autorità, legittimerebbe alcune deroghe al diritto comune introdotte nel diritto tributario. La tutela dell’interesse fiscale serve a dare continuità e stabilità alla società, e per tale motivo è in posizione di supremazia rispetto ai singoli privati: la norma tributaria modella quindi le situazioni giuridiche attive e passive del rapporto tributario accordando la posizione di vantaggio alle autorità pubbliche di fronte al contribuente. Il tributo, pertanto, è dotato del mezzo generale della sovranità, che si vale di poteri autoritativi che solo le autorità o apparati pubblici possono usare per imporre l’osservanza della norma tributaria. In ragione di ciò, le autorità hanno il potere di istituire, imporre e riscuotere tributi, facendo ricorso anche alla coercizione. Sul tributo non può che imprimersi la struttura costituzionale dello Stato di diritto, che impone limiti all’esercizio della sovranità tributaria, individuandone le precise finalità e delimitandone i mezzi di esplicazione. Sul tributo incide altresì il riconoscimento e la garanzia delle libertà e delle autonomie e quindi i limiti entro cui il contribuente deve il tributo e deve soggiacere ai poteri autoritativi dell’amministrazione, ivi inclusi gli invasivi poteri di indagine istruttoria. L’atto impositivo, ricostruito come vedremo in termini di provvedimento amministrativo, è dotato di particolari attitudini effettuali, a sua volta espressione dell’esercizio di poteri autoritativi; il principio di esecutività degli atti provenienti da un’autorità nell’esercizio dei pubblici poteri, insegna la Consulta, rende obbligatorio per il privato adempiere, fatta salva un’adeguata tutela di fronte all’amministrazione resa efficacemente da un giudice dotato altresì di poteri sospensivi dell’esecuzione dell’atto. Non vanno trascurate esigenze di tutela oltre il momento sostanziale dell’imposizione, a fronte di penetranti mezzi coattivi d’indagine di cui è dotata in particolare l’Amministrazione finanziaria. In tale ambito vengono in rilievo diritti le libertà fondamentali dell’individuo, che hanno i loro corollari in facoltà di esclusione di intromissioni di terzi nella sfera personale, i quali potrebbero entrare in conflitto con l’interesse generale alla realizzazione del concorso di tutti alle spese pubbliche. Ne discende che la potenzialità di espansione di tali poteri, di per sé illimitata se valutata solo nelle visuale dell’intima connessione con la realizzazione del dovere di solidarietà, va circoscritta per le esigenze di garanzia del rispetto delle libertà costituzionali. Libertà, d’altronde, che senz’altro vanno limitate entro quanto strettamente necessitato dalla realizzazione del suddetto interesse generale: un bilanciamento di opposte posizioni che il legislatore per primo deve operare. In merito all’osservanza del principio di capacità contributiva nell’esercizio delle indagini fiscali, in dottrina si è spesso dubitato dell’applicabilità dell’art. 53 Cost. alle norme che istituiscono i poteri istruttori, sulla considerazione che il precetto della capacità contributiva nessun effetto condizionante avrebbe sulle disposizioni che non regolano gli aspetti sostanziali del concorso alle spese pubbliche, ma che sono rivolte a disciplinare le modalità di attuazione del prelievo. Va però osservata la stretta correlazione dei poteri di indagine con il soddisfacimento delle istanze solidaristiche enunciate nell’art. 53 Cost.: in altri termini, la dotazione di mezzi investigativi adeguati, come del resto tutti i profili procedimentali attinenti al controllo degli adempimenti ed alla ricerca delle prove delle violazioni, è essenziale a garantire l’osservanza del dovere costituzionale dell’effettività dell’imposizione e quindi del concorso di ciascuno alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva. Pertanto, l’art. 53 Cost., nella sua componente solidaristica, condiziona il legislatore nella dotazione dei poteri autoritativi all’A.F., funzionali al controllo dell’adempimento del dovere di concorso. Ancor più agevole è ricondurre la previsione dei poteri autoritativi istruttori alla componente garantistica dell’art. 53 Cost., che richiede il concorso di ciascuno in ragione della propria effettiva capacità contributiva. Non soltanto il legislatore deve, sul versante sostanziale, strutturare i presupposti impositivi ed i criteri di commisurazione della base imponibile in modo da tassare soltanto la reale capacità economica dei contribuenti, ma deve pure, sul versante procedimentale, tendere all’affermazione di modelli di ricostruzione analitica della base imponibile. Uno degli strumenti per realizzare appieno l’obiettivo di analitica ed esatta determinazione delle dimensioni quanti e qualitative delle operazioni fiscalmente rilevanti è proprio quello di fornire l’A.F. di poteri d’indagine diversificati ed invasivi, che consentano ad essa di ricostruire correttamente il presupposto e misurare imponibile ed imposta dovuta. Da quanto osservato deriva de plano che la maggior preferenza per la tassazione su basi effettive, o detto in altri termini per la ricostruzione casistica dell’imponibile su base documentale, comporta la previsione di poteri più penetranti ed ampi per gli uffici finanziari, con limitazione inversamente proporzionale dei diritti costituzionali di libertà. La dottrina che ammette la valenza dei principi di cui all’art. 53 Cost. nell’ambito dell’intero comportamento della P.A., giunge a riconoscerne lo stesso vigore nell’indirizzare e vincolare le scelte della stessa Amministrazione, alla quale spetta la scelta sui poteri da esercitare ed in che misura vadano utilizzati. Sull’A.F. incombe, inoltre, l’onere di offrire la reale ricostruzione della forza economica del contribuente, manifestata dal presupposto di fatto, con un adeguato supporto probatorio e di darne contezza con una congrua motivazione. In conclusione, le brevi riflessioni sulla portata dell’art. 53 Cost. nel campo dei poteri istruttori mostra l’inconferenza dell’antinomia, che invece si prospetta per gli aspetti sostanziali dell’imposizione, tra interesse del singolo alla tassazione su basi effettive e l’interesse della collettività al reperimento delle risorse per i bisogni pubblici: sia il profilo garantistico che quello solidaristico dell’art. 53 Cost. indirizzano il legislatore verso la previsione di adeguati poteri autoritativi d’indagine. Necessità di contemperamento tra contrapporti valori si rinvengono, invece, con riguardo all’incidenza dei mezzi investigativi coattivi su posizioni giuridiche costituzionalmente protette, quali le libertà fondamentali inviolabili ed i diritti economici: diritti e libertà che esigono, in negativo, il divieto di intromissione nella sfera personale dell’individuo, in potenziale conflitto, per quanto sinora detto, con strumenti intrusivi di controllo, la cui esigenza sia riferita alla piena realizzazione del concorso equo e generalizzato alle spese pubbliche. Momento di assoluto rilievo nella manifestazione del profilo autoritativo del potere tributario è quello probatorio, attraverso quel particolare sistema di regole normative che stabiliscono la tipologia di prove che si formano nella fase procedimentale e la loro valenza anche in sede processuale. La connessione tra potere tributario e prova dei fatti giuridici raggiunge il massimo grado nelle prove la cui efficacia dimostrativa è predeterminata ex lege. Il legislatore fiscale interviene sul piano probatorio allo scopo di riequilibrare la situazione di inferiorità conoscitiva in cui versa l’A.F. e talvolta con l’intento di sanzionare indirettamente comportamenti non collaborativi del contribuente. La peculiare disciplina tributaria in tema di prove non fonda le sue radici esclusivamente nel profilo autoritativo che connota l’agire dell’A.F., ossia nel potere tributario. D’altro canto, le regole dettate per l’istruttoria tributaria devono confrontarsi con esigenze di efficacia, precisione ed efficienza. La dimostrazione o il giudizio di fatto che l’Amministrazione è chiamata ad effettuare, non possono essere avulsi dal contesto storico di riferimento: l’A.F., pur avendo il potere di determinare unilateralmente come sono andati i fatti, è tenuta a motivare le ragioni del proprio operato, dimostrando in quale modo è pervenuta alla ricostruzione espressa nel provvedimento. Ciò che è imposto al legislatore sul piano sostanziale, di forgiare il presupposto del tributo tenendo conto di una capacità contributiva del soggetto passivo concreta, effettiva ed attuale, trova un corrispondente obbligo in capo all’A.F. che, nei controlli fiscali, deve accertare quegli stessi fatti, atti o situazioni che manifestano quella capacità di concorrere alle spese pubbliche. Vengono, quindi, in rilievo le esigenze di completezza conoscitiva che consentano all’A.F. la libera e consapevole formazione del proprio convincimento, attraverso: la partecipazione del contribuente al controllo, di indicare le prove della pretesa erariale nella motivazione dell’atto di accertamento, di applicare con congruità e ragionevolezza le disposizioni normative che prevedono preclusioni probatorie in capo al contribuente. Nel procedimento tributario l’acquisizione probatoria è caratterizzata da un sistema aperto, non essendo positivizzato un principio di tipicità dei mezzi di prova di cui può disporre l’Amministrazione finanziaria nell’accertare il corretto adempimento degli obblighi tributari dei contribuenti. Pur in presenza di disposizioni volte a disciplinare i poteri istruttori a disposizione degli uffici fiscali, non soltanto il legislatore usa spesso l’espressione di “elementi di prova comunque in possesso dell’Amministrazione finanziaria”, ma la stessa elencazione dei mezzi di acquisizione sembra puramente esemplificativa. Al riguardo, a parere di chi scrive, potrebbe trovare ingresso quella recente costruzione dogmatica, nata nel diritto amministrativo, circa l’ammissibilità dei c.d. “poteri impliciti”. Nell’intento di individuare gli ambiti della vincolatività dell’azione e gli eventuali spazi di dicrezionalità, occorre considerare che l’obbligazione tributaria viene ricondotta allo schema “norma+fatto” e non a quello “norma+potere+fatto”: la dottrina enfatizza così il ruolo dell’Amministrazione finanziaria, che nello stabilire l’an ed il quantum del tributo risolve giudizi di fatto e questioni di diritto. L’Amministrazione finanziaria è legittimata, attraverso la mediazione della legge, a ricostruire la situazione fattuale offrendone una versione che finisce con l’imporsi a quella effettuata dal contribuente. Essa, infatti, formula dei giudizi di fatto fortemente influenzati dalle scelte effettuate nel corso dell’attività di controllo, quali l’opzione per un determinato potere istruttorio e per l’intensità di utilizzo dello stesso; il giudizio di fatto confluisce poi nell’atto impositivo, avente carattere autoritativo, suscettibile di imporsi unilateralmente al contribuente ed essere portato in esecuzione coattiva. La dottrina in commento tende, quindi, a non sottovalutare l’apporto dell’A.F. nella ricostruzione della situazione fattuale anche nell’esercizio di un’attività amministrativa a carattere vincolato riconducibile allo schema concettuale norma+ fatto, quale è l’attività impositiva. L’azione dell’Amministrazione finanziaria è ripartibile in più momenti: una fase di indirizzo del contribuente, come la redazione di circolari o di risposte ad interpelli; un segmento procedimentale nel quale l’A.F. seleziona le posizioni da sottoporre a controllo sostanziale e per queste acquisisce le conoscenze, e le relative prove, sui fatti della realtà economica fiscalmente rilevanti; un momento di elaborazione dei giudizi fattuali e di sussunzione dei fatti nelle norme regolatrici, che culmina nell’espressione della potestà d’imposizione attraverso l’emanazione dell’atto di accertamento che contiene la pretesa erariale e/o dell’irrogazione delle sanzioni per comportamenti violativi delle norme che impongono obblighi comportamentali, dichiarativi, collaborativi e di versamento; un’ultima fase riguarda la riscossione, spontanea o coattiva, del tributo. Per quanto ci interessa in questa sede, nella fase dell’esercizio dei poteri istruttori l’A.F. esercita, in limitati casi, un potere discrezionale. Parte della dottrina riconduce alla discrezionalità tecnica la scelta del potere istruttorio da utilizzare nello specifico caso concreto, essendo espressione di una valutazione tecnica senza che rilevi un contrapposto interesse privato da ponderare. Per il vero, ci appare plausibile sostenere l’esatto contrario: un interesse privato che può essere soddisfatto o, viceversa sacrificato, e quindi necessitante di ponderazione deve riconoscersi se si vuole sindacare la scelta del mezzo di acquisizione probatoria ogniqualvolta sia particolarmente invasivo e non sia necessitato da esigenze istruttorie, rivelandosi quale mera scelta organizzativa interna alla struttura dell’organo procedente. In altri termini, ci si chiede se non possa in alcun modo formare oggetto di contestazione e ricognizione l’utilizzo di poteri tributari in fase istruttoria che comportino una sproporzionata limitazione o compressione dei diritti e libertà del contribuente controllato rispetto alle reali esigenze di indagine. Ed in effetti, la stessa dottrina riconosce come l’intensità nell’utilizzo dei poteri possa presentare momenti di discrezionalità amministrativa e non tecnica. Ma a ben vedere, ancor prima dell’esercizio di poteri istruttori, la selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo è attività rimessa ad una discrezionalità <mista>, tecnica ed amministrativa allo stesso tempo, poiché l’A.F. deve non soltanto scegliere i fenomeni a maggior rischio di evasione, ma altresì tener conto di altri fattori quali le risorse a disposizione per l’attività di controllo: utilizzando, quindi, cognizione tecniche, di scienze esatte come l’economia aziendale e la statistica, deve pure tener conto di interessi pubblici quali il buon andamento, l’efficacia e l’efficienza, la trasparenza e l’imparzialità dell’attività amministrativa, e qui si mostrano con evidenza profili di discrezionalità amministrativa. Va comunque osservato come l’attività dell’Amministrazione Finanziaria non vada circoscritta unicamente dalla sua preminente natura vincolata, com’è strettamente regolata dalla riserva di legge la potestà d’imposizione, ma ne occorra valorizzare anche il carattere discrezionale emergente in particolar modo nella fase istruttoria dell’attività di accertamento. Il problema della natura vincolata o discrezionale dell’agere amministrativo, incide marginalmente, secondo l’opinione che ci pare di condividere, sulla qualificazione della situazione giuridica soggettiva vantata dal contribuente. Come si è detto, anche nell’esercizio di un’attività interamente vincolata, la P.A. esercita pur sempre poteri autoritativi, nel senso visto in precedenza. Ciò considerato, stando all’insegnamento della Consulta, dove vi è spendita di potere pubblico vi è interesse legittimo e non diritto soggettivo. A maggior ragione la posizione soggettiva del contribuente a fronte dell’esercizio di poteri (autoritativi) di tipo discrezionale non può che qualificarsi come di interesse legittimo, avendo in tal caso la P.A. facoltà di scelta sulla ponderazione degli interessi pubblici e privati per la migliore realizzazione delle finalità sociali che la legge ad essa affida. E proprio nella materia che qui ci occupa, l’Amministrazione Finanziaria esercita poteri istruttori di natura discrezionale, perlomeno quanto al an, quid, quantum, quomodo. Pertanto, a nostro parere, al di là dei dubbi circa la natura di diritto soggettivo da attribuire alla posizione del contribuente a fronte della potestà di accertamento (intesa nella fase finale procedimentale di atto d’imposizione), non può opinarsi circa il sicuro atteggiarsi come interesse legittimo delle situazioni giuridiche soggettive del contribuente durante le indagini fiscali. Non sembra nemmeno al riguardo avere rilievo la circostanza, comunque non trascurabile, per cui l’esercizio dei poteri d’indagine si esternerebbe con atti amministrativi non provvedimentali (o meri atti amministrativi). Per il vero, riteniamo che l’esercizio dei poteri istruttori sia legittimato non da atti endoprocedimentali non provvedimentali (ai quali la dottrina riconduce perlopiù gli atti propulsivi del procedimento, tra cui le richieste, le proposte, le diffide e le contestazioni), ma da veri provvedimenti amministrativi che dottrina e giurisprudenza chiamano atti procedimentali e atti presupposti. Pare, quindi, potersi affermare che la natura autoritativa possa e debba esprimersi anche a fronte di atti di tal natura ed effetto: anzi, i poteri d’indagine tributaria sono una delle massime espressioni della natura pubblicistica delle funzioni e poteri attribuiti all’A.F. Quanto sinora argomentato in merito alla configurabilità in capo al contribuente di una posizione di interesse legittimo, sia nella fase istruttoria che a fronte dell’atto impositivo, ci porta inevitabilmente a non condividere l’attuale assetto della giurisdizione tributaria, limitata alla cognizione dei soli provvedimenti finali impositivi. La tutela differita non è tutela piena e, come si vedrà oltre, ciò stride col principio di effettività comunitariamente affermato. Va comunque meditato che durante l’attività di indagine vengono in rilievo numerosi diritti e libertà costituzionalmente garantiti, la cui violabilità per motivi di pubblico interesse, quale l’esigenza di accertare il rispetto degli obblighi tributari per tutelare il c.d. interesse fiscale della collettività al concorso alle spese pubbliche in ragione della reale capacità contributiva di ciascuno, rende delicato l’assetto delle contrapposte posizioni. Giova qui por mente alla giurisprudenza che riconosce un nucleo fondamentale di diritti inscalfibili da parte della pubblica autorità, tali da impedire l’effetto di affievolimento ad interesse legittimo a fronte di un illegittimo uso del potere. La giustificazione di una giurisdizione esclusiva, per materia, delle commissioni tributarie trova quindi nuova linfa nell’individuazione proprio di tali posizioni giuridiche soggettive di diritto di cui il contribuente dispone. In altri termini, la giurisdizione esclusiva trova fondamento nella cognizione del giudice tributario di diritti soggetti personalissimi, interessati in fase di controllo istruttorio, e di interessi legittimi, che vengono in rilievo nel restante segmento procedimentale di accertamento, fino ad includervi la fase conclusiva della emanazione dell’atto impositivo (e qui la nostra opinione collide con la dottrina maggioritaria, volta a definire la situazione del contribuente innanzi all’avviso di accertamento, e atti similari, come di diritto soggettivo all’integrità patrimoniale). La nostra sommessa opinione regge, quindi, al rilievo della natura esclusiva della giurisdizione tributaria. A questo punto vi è da chiedersi che funzione svolga l’indagine circa l’essenza del potere esercitato dall’Amministrazione in fase di indagini istruttorie, circa la natura della posizione giuridica vantata dal contribuente nei vari segmenti del procedimento di accertamento, circa i limiti della giurisdizione tributaria e le azioni ivi esperibili. Lo scopo è di dimostrare la insufficienza dei rimedi e tutele oggi offerte dal nostro ordinamento a salvaguardia della complessa situazione soggettiva del contribuente, e si intende ricondurre la problematica verso la soluzione di un ampliamento e riforma della giurisdizione tributaria, naturale giudice per l’inibitoria, l’annullamento, l’accertamento, la condanna, a fronte di qualsiasi potere esercitato dall’A.F. nell’attuazione del prelievo tributario. Per quanto sinora argomentato, l’accertamento tributario è procedimentalizzato in una serie di atti, aventi o meno rilevanza esterna, culminanti in un’archiviazione oppure in un atto impositivo contenente la pretesa del Fisco, pacificamente inquadrato tra i provvedimenti amministrativi. L’accertamento è fondato sui dati e notizie in possesso dell’ufficio o sulle prove da questi assunte mediante l’uso dei poteri istruttori d’indagine. La disciplina del procedimento tributario non enuncia un principio di tipicità dei mezzi istruttori, per cui si suole definire come un sistema probatorio <aperto>. Purtuttavia, il principio di legalità e di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, assistiti da riserve di legge e di giurisdizione, nonché i principi impressi negli artt. 97 e 101 Cost., costituiscono un limite all’esercizio dell’attività istruttoria. In dottrina si è affermato il principio di derivazione amministrativa della <invalidità derivata> o, addirittura della <caducazione automatica>, per indicare l’effetto che l’illegittimità degli atti endoprocedimentali riverbera sul provvedimento impositivo finale. Altra posizione in dottrina circoscrive la suddetta posizione eccessivamente garantista, invocando la sanzione dell’<inutilizzabilità> per le prove illegittimamente acquisite, ferma restando la legittimità dell’atto di accertamento fondato anche su altri elementi di prova legittimamente raccolti. E’ stato però osservato che l’inutilizzabilità delle prove assunte con modalità illecite o illegittime è prevista espressamente soltanto nel processo penale, e pertanto l’atto impositivo resterebbe immune da vizi, salva la possibilità di far valere la responsabilità del funzionario e dell’A.F. La giurisprudenza tributaria di merito conferma l’orientamento tendente a sostenere l’inutilizzabilità ai fini accertativi della documentazione illegittimamente acquisita, stabilendo che è necessario e consequenziale l’annullamento di un atto fondato esclusivamente su documenti dei quali è stata disposta la distruzione, in quanto illecitamente acquisiti all’origine, e poi utilizzati in differenti contesti e procedimenti derivati. Quanto alla giurisprudenza di legittimità, essa puntualizza che non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso. Di notevole spessore è l’esclusione dall’utilizzabilità che la Cassazione riserva senz’altro ai casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc. La giurisprudenza della Cassazione, quindi, sembra aderire da tempo allo schema dell’inutilizzabilità, perlomeno qualora l’esercizio di poteri d’indagine in violazione di legge leda o metta in pericolo alcuno dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati. Di particolare rilievo nel procedimento tributario, in gran parte caratterizzato da attività vincolate, è il secondo comma dell’art. 21+octies della Legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 della Legge 11 febbraio 2005, n. 15; eppure la disposizione sembra alquanto sottovalutata dalla dottrina tributaria. Con l’introduzione del precetto in questione, vengono previste delle eccezioni all’equazione illegittimità+annullabilità del provvedimento amministrativo, applicazione del principio di legalità formale. Per la ricostruzione della portata sistematica della norma de qua si è espresso un primo orientamento favorevole all’accostamento dei vizi formali ivi indicati con la categoria delle <mere irregolarità formali>. In critica a tale impostazione si è osservato che già la giurisprudenza antecedente alla novella del 2005 ne rinveniva già l’esistenza in quelle difformità dell’atto dal paradigma legale di irrilevante valore, attinenti solo ad aspetti estrinseci del provvedimento, non suscettibili di influenzare il corretto esercizio della funzione amministrativa. La valutazione richiesta dall’art. 21+octies è da effettuarsi in concreto ed ex post, in merito alla non incidenza del vizio formale sul contenuto dispositivo dell’atto: i vizi sulla forma e sul provvedimento possono in astratto produrre l’illegittimità del provvedimento, ma il giudice può verificare in concreto se la violazione formale abbia inciso sul contenuto dell’atto, cioè se esso sarebbe stato identico o difforme qualora la prescrizione sulla forma o sul procedimento fosse stata osservata. Altra teorica ha proposto di inquadrare la disposizione tra quelle che fissano la regola del raggiungimento dello scopo della norma violata: non può essere annullato l’atto che, benché viziato, ha raggiunto ugualmente il fine della norma rimasta inosservata. Anche tale impostazione è stata criticata sull’osservazione che i 21+octies salva l’atto non perché abbia realizzato comunque lo scopo della norma violata, ma perché il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso. Parte della dottrina e della giurisprudenza amministrative hanno quindi optato per una collocazione dell’art. 21+octies sul piano del diritto processuale, come applicazione della regola dell’interesse ad agire in giudizio come condizione di ammissibilità del ricorso. Nel tentativo di applicare in campo tributario le coordinate sin qui esposte in tema di 21+octies e vizi formali e procedimentali non invalidanti, ci si deve chiedere quale casistica si possa annoverare nel procedimento di accertamento tributario. Senza dubbio per i vizi di forma la questione è di più agevole soluzione, poiché, pur nella vigenza del principio di tipicità degli atti amministrativi, laddove una forma solenne non sia richiesta dalla legge espressamente a pena di nullità, la giurisprudenza tributaria fa prevalere da tempo i principi della conservazione degli effetti dell’atto che ha raggiunto il suo scopo e della <libertà delle forme>. Aspetti maggiormente problematici nell’estensione dell’ambito applicativo dell’art. 21+octies alla materia tributaria ci paiono presentarsi con riguardo ai vizi del procedimento, potendo in essi farvi rientrare, per quel che interessa in questa sede, le patologie degli atti istruttori. Si può, per tale via, formulare una nuova tesi, estrema, circa il trattamento da riservare alle prove illegittimamente raccolte, nel senso di ritenerle addirittura valide ed utilizzabili, senza alcuna sanzione di invalidità e senza effetti riverberanti sull’avviso di accertamento che solo su di esse fondi la pretesa impositiva. Difatti, ragionando sull’art. 21+octies, l’attività impositiva non può che dirsi vincolata, quantomeno sotto l’aspetto dell’an e del quantum della base imponibile e delle imposte, una volta acquisiti mezzi di prova dell’evasione o elusione fiscale, non residuando all’ufficio finanziario alcun margine di discrezionalità innanzi all’evidenza del presupposto verificatosi. La disamina della giurisprudenza amministrativa, che più si è occupata della norma in commento, ha evidenziato che il legislatore non ha inteso operare una qualificazione differenziata dei vizi di legittimità, dequotandone alcuni in mera irregolarità, ma ha inteso prevedere un meccanismo di salvaguardia del provvedimento illegittimo, il cui eventuale annullamento non produrrebbe un nuovo provvedimento di contenuto diverso da quello impugnato. Nell’applicare dette coordinate al rapporto d’imposta, si impongono due precisazioni. In primis, a ben vedere la giurisprudenza amministrativa riconosce la superfluità della pronuncia che annulli un provvedimento inficiato da vizi meramente formali o procedurali sulla scorta della considerazione che, in ipotesi di interessi legittimi pretensivi, il privato non otterrà comunque il bene della vita anelato, potendo la P.A. riemettere un provvedimento di identico contenuto di quello annullato, emendato del vizio. Nell’obbligazione tributaria la posizione giuridica soggettiva del contribuente di fronte all’atto impositivo, qualora non la si intenda come diritto soggettivo, è senz’altro annoverabile tra gli interessi legittimi oppositivi: il contribuente si oppone all’azione amministrativa e pertanto il suo interesse è soddisfatto dall’annullamento dell’atto di accertamento, salvi i danni. Il contribuente, quindi, ha l’interesse all’annullamento che, tra l’altro, potrebbe fargli conseguire l’immunità per quel periodo d’imposta considerato che nelle more processuali l’A.F. potrebbe incorre in decadenze dall’azione impositiva difficilmente superabili con un’ipotetica rimessine in termini. Nella nostra materia, pertanto, non dovrebbero valere le stesse considerazioni di inutilità della pronuncia, e quindi di difetto di interesse ad agire, che in altri settori dell’ordinamento amministrativo riguardano in particolare gli interessi legittimi. Altra, e forse più valida, ragione per depotenziare l’impatto dell’art. 21+octies nel diritto tributario è la considerazione del terreno probatorio su cui la disposizione si muove. Il primo periodo del comma 2 dell’articolo in questione fa riferimento alla mancanza di alternative di diritto, senza specificare, a differenza del secondo periodo, su chi incomba il relativo onere probatorio. Nella nostra materia, nella quale la tutela giudiziaria offerta dalle commissioni tributarie non può dirsi allo stato della legislazione affatto piena, non vige affatto il sistema acquisitivo, come per il processo amministrativo: il giudice, senza una precisa articolazione probatoria, non potrà d’ufficio attivare i poteri di cui all’art. 7 D.Lgs. 546/92, se non in funzione meramente integrativa delle prove offerte dalle parti. Secondo il principio processuale dispositivo in tema di prove ed il principio di vicinanza della prova, dunque, sarà l’Amministrazione Finanziaria a doversi far carico, per scongiurare l’annullamento dell’atto, di dimostrare in giudizio la validità e fondatezza della propria pretesa impositiva ed in particolare l’irrilevanza delle attività omesse o errate, contestate dal contribuente nel ricorso, sulle determinazioni finali contenute nel provvedimento. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, in particolare sul versante della dequotazione dei vizi attinenti la fase istruttoria del procedimento di accertamento, viene in rilievo la stringente esigenza di riconoscere una tutela diretta ed immediata al contribuente che subisca una lesione o compressione dei propri diritti ed interessi in tale fase, maggiormente nell’ipotesi in cui non segua l’emissione di un avviso di accertamento o in cui sullo stesso non si riverberino gli effetti dei vizi inficianti gli atti istruttori. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie escludono, sulla base del dato normativo, la possibilità di impugnare gli atti preparatori, in quanto non idonei a determinare una lesione attuale di un interesse sostanziale. Al contribuente, quindi, non resta che attendere l’atto impositivo per far valere con la sua impugnazione le omissioni ed i vizi degli atti prodromici, ivi inclusi gli atti dell’indagine fiscale. Viene però avvertita l’esigenza di una tutela diretta ed immediata in svariate ipotesi, in particolar modo ove si intendesse arrestare l’attività istruttoria illegittima in itinere, con azioni inibitorie o cautelari, allo scopo di evitare il prodursi o l’aggravarsi di un pregiudizio anche a diritti quali l’inviolabilità del domicilio, la segretezza della corrispondenza, il segreto professionale, etc. Si ponga poi mente ai casi di archiviazione del procedimento tributario, o di ininfluenza del vizio dell’atto a monte sulla validità dell’atto impositivo a valle, od ancora ai casi di sopraggiunto annullamento in autotutela dell’atto di accertamento: in tali casi nemmeno in sede di ricorso avverso l’atto impositivo può invocarsi una tutela per le lesioni a diritti ed interessi già avvenuta durante l’attività d’indagine viziata. Seguendo il percorso tracciato dalla teoria procedimentale dell’accertamento, gli atti intermedi endoprocedimentali restano strutturalmente distinti, benché connessi da un legame funzionale; da tanto emerge come ciascun atto, compresi gli atti istruttori, può costituire da sé il provvedimento finale e produrre effetti giuridici autonomi. Un tentativo nel senso di consentire la tutelabilità immediata contro l’esercizio illegittimo dei poteri istruttori ha portato parte della dottrina ad identificare la relativa situazione giuridica soggettiva del contribuente quale interesse legittimo, affermandone la giurisdizione del giudice amministrativo. Si può replicare osservando che la natura esclusiva della giurisdizione tributaria rende ad essa devolvibili sia le controversie aventi quale causa petendi il diritto soggettivo che l’interesse legittimo, rilevando la differente situazione giuridica soggettiva solo sul piano dei mezzi di tutela, con le precisazioni che si diranno in prosieguo. Altra impostazione dottrinaria ha sostenuto che la materia sia da devolvere al giudice ordinario, avverso cui sono esperibili azioni cautelari atipiche ed azioni inibitorie al prosieguo dell’istruttoria in itinere e all’utilizzabilità di atti o documenti. Vi è poi chi distingue tra carenza in concreto o cattivo uso del potere e carenza in astratto o difetto di attribuzione: nel primo caso il potere c’è, ma è mal esercitato, rendendo l’atto in cui si esplica illegittimo ed annullabile, nel secondo caso si tratta di inesistenza dell’atto istruttorio, che non può degradare i diritti in interessi e che non può produrre effetti nel mondo giuridico, nemmeno in mancanza di rimozione giudiziale su ricorso nei termini di decadenza. Alcuni studiosi, nell’invocare maggior tutela delle situazioni soggettive tributarie incise dall’esercizio illegittimo dell’attività di indagine fiscale, ricorrono all’intervento del Garante del contribuente, il quale, per il vero, è sfornito di poteri diversi da quelli annoverabili tra gli atti di impulso, sollecitazione, segnalazione. L’anticipazione del sindacato giurisdizionale sugli atti che siano immediatamente lesivi delle situazioni giuridiche soggettive vantate dal contribuente è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. Va oggi posta maggiore attenzione all’effettività della tutela giurisdizionale, avendo riguardo alle recenti evoluzioni della giurisprudenza europea, nonché intesa come pienezza di tutela anche alla recente riforma che ha introdotto il c.d. codice del processo amministrativo nel nostro ordinamento. In disparte l’azionabilità delle pretese del contribuente secondo l’impianto normativo e giustiziale nazionale, l’attività ispettiva del fisco deve “fare i conti”, a ragione, anche con la Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai paesi fondatori del Consiglio d’Europa. Nel Titolo primo (diritti e libertà) sono collocati sia il Diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5), sia il Diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). In particolare alla luce dell’art. 5 “ogni persona ha diritto alla libertà ed alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà (…)”, salvo che in casi tassativamente previsti e sempre nei modi prescritti dalla legge. Inoltre, a mente dell’art. 8 “ogni persona ha il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Gli artt. 5 e 8 trovano immediato ingresso tra i diritti e le libertà che originariamente, attraverso la costituzione della Convenzione, sono stati recepiti all’interno di un documento normativo che abbraccia i principi appartenenti alla sfera etico+morale del comune sentire umano (unitamente, in sintesi, al diritto alla vita, al divieto di tortura, al divieto della schiavitù e dei lavori forzati, al diritto ad un equo processo, al principio del nullum crimen sine lege, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, alla libertà di espressione, alla libertà di riunione e di associazione, al diritto di sposarsi, al diritto ad un ricorso effettivo, al divieto di discriminazione, al divieto di abuso di diritti). Con una modifica apportata alla Convenzione in data 11 maggio 1993, attraverso la firma a Strasburgo del cosiddetto “undicesimo protocollo”, entrato in vigore il 1^ novembre 1998, ratificato dall’Italia con la legge n. 296 del 28 agosto 1997, nasce la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, competente a giudicare sulle violazioni della Convenzione e che, sostituendo i due precedenti organi giurisdizionali (Commissione e Corte), accorpandone le funzioni, si prefigge, tra l’altro, una sensibile riduzione dei tempi della giustizia ed un consolidamento della propria giurisprudenza quale punto fermo per la tutela dei diritti umani. In quest’ottica si è pronunciata su un caso che riguarda il secondo comma dell’art. 8, in ordine all’ingerenza nell’esercizio del diritto del rispetto della vita privata e del domicilio della persona a seguito dell’agire della pubblica autorità. Tale ingerenza è possibile unicamente se prevista “dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale (…), per il benessere economico del Paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati (…), o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui”(art. 8, secondo comma). La Corte ha precisato che tale ingerenza potrebbe anche “estendersi a locali o attività aziendali o commerciali piuttosto che ad altri casi”. Alla luce di tale assunto giurisprudenziale, che trova conferma anche in alcune pronunce della Corte di Giustizia, il diritto al domicilio, essendo interpretabile come estendibile anche ai locali aziendali delle società, sia pure nei limiti e per gli esclusivi fini di cui al secondo comma dell’art. 8, implica che l’attività ispettiva del fisco che si estrinsechi in un accesso nei (soli) locali aziendali e non anche in quelli adibiti “ad abitazione” debba comunque essere assistita da adeguate garanzie. Sembrerebbe, dunque, che in un’ottica soprannazionale le garanzie per il contribuente, in veste di persona giuridica e non fisica, in relazione alla tutela domiciliare, assuma un carattere più stringente per la pubblica autorità rispetto a ciò che accade in ambito domestico, se + per quanto rileva in questa sede + il fisco si accinga ad eseguire un’ispezione o comunque ad esercitare un’attività investigativa potenzialmente invasiva dei diritti e delle libertà fondamentali. Infatti, alla luce del dato giurisprudenziale sopranazionale per ultimo citato, emerge che l’estensione del diritto al domicilio anche alle realtà aziendali, sia pur con i limiti di cui al secondo comma dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, faccia riflettere molto sull’avvertita necessità di un’estensione + magari attraverso sfumature graduate all’occorrenza + di alcune delle garanzie costituzionali attualmente a presidio della tutela domiciliare delle singole persone fisiche, anche alle “realtà domiciliari aziendali”. In quest’accezione non sembrerebbe eccessivo affermare che la vita privata del contribuente si svolge, oltre che nella propria abitazione, anche in altri contesti materiali quali, ad esempio, nell’ufficio della propria azienda; un’interpretazione del genere, tuttavia, farebbe nascere il fondato sospetto che alcuni passaggi del vigente quadro normativo nazionale di riferimento potrebbero essere in attrito con il postulato europeo.

Poteri autoritativi, posizioni soggettive e mezzi di tutela nelle indagini fiscali / Spinapolice, Walter. - (2012 Jun 12). [10.14274/UNIFG/FAIR/338327]

Poteri autoritativi, posizioni soggettive e mezzi di tutela nelle indagini fiscali

SPINAPOLICE, WALTER
2012-06-12

Abstract

ABSTRACT Lo studio della potestà pubblica pone la questione del discrimen tra il potere autoritativo e il potere che tale non è. Taluno ha ricercato una soluzione semplice, ma di difficile appiglio teorico: rilievo dirimente assumerebbe la natura discrezionale o vincolata del provvedimento amministrativo. Seguendo tali coordinate, se si ritiene che nell’ambito dell’attività amministrativa il potere pubblico si caratterizzi per la definizione discrezionale del proprio contenuto, la categoria degli atti vincolati, in quanto dà attuazione a disposizioni legislative già definite nei contenuti, esula dall‘ambito di indagine dei provvedimenti autoritativi: il comando verrebbe direttamente dalla legge e non dalla pubblica autorità. Così argomentando, dovrebbe escludersi l’attività vincolata dall‘attività autoritativa, ammettendosi perciò che non tutta l‘attività amministrativa si caratterizza per essere autoritativa. Qualora viceversa ci si incentri sul piano degli effetti, l‘atto autoritativo è atto dotato di particolare forza e capacità di imporsi, caratteristica questa senz’altro comune all’atto vincolato. Senz‘altro un esempio di poteri che consentono di muoversi con ampia discrezionalità sull’an, sul quomodo e sul quando, sono i poteri istruttori dell’A.F., ma non può ritenersi che un potere sia contraddistinto solo dal libero esercizio o dalla libera definizione dei suoi contenuti. Il potere, oltre che per le modalità del suo esercizio, si qualifica anche sotto il profilo dell‘efficacia, perché un provvedimento può dirsi imperativo quando ha la capacità di imporsi e la forza per essere eseguito in assenza della cooperazione del destinatario. Un atto autoritativo esplica innanzitutto i propri effetti sulla posizione del privato destinatario del provvedimento, ma anche su terzi, variamente coinvolti dal potere pubblico. Punto cruciale per individuare gli strumenti di tutela azionabili contro gli atti e i comportamenti della pubblica autorità è l’identificazione della posizione giuridica soggettiva che si oppone al potere. In merito alla dicotomia diritto soggettivo + interesse legittimo, non soccorre in ausilio la previsione secondo cui la giurisdizione esclusiva, caratterizzata dall‘esercizio di una attività autoritativa, sarebbe luogo di incontro tra le diverse posizioni giuridiche soggettive. Può accadere, come è nostra opinione che accada nel procedimento tributario, che lo stesso individuo assuma una posizione diversa a seconda del momento procedimentale e della specifica pretesa avanzata. Si pensi agli effetti degli atti amministrativi illegittimi, poi annullati: si potrebbe opinare che l’effetto , secondo la teoria c.d. dell’affievolimento, esplicato dall’esercizio del potere pubblico sulla sfera privata rende meri comportamenti gli effetti che si sono medio tempore prodotti in esecuzione di atti espressione di autorità, poi caducati per effetto di una pronuncia giudiziale di annullamento. In particolare, è lecito porsi la questione di quale posizione giuridica si configuri dinanzi a tale situazione o a fronte dell‘attività vincolata della P.A., al fine di cogliere i mezzi di tutela apprestati dall’ordinamento e dunque di delineare i poteri cognitori che caratterizzano le varie tipologie di giudizio. Se si ha riguardo ai caratteri dell’esecutività e dell’inoppugnabilità, sembra che ci si debba necessariamente indirizzare verso la sfera degli interessi legittimi. Ciò tuttavia deve tener conto di quanto si dirà in merito all’attività vincolata, e dell‘esistenza della giurisdizione esclusiva, cui è connaturata proprio la presenza di diritti. Argomentando in tema di sovranità tributaria ed interesse fiscale, va puntualizzato che la sovranità, intesa come potere politico, è organizzata in quanto all’attribuzione ad autorità pubbliche, all’individuazione dei poteri giuridici autoritativi atti a farla valere, alla determinata forza riconosciuta al titolare del potere. La sovranità tributaria, avente oggetto tributario, deve essere legale, nel senso che il suo esercizio richiede l’autorità legislativa e la forma di legge, e deve tradursi in una minima produzione di legge: la sovranità tributaria si risolve nell’esercizio del potere giuridico dell’autorità legislativa di istituire il tributo con norme ed assieme del potere giuridico in capo all’autorità amministrativa di integrare con proprio atto la disciplina del tributo. Attraverso la legge, il regolamento ed i provvedimenti trova esplicazione la sovranità tributaria. Le autorità pubbliche, dopo aver istituito il tributo per acquisire il fabbisogno di utilità necessario per lo svolgimento del loro agire, senza necessità del consenso dei consociati interessati, possono comminare sanzioni e punire comportamenti non conformi alle norme tributarie, ricorrendo anche all’impiego della coercizione per realizzare l’imposizione e la riscossione dei tributi. Rispetto all’oggetto tributario le autorità si sono fornite di poteri, allo scopo di provvedere ad un interesse economico che pertiene alle stesse autorità, il cosiddetto interesse fiscale pubblico. La Corte Costituzionale ha qualificato come tale l’interesse generale alla riscossione dei tributi, che è condizione di vita per la comunità, rendendo possibile il regolare funzionamento dei servizi statali. Perseguire tale interesse, come interesse della collettività e non dell’autorità, legittimerebbe alcune deroghe al diritto comune introdotte nel diritto tributario. La tutela dell’interesse fiscale serve a dare continuità e stabilità alla società, e per tale motivo è in posizione di supremazia rispetto ai singoli privati: la norma tributaria modella quindi le situazioni giuridiche attive e passive del rapporto tributario accordando la posizione di vantaggio alle autorità pubbliche di fronte al contribuente. Il tributo, pertanto, è dotato del mezzo generale della sovranità, che si vale di poteri autoritativi che solo le autorità o apparati pubblici possono usare per imporre l’osservanza della norma tributaria. In ragione di ciò, le autorità hanno il potere di istituire, imporre e riscuotere tributi, facendo ricorso anche alla coercizione. Sul tributo non può che imprimersi la struttura costituzionale dello Stato di diritto, che impone limiti all’esercizio della sovranità tributaria, individuandone le precise finalità e delimitandone i mezzi di esplicazione. Sul tributo incide altresì il riconoscimento e la garanzia delle libertà e delle autonomie e quindi i limiti entro cui il contribuente deve il tributo e deve soggiacere ai poteri autoritativi dell’amministrazione, ivi inclusi gli invasivi poteri di indagine istruttoria. L’atto impositivo, ricostruito come vedremo in termini di provvedimento amministrativo, è dotato di particolari attitudini effettuali, a sua volta espressione dell’esercizio di poteri autoritativi; il principio di esecutività degli atti provenienti da un’autorità nell’esercizio dei pubblici poteri, insegna la Consulta, rende obbligatorio per il privato adempiere, fatta salva un’adeguata tutela di fronte all’amministrazione resa efficacemente da un giudice dotato altresì di poteri sospensivi dell’esecuzione dell’atto. Non vanno trascurate esigenze di tutela oltre il momento sostanziale dell’imposizione, a fronte di penetranti mezzi coattivi d’indagine di cui è dotata in particolare l’Amministrazione finanziaria. In tale ambito vengono in rilievo diritti le libertà fondamentali dell’individuo, che hanno i loro corollari in facoltà di esclusione di intromissioni di terzi nella sfera personale, i quali potrebbero entrare in conflitto con l’interesse generale alla realizzazione del concorso di tutti alle spese pubbliche. Ne discende che la potenzialità di espansione di tali poteri, di per sé illimitata se valutata solo nelle visuale dell’intima connessione con la realizzazione del dovere di solidarietà, va circoscritta per le esigenze di garanzia del rispetto delle libertà costituzionali. Libertà, d’altronde, che senz’altro vanno limitate entro quanto strettamente necessitato dalla realizzazione del suddetto interesse generale: un bilanciamento di opposte posizioni che il legislatore per primo deve operare. In merito all’osservanza del principio di capacità contributiva nell’esercizio delle indagini fiscali, in dottrina si è spesso dubitato dell’applicabilità dell’art. 53 Cost. alle norme che istituiscono i poteri istruttori, sulla considerazione che il precetto della capacità contributiva nessun effetto condizionante avrebbe sulle disposizioni che non regolano gli aspetti sostanziali del concorso alle spese pubbliche, ma che sono rivolte a disciplinare le modalità di attuazione del prelievo. Va però osservata la stretta correlazione dei poteri di indagine con il soddisfacimento delle istanze solidaristiche enunciate nell’art. 53 Cost.: in altri termini, la dotazione di mezzi investigativi adeguati, come del resto tutti i profili procedimentali attinenti al controllo degli adempimenti ed alla ricerca delle prove delle violazioni, è essenziale a garantire l’osservanza del dovere costituzionale dell’effettività dell’imposizione e quindi del concorso di ciascuno alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva. Pertanto, l’art. 53 Cost., nella sua componente solidaristica, condiziona il legislatore nella dotazione dei poteri autoritativi all’A.F., funzionali al controllo dell’adempimento del dovere di concorso. Ancor più agevole è ricondurre la previsione dei poteri autoritativi istruttori alla componente garantistica dell’art. 53 Cost., che richiede il concorso di ciascuno in ragione della propria effettiva capacità contributiva. Non soltanto il legislatore deve, sul versante sostanziale, strutturare i presupposti impositivi ed i criteri di commisurazione della base imponibile in modo da tassare soltanto la reale capacità economica dei contribuenti, ma deve pure, sul versante procedimentale, tendere all’affermazione di modelli di ricostruzione analitica della base imponibile. Uno degli strumenti per realizzare appieno l’obiettivo di analitica ed esatta determinazione delle dimensioni quanti e qualitative delle operazioni fiscalmente rilevanti è proprio quello di fornire l’A.F. di poteri d’indagine diversificati ed invasivi, che consentano ad essa di ricostruire correttamente il presupposto e misurare imponibile ed imposta dovuta. Da quanto osservato deriva de plano che la maggior preferenza per la tassazione su basi effettive, o detto in altri termini per la ricostruzione casistica dell’imponibile su base documentale, comporta la previsione di poteri più penetranti ed ampi per gli uffici finanziari, con limitazione inversamente proporzionale dei diritti costituzionali di libertà. La dottrina che ammette la valenza dei principi di cui all’art. 53 Cost. nell’ambito dell’intero comportamento della P.A., giunge a riconoscerne lo stesso vigore nell’indirizzare e vincolare le scelte della stessa Amministrazione, alla quale spetta la scelta sui poteri da esercitare ed in che misura vadano utilizzati. Sull’A.F. incombe, inoltre, l’onere di offrire la reale ricostruzione della forza economica del contribuente, manifestata dal presupposto di fatto, con un adeguato supporto probatorio e di darne contezza con una congrua motivazione. In conclusione, le brevi riflessioni sulla portata dell’art. 53 Cost. nel campo dei poteri istruttori mostra l’inconferenza dell’antinomia, che invece si prospetta per gli aspetti sostanziali dell’imposizione, tra interesse del singolo alla tassazione su basi effettive e l’interesse della collettività al reperimento delle risorse per i bisogni pubblici: sia il profilo garantistico che quello solidaristico dell’art. 53 Cost. indirizzano il legislatore verso la previsione di adeguati poteri autoritativi d’indagine. Necessità di contemperamento tra contrapporti valori si rinvengono, invece, con riguardo all’incidenza dei mezzi investigativi coattivi su posizioni giuridiche costituzionalmente protette, quali le libertà fondamentali inviolabili ed i diritti economici: diritti e libertà che esigono, in negativo, il divieto di intromissione nella sfera personale dell’individuo, in potenziale conflitto, per quanto sinora detto, con strumenti intrusivi di controllo, la cui esigenza sia riferita alla piena realizzazione del concorso equo e generalizzato alle spese pubbliche. Momento di assoluto rilievo nella manifestazione del profilo autoritativo del potere tributario è quello probatorio, attraverso quel particolare sistema di regole normative che stabiliscono la tipologia di prove che si formano nella fase procedimentale e la loro valenza anche in sede processuale. La connessione tra potere tributario e prova dei fatti giuridici raggiunge il massimo grado nelle prove la cui efficacia dimostrativa è predeterminata ex lege. Il legislatore fiscale interviene sul piano probatorio allo scopo di riequilibrare la situazione di inferiorità conoscitiva in cui versa l’A.F. e talvolta con l’intento di sanzionare indirettamente comportamenti non collaborativi del contribuente. La peculiare disciplina tributaria in tema di prove non fonda le sue radici esclusivamente nel profilo autoritativo che connota l’agire dell’A.F., ossia nel potere tributario. D’altro canto, le regole dettate per l’istruttoria tributaria devono confrontarsi con esigenze di efficacia, precisione ed efficienza. La dimostrazione o il giudizio di fatto che l’Amministrazione è chiamata ad effettuare, non possono essere avulsi dal contesto storico di riferimento: l’A.F., pur avendo il potere di determinare unilateralmente come sono andati i fatti, è tenuta a motivare le ragioni del proprio operato, dimostrando in quale modo è pervenuta alla ricostruzione espressa nel provvedimento. Ciò che è imposto al legislatore sul piano sostanziale, di forgiare il presupposto del tributo tenendo conto di una capacità contributiva del soggetto passivo concreta, effettiva ed attuale, trova un corrispondente obbligo in capo all’A.F. che, nei controlli fiscali, deve accertare quegli stessi fatti, atti o situazioni che manifestano quella capacità di concorrere alle spese pubbliche. Vengono, quindi, in rilievo le esigenze di completezza conoscitiva che consentano all’A.F. la libera e consapevole formazione del proprio convincimento, attraverso: la partecipazione del contribuente al controllo, di indicare le prove della pretesa erariale nella motivazione dell’atto di accertamento, di applicare con congruità e ragionevolezza le disposizioni normative che prevedono preclusioni probatorie in capo al contribuente. Nel procedimento tributario l’acquisizione probatoria è caratterizzata da un sistema aperto, non essendo positivizzato un principio di tipicità dei mezzi di prova di cui può disporre l’Amministrazione finanziaria nell’accertare il corretto adempimento degli obblighi tributari dei contribuenti. Pur in presenza di disposizioni volte a disciplinare i poteri istruttori a disposizione degli uffici fiscali, non soltanto il legislatore usa spesso l’espressione di “elementi di prova comunque in possesso dell’Amministrazione finanziaria”, ma la stessa elencazione dei mezzi di acquisizione sembra puramente esemplificativa. Al riguardo, a parere di chi scrive, potrebbe trovare ingresso quella recente costruzione dogmatica, nata nel diritto amministrativo, circa l’ammissibilità dei c.d. “poteri impliciti”. Nell’intento di individuare gli ambiti della vincolatività dell’azione e gli eventuali spazi di dicrezionalità, occorre considerare che l’obbligazione tributaria viene ricondotta allo schema “norma+fatto” e non a quello “norma+potere+fatto”: la dottrina enfatizza così il ruolo dell’Amministrazione finanziaria, che nello stabilire l’an ed il quantum del tributo risolve giudizi di fatto e questioni di diritto. L’Amministrazione finanziaria è legittimata, attraverso la mediazione della legge, a ricostruire la situazione fattuale offrendone una versione che finisce con l’imporsi a quella effettuata dal contribuente. Essa, infatti, formula dei giudizi di fatto fortemente influenzati dalle scelte effettuate nel corso dell’attività di controllo, quali l’opzione per un determinato potere istruttorio e per l’intensità di utilizzo dello stesso; il giudizio di fatto confluisce poi nell’atto impositivo, avente carattere autoritativo, suscettibile di imporsi unilateralmente al contribuente ed essere portato in esecuzione coattiva. La dottrina in commento tende, quindi, a non sottovalutare l’apporto dell’A.F. nella ricostruzione della situazione fattuale anche nell’esercizio di un’attività amministrativa a carattere vincolato riconducibile allo schema concettuale norma+ fatto, quale è l’attività impositiva. L’azione dell’Amministrazione finanziaria è ripartibile in più momenti: una fase di indirizzo del contribuente, come la redazione di circolari o di risposte ad interpelli; un segmento procedimentale nel quale l’A.F. seleziona le posizioni da sottoporre a controllo sostanziale e per queste acquisisce le conoscenze, e le relative prove, sui fatti della realtà economica fiscalmente rilevanti; un momento di elaborazione dei giudizi fattuali e di sussunzione dei fatti nelle norme regolatrici, che culmina nell’espressione della potestà d’imposizione attraverso l’emanazione dell’atto di accertamento che contiene la pretesa erariale e/o dell’irrogazione delle sanzioni per comportamenti violativi delle norme che impongono obblighi comportamentali, dichiarativi, collaborativi e di versamento; un’ultima fase riguarda la riscossione, spontanea o coattiva, del tributo. Per quanto ci interessa in questa sede, nella fase dell’esercizio dei poteri istruttori l’A.F. esercita, in limitati casi, un potere discrezionale. Parte della dottrina riconduce alla discrezionalità tecnica la scelta del potere istruttorio da utilizzare nello specifico caso concreto, essendo espressione di una valutazione tecnica senza che rilevi un contrapposto interesse privato da ponderare. Per il vero, ci appare plausibile sostenere l’esatto contrario: un interesse privato che può essere soddisfatto o, viceversa sacrificato, e quindi necessitante di ponderazione deve riconoscersi se si vuole sindacare la scelta del mezzo di acquisizione probatoria ogniqualvolta sia particolarmente invasivo e non sia necessitato da esigenze istruttorie, rivelandosi quale mera scelta organizzativa interna alla struttura dell’organo procedente. In altri termini, ci si chiede se non possa in alcun modo formare oggetto di contestazione e ricognizione l’utilizzo di poteri tributari in fase istruttoria che comportino una sproporzionata limitazione o compressione dei diritti e libertà del contribuente controllato rispetto alle reali esigenze di indagine. Ed in effetti, la stessa dottrina riconosce come l’intensità nell’utilizzo dei poteri possa presentare momenti di discrezionalità amministrativa e non tecnica. Ma a ben vedere, ancor prima dell’esercizio di poteri istruttori, la selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo è attività rimessa ad una discrezionalità , tecnica ed amministrativa allo stesso tempo, poiché l’A.F. deve non soltanto scegliere i fenomeni a maggior rischio di evasione, ma altresì tener conto di altri fattori quali le risorse a disposizione per l’attività di controllo: utilizzando, quindi, cognizione tecniche, di scienze esatte come l’economia aziendale e la statistica, deve pure tener conto di interessi pubblici quali il buon andamento, l’efficacia e l’efficienza, la trasparenza e l’imparzialità dell’attività amministrativa, e qui si mostrano con evidenza profili di discrezionalità amministrativa. Va comunque osservato come l’attività dell’Amministrazione Finanziaria non vada circoscritta unicamente dalla sua preminente natura vincolata, com’è strettamente regolata dalla riserva di legge la potestà d’imposizione, ma ne occorra valorizzare anche il carattere discrezionale emergente in particolar modo nella fase istruttoria dell’attività di accertamento. Il problema della natura vincolata o discrezionale dell’agere amministrativo, incide marginalmente, secondo l’opinione che ci pare di condividere, sulla qualificazione della situazione giuridica soggettiva vantata dal contribuente. Come si è detto, anche nell’esercizio di un’attività interamente vincolata, la P.A. esercita pur sempre poteri autoritativi, nel senso visto in precedenza. Ciò considerato, stando all’insegnamento della Consulta, dove vi è spendita di potere pubblico vi è interesse legittimo e non diritto soggettivo. A maggior ragione la posizione soggettiva del contribuente a fronte dell’esercizio di poteri (autoritativi) di tipo discrezionale non può che qualificarsi come di interesse legittimo, avendo in tal caso la P.A. facoltà di scelta sulla ponderazione degli interessi pubblici e privati per la migliore realizzazione delle finalità sociali che la legge ad essa affida. E proprio nella materia che qui ci occupa, l’Amministrazione Finanziaria esercita poteri istruttori di natura discrezionale, perlomeno quanto al an, quid, quantum, quomodo. Pertanto, a nostro parere, al di là dei dubbi circa la natura di diritto soggettivo da attribuire alla posizione del contribuente a fronte della potestà di accertamento (intesa nella fase finale procedimentale di atto d’imposizione), non può opinarsi circa il sicuro atteggiarsi come interesse legittimo delle situazioni giuridiche soggettive del contribuente durante le indagini fiscali. Non sembra nemmeno al riguardo avere rilievo la circostanza, comunque non trascurabile, per cui l’esercizio dei poteri d’indagine si esternerebbe con atti amministrativi non provvedimentali (o meri atti amministrativi). Per il vero, riteniamo che l’esercizio dei poteri istruttori sia legittimato non da atti endoprocedimentali non provvedimentali (ai quali la dottrina riconduce perlopiù gli atti propulsivi del procedimento, tra cui le richieste, le proposte, le diffide e le contestazioni), ma da veri provvedimenti amministrativi che dottrina e giurisprudenza chiamano atti procedimentali e atti presupposti. Pare, quindi, potersi affermare che la natura autoritativa possa e debba esprimersi anche a fronte di atti di tal natura ed effetto: anzi, i poteri d’indagine tributaria sono una delle massime espressioni della natura pubblicistica delle funzioni e poteri attribuiti all’A.F. Quanto sinora argomentato in merito alla configurabilità in capo al contribuente di una posizione di interesse legittimo, sia nella fase istruttoria che a fronte dell’atto impositivo, ci porta inevitabilmente a non condividere l’attuale assetto della giurisdizione tributaria, limitata alla cognizione dei soli provvedimenti finali impositivi. La tutela differita non è tutela piena e, come si vedrà oltre, ciò stride col principio di effettività comunitariamente affermato. Va comunque meditato che durante l’attività di indagine vengono in rilievo numerosi diritti e libertà costituzionalmente garantiti, la cui violabilità per motivi di pubblico interesse, quale l’esigenza di accertare il rispetto degli obblighi tributari per tutelare il c.d. interesse fiscale della collettività al concorso alle spese pubbliche in ragione della reale capacità contributiva di ciascuno, rende delicato l’assetto delle contrapposte posizioni. Giova qui por mente alla giurisprudenza che riconosce un nucleo fondamentale di diritti inscalfibili da parte della pubblica autorità, tali da impedire l’effetto di affievolimento ad interesse legittimo a fronte di un illegittimo uso del potere. La giustificazione di una giurisdizione esclusiva, per materia, delle commissioni tributarie trova quindi nuova linfa nell’individuazione proprio di tali posizioni giuridiche soggettive di diritto di cui il contribuente dispone. In altri termini, la giurisdizione esclusiva trova fondamento nella cognizione del giudice tributario di diritti soggetti personalissimi, interessati in fase di controllo istruttorio, e di interessi legittimi, che vengono in rilievo nel restante segmento procedimentale di accertamento, fino ad includervi la fase conclusiva della emanazione dell’atto impositivo (e qui la nostra opinione collide con la dottrina maggioritaria, volta a definire la situazione del contribuente innanzi all’avviso di accertamento, e atti similari, come di diritto soggettivo all’integrità patrimoniale). La nostra sommessa opinione regge, quindi, al rilievo della natura esclusiva della giurisdizione tributaria. A questo punto vi è da chiedersi che funzione svolga l’indagine circa l’essenza del potere esercitato dall’Amministrazione in fase di indagini istruttorie, circa la natura della posizione giuridica vantata dal contribuente nei vari segmenti del procedimento di accertamento, circa i limiti della giurisdizione tributaria e le azioni ivi esperibili. Lo scopo è di dimostrare la insufficienza dei rimedi e tutele oggi offerte dal nostro ordinamento a salvaguardia della complessa situazione soggettiva del contribuente, e si intende ricondurre la problematica verso la soluzione di un ampliamento e riforma della giurisdizione tributaria, naturale giudice per l’inibitoria, l’annullamento, l’accertamento, la condanna, a fronte di qualsiasi potere esercitato dall’A.F. nell’attuazione del prelievo tributario. Per quanto sinora argomentato, l’accertamento tributario è procedimentalizzato in una serie di atti, aventi o meno rilevanza esterna, culminanti in un’archiviazione oppure in un atto impositivo contenente la pretesa del Fisco, pacificamente inquadrato tra i provvedimenti amministrativi. L’accertamento è fondato sui dati e notizie in possesso dell’ufficio o sulle prove da questi assunte mediante l’uso dei poteri istruttori d’indagine. La disciplina del procedimento tributario non enuncia un principio di tipicità dei mezzi istruttori, per cui si suole definire come un sistema probatorio . Purtuttavia, il principio di legalità e di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona, assistiti da riserve di legge e di giurisdizione, nonché i principi impressi negli artt. 97 e 101 Cost., costituiscono un limite all’esercizio dell’attività istruttoria. In dottrina si è affermato il principio di derivazione amministrativa della o, addirittura della , per indicare l’effetto che l’illegittimità degli atti endoprocedimentali riverbera sul provvedimento impositivo finale. Altra posizione in dottrina circoscrive la suddetta posizione eccessivamente garantista, invocando la sanzione dell’ per le prove illegittimamente acquisite, ferma restando la legittimità dell’atto di accertamento fondato anche su altri elementi di prova legittimamente raccolti. E’ stato però osservato che l’inutilizzabilità delle prove assunte con modalità illecite o illegittime è prevista espressamente soltanto nel processo penale, e pertanto l’atto impositivo resterebbe immune da vizi, salva la possibilità di far valere la responsabilità del funzionario e dell’A.F. La giurisprudenza tributaria di merito conferma l’orientamento tendente a sostenere l’inutilizzabilità ai fini accertativi della documentazione illegittimamente acquisita, stabilendo che è necessario e consequenziale l’annullamento di un atto fondato esclusivamente su documenti dei quali è stata disposta la distruzione, in quanto illecitamente acquisiti all’origine, e poi utilizzati in differenti contesti e procedimenti derivati. Quanto alla giurisprudenza di legittimità, essa puntualizza che non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso. Di notevole spessore è l’esclusione dall’utilizzabilità che la Cassazione riserva senz’altro ai casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc. La giurisprudenza della Cassazione, quindi, sembra aderire da tempo allo schema dell’inutilizzabilità, perlomeno qualora l’esercizio di poteri d’indagine in violazione di legge leda o metta in pericolo alcuno dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente tutelati. Di particolare rilievo nel procedimento tributario, in gran parte caratterizzato da attività vincolate, è il secondo comma dell’art. 21+octies della Legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 14 della Legge 11 febbraio 2005, n. 15; eppure la disposizione sembra alquanto sottovalutata dalla dottrina tributaria. Con l’introduzione del precetto in questione, vengono previste delle eccezioni all’equazione illegittimità+annullabilità del provvedimento amministrativo, applicazione del principio di legalità formale. Per la ricostruzione della portata sistematica della norma de qua si è espresso un primo orientamento favorevole all’accostamento dei vizi formali ivi indicati con la categoria delle . In critica a tale impostazione si è osservato che già la giurisprudenza antecedente alla novella del 2005 ne rinveniva già l’esistenza in quelle difformità dell’atto dal paradigma legale di irrilevante valore, attinenti solo ad aspetti estrinseci del provvedimento, non suscettibili di influenzare il corretto esercizio della funzione amministrativa. La valutazione richiesta dall’art. 21+octies è da effettuarsi in concreto ed ex post, in merito alla non incidenza del vizio formale sul contenuto dispositivo dell’atto: i vizi sulla forma e sul provvedimento possono in astratto produrre l’illegittimità del provvedimento, ma il giudice può verificare in concreto se la violazione formale abbia inciso sul contenuto dell’atto, cioè se esso sarebbe stato identico o difforme qualora la prescrizione sulla forma o sul procedimento fosse stata osservata. Altra teorica ha proposto di inquadrare la disposizione tra quelle che fissano la regola del raggiungimento dello scopo della norma violata: non può essere annullato l’atto che, benché viziato, ha raggiunto ugualmente il fine della norma rimasta inosservata. Anche tale impostazione è stata criticata sull’osservazione che i 21+octies salva l’atto non perché abbia realizzato comunque lo scopo della norma violata, ma perché il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso. Parte della dottrina e della giurisprudenza amministrative hanno quindi optato per una collocazione dell’art. 21+octies sul piano del diritto processuale, come applicazione della regola dell’interesse ad agire in giudizio come condizione di ammissibilità del ricorso. Nel tentativo di applicare in campo tributario le coordinate sin qui esposte in tema di 21+octies e vizi formali e procedimentali non invalidanti, ci si deve chiedere quale casistica si possa annoverare nel procedimento di accertamento tributario. Senza dubbio per i vizi di forma la questione è di più agevole soluzione, poiché, pur nella vigenza del principio di tipicità degli atti amministrativi, laddove una forma solenne non sia richiesta dalla legge espressamente a pena di nullità, la giurisprudenza tributaria fa prevalere da tempo i principi della conservazione degli effetti dell’atto che ha raggiunto il suo scopo e della . Aspetti maggiormente problematici nell’estensione dell’ambito applicativo dell’art. 21+octies alla materia tributaria ci paiono presentarsi con riguardo ai vizi del procedimento, potendo in essi farvi rientrare, per quel che interessa in questa sede, le patologie degli atti istruttori. Si può, per tale via, formulare una nuova tesi, estrema, circa il trattamento da riservare alle prove illegittimamente raccolte, nel senso di ritenerle addirittura valide ed utilizzabili, senza alcuna sanzione di invalidità e senza effetti riverberanti sull’avviso di accertamento che solo su di esse fondi la pretesa impositiva. Difatti, ragionando sull’art. 21+octies, l’attività impositiva non può che dirsi vincolata, quantomeno sotto l’aspetto dell’an e del quantum della base imponibile e delle imposte, una volta acquisiti mezzi di prova dell’evasione o elusione fiscale, non residuando all’ufficio finanziario alcun margine di discrezionalità innanzi all’evidenza del presupposto verificatosi. La disamina della giurisprudenza amministrativa, che più si è occupata della norma in commento, ha evidenziato che il legislatore non ha inteso operare una qualificazione differenziata dei vizi di legittimità, dequotandone alcuni in mera irregolarità, ma ha inteso prevedere un meccanismo di salvaguardia del provvedimento illegittimo, il cui eventuale annullamento non produrrebbe un nuovo provvedimento di contenuto diverso da quello impugnato. Nell’applicare dette coordinate al rapporto d’imposta, si impongono due precisazioni. In primis, a ben vedere la giurisprudenza amministrativa riconosce la superfluità della pronuncia che annulli un provvedimento inficiato da vizi meramente formali o procedurali sulla scorta della considerazione che, in ipotesi di interessi legittimi pretensivi, il privato non otterrà comunque il bene della vita anelato, potendo la P.A. riemettere un provvedimento di identico contenuto di quello annullato, emendato del vizio. Nell’obbligazione tributaria la posizione giuridica soggettiva del contribuente di fronte all’atto impositivo, qualora non la si intenda come diritto soggettivo, è senz’altro annoverabile tra gli interessi legittimi oppositivi: il contribuente si oppone all’azione amministrativa e pertanto il suo interesse è soddisfatto dall’annullamento dell’atto di accertamento, salvi i danni. Il contribuente, quindi, ha l’interesse all’annullamento che, tra l’altro, potrebbe fargli conseguire l’immunità per quel periodo d’imposta considerato che nelle more processuali l’A.F. potrebbe incorre in decadenze dall’azione impositiva difficilmente superabili con un’ipotetica rimessine in termini. Nella nostra materia, pertanto, non dovrebbero valere le stesse considerazioni di inutilità della pronuncia, e quindi di difetto di interesse ad agire, che in altri settori dell’ordinamento amministrativo riguardano in particolare gli interessi legittimi. Altra, e forse più valida, ragione per depotenziare l’impatto dell’art. 21+octies nel diritto tributario è la considerazione del terreno probatorio su cui la disposizione si muove. Il primo periodo del comma 2 dell’articolo in questione fa riferimento alla mancanza di alternative di diritto, senza specificare, a differenza del secondo periodo, su chi incomba il relativo onere probatorio. Nella nostra materia, nella quale la tutela giudiziaria offerta dalle commissioni tributarie non può dirsi allo stato della legislazione affatto piena, non vige affatto il sistema acquisitivo, come per il processo amministrativo: il giudice, senza una precisa articolazione probatoria, non potrà d’ufficio attivare i poteri di cui all’art. 7 D.Lgs. 546/92, se non in funzione meramente integrativa delle prove offerte dalle parti. Secondo il principio processuale dispositivo in tema di prove ed il principio di vicinanza della prova, dunque, sarà l’Amministrazione Finanziaria a doversi far carico, per scongiurare l’annullamento dell’atto, di dimostrare in giudizio la validità e fondatezza della propria pretesa impositiva ed in particolare l’irrilevanza delle attività omesse o errate, contestate dal contribuente nel ricorso, sulle determinazioni finali contenute nel provvedimento. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, in particolare sul versante della dequotazione dei vizi attinenti la fase istruttoria del procedimento di accertamento, viene in rilievo la stringente esigenza di riconoscere una tutela diretta ed immediata al contribuente che subisca una lesione o compressione dei propri diritti ed interessi in tale fase, maggiormente nell’ipotesi in cui non segua l’emissione di un avviso di accertamento o in cui sullo stesso non si riverberino gli effetti dei vizi inficianti gli atti istruttori. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie escludono, sulla base del dato normativo, la possibilità di impugnare gli atti preparatori, in quanto non idonei a determinare una lesione attuale di un interesse sostanziale. Al contribuente, quindi, non resta che attendere l’atto impositivo per far valere con la sua impugnazione le omissioni ed i vizi degli atti prodromici, ivi inclusi gli atti dell’indagine fiscale. Viene però avvertita l’esigenza di una tutela diretta ed immediata in svariate ipotesi, in particolar modo ove si intendesse arrestare l’attività istruttoria illegittima in itinere, con azioni inibitorie o cautelari, allo scopo di evitare il prodursi o l’aggravarsi di un pregiudizio anche a diritti quali l’inviolabilità del domicilio, la segretezza della corrispondenza, il segreto professionale, etc. Si ponga poi mente ai casi di archiviazione del procedimento tributario, o di ininfluenza del vizio dell’atto a monte sulla validità dell’atto impositivo a valle, od ancora ai casi di sopraggiunto annullamento in autotutela dell’atto di accertamento: in tali casi nemmeno in sede di ricorso avverso l’atto impositivo può invocarsi una tutela per le lesioni a diritti ed interessi già avvenuta durante l’attività d’indagine viziata. Seguendo il percorso tracciato dalla teoria procedimentale dell’accertamento, gli atti intermedi endoprocedimentali restano strutturalmente distinti, benché connessi da un legame funzionale; da tanto emerge come ciascun atto, compresi gli atti istruttori, può costituire da sé il provvedimento finale e produrre effetti giuridici autonomi. Un tentativo nel senso di consentire la tutelabilità immediata contro l’esercizio illegittimo dei poteri istruttori ha portato parte della dottrina ad identificare la relativa situazione giuridica soggettiva del contribuente quale interesse legittimo, affermandone la giurisdizione del giudice amministrativo. Si può replicare osservando che la natura esclusiva della giurisdizione tributaria rende ad essa devolvibili sia le controversie aventi quale causa petendi il diritto soggettivo che l’interesse legittimo, rilevando la differente situazione giuridica soggettiva solo sul piano dei mezzi di tutela, con le precisazioni che si diranno in prosieguo. Altra impostazione dottrinaria ha sostenuto che la materia sia da devolvere al giudice ordinario, avverso cui sono esperibili azioni cautelari atipiche ed azioni inibitorie al prosieguo dell’istruttoria in itinere e all’utilizzabilità di atti o documenti. Vi è poi chi distingue tra carenza in concreto o cattivo uso del potere e carenza in astratto o difetto di attribuzione: nel primo caso il potere c’è, ma è mal esercitato, rendendo l’atto in cui si esplica illegittimo ed annullabile, nel secondo caso si tratta di inesistenza dell’atto istruttorio, che non può degradare i diritti in interessi e che non può produrre effetti nel mondo giuridico, nemmeno in mancanza di rimozione giudiziale su ricorso nei termini di decadenza. Alcuni studiosi, nell’invocare maggior tutela delle situazioni soggettive tributarie incise dall’esercizio illegittimo dell’attività di indagine fiscale, ricorrono all’intervento del Garante del contribuente, il quale, per il vero, è sfornito di poteri diversi da quelli annoverabili tra gli atti di impulso, sollecitazione, segnalazione. L’anticipazione del sindacato giurisdizionale sugli atti che siano immediatamente lesivi delle situazioni giuridiche soggettive vantate dal contribuente è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. Va oggi posta maggiore attenzione all’effettività della tutela giurisdizionale, avendo riguardo alle recenti evoluzioni della giurisprudenza europea, nonché intesa come pienezza di tutela anche alla recente riforma che ha introdotto il c.d. codice del processo amministrativo nel nostro ordinamento. In disparte l’azionabilità delle pretese del contribuente secondo l’impianto normativo e giustiziale nazionale, l’attività ispettiva del fisco deve “fare i conti”, a ragione, anche con la Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai paesi fondatori del Consiglio d’Europa. Nel Titolo primo (diritti e libertà) sono collocati sia il Diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5), sia il Diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). In particolare alla luce dell’art. 5 “ogni persona ha diritto alla libertà ed alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà (…)”, salvo che in casi tassativamente previsti e sempre nei modi prescritti dalla legge. Inoltre, a mente dell’art. 8 “ogni persona ha il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Gli artt. 5 e 8 trovano immediato ingresso tra i diritti e le libertà che originariamente, attraverso la costituzione della Convenzione, sono stati recepiti all’interno di un documento normativo che abbraccia i principi appartenenti alla sfera etico+morale del comune sentire umano (unitamente, in sintesi, al diritto alla vita, al divieto di tortura, al divieto della schiavitù e dei lavori forzati, al diritto ad un equo processo, al principio del nullum crimen sine lege, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, alla libertà di espressione, alla libertà di riunione e di associazione, al diritto di sposarsi, al diritto ad un ricorso effettivo, al divieto di discriminazione, al divieto di abuso di diritti). Con una modifica apportata alla Convenzione in data 11 maggio 1993, attraverso la firma a Strasburgo del cosiddetto “undicesimo protocollo”, entrato in vigore il 1^ novembre 1998, ratificato dall’Italia con la legge n. 296 del 28 agosto 1997, nasce la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, competente a giudicare sulle violazioni della Convenzione e che, sostituendo i due precedenti organi giurisdizionali (Commissione e Corte), accorpandone le funzioni, si prefigge, tra l’altro, una sensibile riduzione dei tempi della giustizia ed un consolidamento della propria giurisprudenza quale punto fermo per la tutela dei diritti umani. In quest’ottica si è pronunciata su un caso che riguarda il secondo comma dell’art. 8, in ordine all’ingerenza nell’esercizio del diritto del rispetto della vita privata e del domicilio della persona a seguito dell’agire della pubblica autorità. Tale ingerenza è possibile unicamente se prevista “dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale (…), per il benessere economico del Paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati (…), o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui”(art. 8, secondo comma). La Corte ha precisato che tale ingerenza potrebbe anche “estendersi a locali o attività aziendali o commerciali piuttosto che ad altri casi”. Alla luce di tale assunto giurisprudenziale, che trova conferma anche in alcune pronunce della Corte di Giustizia, il diritto al domicilio, essendo interpretabile come estendibile anche ai locali aziendali delle società, sia pure nei limiti e per gli esclusivi fini di cui al secondo comma dell’art. 8, implica che l’attività ispettiva del fisco che si estrinsechi in un accesso nei (soli) locali aziendali e non anche in quelli adibiti “ad abitazione” debba comunque essere assistita da adeguate garanzie. Sembrerebbe, dunque, che in un’ottica soprannazionale le garanzie per il contribuente, in veste di persona giuridica e non fisica, in relazione alla tutela domiciliare, assuma un carattere più stringente per la pubblica autorità rispetto a ciò che accade in ambito domestico, se + per quanto rileva in questa sede + il fisco si accinga ad eseguire un’ispezione o comunque ad esercitare un’attività investigativa potenzialmente invasiva dei diritti e delle libertà fondamentali. Infatti, alla luce del dato giurisprudenziale sopranazionale per ultimo citato, emerge che l’estensione del diritto al domicilio anche alle realtà aziendali, sia pur con i limiti di cui al secondo comma dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, faccia riflettere molto sull’avvertita necessità di un’estensione + magari attraverso sfumature graduate all’occorrenza + di alcune delle garanzie costituzionali attualmente a presidio della tutela domiciliare delle singole persone fisiche, anche alle “realtà domiciliari aziendali”. In quest’accezione non sembrerebbe eccessivo affermare che la vita privata del contribuente si svolge, oltre che nella propria abitazione, anche in altri contesti materiali quali, ad esempio, nell’ufficio della propria azienda; un’interpretazione del genere, tuttavia, farebbe nascere il fondato sospetto che alcuni passaggi del vigente quadro normativo nazionale di riferimento potrebbero essere in attrito con il postulato europeo.
12-giu-2012
poteri istruttori, posizioni soggettive, indagini fiscali
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