La presente trattazione è volta ad illustrare le problematiche sottese alla tassazione degli atti giudiziari, con specifico riferimento all’imposta di registro e a definire gli esatti ambiti applicativi e di interpretazione dell’imposizione tributaria, previsti dalle disposizioni normative di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, così come innovate dai recenti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali. L’analisi avrà come punto di partenza l’excursus storico dell’imposizione di registro sugli atti giudiziari, conosciuta fin dai primordi delle comunità organizzate, sino alla legislazione francese del XVI secolo, antesignana dell’odierna legislazione. Non ci si potrà, poi, esimere dall’effettuare un approfondito esame della legislazione degli anni settanta e della sua evoluzione, alla luce degli imprescindibili interventi della Corte Costituzionale, che hanno consentito di inquadrare la normazione, in tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, in un’ottica costituzionalmente orientata e diretta, altresì, a considerare l’esercizio della tutela giurisdizionale quale espressione di capacità contributiva. Degli importanti spunti di riflessione riguarderanno la portata normativa delle disposizioni di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed art. 8 della Tariffa, allegata al detto D.P.R., al fine di verificare in quale rapporto di specificazione il legislatore abbia inteso porre le due disposizioni. A tal fine si procederà ad una disamina dettagliata della formulazione delle citate norme, volta ad evidenziare le criticità, in ordine all’individuazione delle fattispecie imponibili, in esse previste, nonchè il rapporto tra le stesse e gli effetti delle pronunce giurisdizionali. Particolare attenzione sarà, poi, dedicata all’analisi dei singoli provvedimenti giudiziali alla luce della loro qualificazione in ambito processuale e, conseguentemente, alla verifica della loro assoggettabilità all’imposta di registro, in forza dell’elencazione di cui all’art. 8 della Tariffa I, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986. Il presente studio sarà, inoltre, diretto a valutare se nei fatti sia stato rimosso quell’“incubo fiscale sul processo civile”, evidenziato da autorevole dottrina sin dai primi anni trenta del secolo scorso, attraverso l’analisi degli oneri fiscali come limite interno all’azione ed alla difesa giudiziale ovvero quale limite esterno al giudizio, tale da comprimere o, persino, grandemente inibire la stessa difesa giudiziale, poiché diretti a perseguire delle finalità ad esso del tutto estranee. Infatti, gli elevati costi fiscali del processo, utilizzati talvolta come strumento di leva fiscale costituiscono un limite all’accesso alla giustizia e alla compiuta realizzazione della garanzia costituzionale del diritto di difesa, ex art. 24 Cost. Dopo aver esaminato il dato testuale delle disposizioni di cui all’art. 37 D.P.R. 131 del 1986 ed art. 8 della Tariffa, allegata al detto D.P.R., si procederà con il verificare se l’imposizione di registro ricada sul provvedimento giurisdizionale o sui suoi effetti ed, in che modo, il tributo si rapporti alla pronuncia e agli stessi effetti giuridici, che l’atto è destinato a realizzare. L’atto processuale, infatti, non viene più considerato quale oggetto della tassazione, bensì quale espressione di un rapporto giuridico - economico rilevante sul piano fiscale, che trova in sede attuativa del tributo, le garanzie legislative per adeguare la stessa imposizione al precetto costituzionale di capacità contributiva. A completamento di tale trattazione si analizzeranno gli aspetti comparatistici tra l’ordinamento fiscale inglese e quello interno, con riferimento all’imposizione sugli atti giudiziari, evidenziando gli elementi di sicura peculiarità offerti dalla Stamp Duty Land Tax. Si evidenzierà, altresì, come tra le caratteristiche di maggiore rilievo della disciplina tributaria inglese vi è l’assenza di una normazione specifica in tema di atti giudiziari, poiché l’applicazione di tale imposta è rimessa ai tax cases ed alle Corti è demandata la ricerca dello “spirito” del contratto o della transazione, ai fini della stessa tassazione. Premesse generali. L’imposta di registro può definirsi, in termini generali, quale tributo percepito dallo Stato in occasione della registrazione degli atti formati per iscritto, nel suo territorio. In passato, il fondamento della suddetta imposta era rinvenibile nell’esigenza dello Stato di introitare dei tributi in occasione dei trasferimenti di ricchezza, nonché nell’assolvimento di un interesse pubblico diretto alla custodia, alla garanzia e all’attribuzione dell’autenticità degli atti pubblici e delle scritture private; tale funzione veniva assolta attraverso uffici all’uopo preposti, che svolgevano un servizio pubblico di carattere obbligatorio, reso in favore delle parti contrattuali, di terzi o, anche, dei contendenti in giudizio ed in occasione della registrazione veniva riscossa una somma ragguagliata all’importanza dell’atto. Pur tuttavia, deve evidenziarsi che, nel corso degli anni, il carattere di servizio pubblico ha perso sempre più rilevanza, poiché la registrazione degli atti eseguita su base volontaria, da parte dei contribuenti, si è quanto mai affievolita, cedendo il passo ad una registrazione di carattere prevalentemente obbligatorio, ragion per cui a fronte dei crescenti e rilevanti bisogni finanziari dello Stato la stessa registrazione ha assunto una funzione di strumento di leva fiscale. In ragione delle peculiarità proprie dell’imposta di registro e dell’evoluzione dell’istituto, si sono registrati diversi orientamenti dottrinali, in ordine all’esatta qualificazione della detta imposta. Secondo le prime interpretazioni, al tributo di registro poteva attribuirsi una valenza “nobile”, poiché ai fini della sua applicazione non solo era richiesta l’esistenza di un atto scritto, concretantesi in una manifestazione di volontà delle parti, ma era altresì indispensabile la ricerca della causa giuridica, fonte di produzione del contratto, al fine di collegare le ragioni dell’imposizione a quelle astratte e proprie del diritto civile. Dunque, il tributo di registro doveva cercare la sua legittima misura nei principi di diritto comune, così come rinvenibili nelle disposizioni del Codice civile, del Codice di commercio, poi abrogato, del Codice di procedura civile ed, in parte, del Codice di procedura penale. Successivamente, tale tributo è stato concepito più semplicemente quale prestazione pecuniaria riconducibile alla redazione di atti ed inquadrabile nell’ambito dello svolgimento un servizio pubblico divisibile e riferibile direttamente in capo all’obbligato, tanto da poter esser qualificato in termini di tassa o di prestazione paracommutativa. Secondo altra parte della dottrina, invero, nel tributo di registro veniva a coesistere sia la tassa, intesa quale vantaggio che il singolo rinveniva dalla registrazione, sia l’imposta, che colpiva una manifestazione di capacità contributiva. In base ad un altro orientamento dottrinario, invece, il tributo di registro presentava sia i caratteri propri della tassa, che quelli dell’imposta, anche se veniva espressamente riconosciuto “… che la quota dell’imposta soverchia di gran lunga quella della tassa, seppure non è un elemento decisivo perché si accolga la prima soluzione, può essere un notevole indizio dell’intendimento del legislatore di attribuire, nella configurazione del tributo, la prevalenza al presupposto dell’imposta di fronte a quello della tassa”. Tuttavia, un autorevole indirizzo dottrinale respingeva decisamente tale interpretazione, affermando che: “in un tributo non possono coesistere in diversa misura la tassa e l’imposta: il tributo o è tassa o è imposta o è altro genere di tributo, ma non può essere ad un tempo tassa ed imposta”. Ed ancora, secondo un’altra autorevole corrente dottrinale, poteva distinguersi la nozione d’imposta da quella di tassa, in considerazione di criteri essenzialmente giuridici, individuando nell’imposta l’obbligazione e nella tassa l’onere. Pertanto, il tributo di registro trovava la sua ragion d’essere in un’obbligazione ex lege, che “… possiede tutti i requisiti necessari per poter venire definita come imposta, a nulla rilevando la circostanza che alla produzione del fatto generatore (la registrazione dell’atto) abbia concorso anche la pubblica amministrazione e che da tale fatto il contribuente possa aver risentito un vantaggio”. La tassazione degli atti giudiziari. L’attività di protezione, nonché di sorveglianza, “equivalente ad un vero premio di sicurtà”, posta in essere dallo Stato è stata, altresì, garantita nell’ambito dell’esplicazione della funzione giurisdizionale, che, da sempre, ha rappresentato uno strumento di risposta alla violazione dei diritti tutelati nei diversi ordinamenti, costituendo un mezzo strumentale ed attuativo dei diritti contesi e sostitutivo del comportamento doveroso, non assunto spontaneamente dalle parti in causa. I provvedimenti giurisdizionali, infatti, sono volti a realizzare, in via indiretta e sostitutiva, una protezione agli interessi posti alla base dei diritti sostanziali violati, contestati o vantati dai contendenti in causa, al fine di pervenire ad un atto che abbia contenuto equivalente a quello del negozio giuridico, fonte del diritto violato, conteso o vantato, che, conseguentemente, deve essere assoggettato ad imposizione ai fini dell’imposta di registro. Tale imposizione, oltre a garantire le esigenze di gettito fiscale dello Stato, ha rappresentato l’occasione per far emergere nel processo quelle manifestazioni di capacità contributiva, che altrimenti sarebbero sfuggite alla tassazione. Pertanto, parte della dottrina ha utilizzato l’espressione seppur atecnica di “fiscalità giudiziaria”, proprio per intendere la necessità per lo Stato di finanziare, attraverso dei tributi giudiziali, il servizio pubblico della giustizia, nonché per far emergere all’interno del processo quelle manifestazioni di capacità contributiva da assoggettare, comunque, all’imposizione, anche attraverso l’uso di atti e l’esercizio di attività che altrimenti sarebbero vietate. Tuttavia, l’imposizione fiscale degli atti giudiziari ai fini del registro ha da sempre rappresentato un “costo fiscale” del processo, il cui onere non deve essere “tale e di tanta misura da rendere presumibilmente impossibile lo svolgimento delle attività processuali... ” risultando, altrimenti, “… in evidente contraddizione logica con la funzione del processo e con il principio sancito nell’art. 24 Cost.; la conclusione deve essere invece del tutto diversa se la prestazione abbia lo scopo e produca l’effetto di assicurare il migliore esercizio dei poteri processuali”. Pertanto, il prelievo tributario deve essere determinato in misura ragionevole, in rapporto all’interesse di parte ad ottenere la tutela ed il riconoscimento del proprio diritto azionato giudizialmente e diretto ad assolvere alla funzione di garanzia del superiore interesse pubblico all’accesso alla giustizia. Osservazioni generali ed analisi della rimozione degli “impedimenti fiscali al diritto dei cittadini di agire in giudizio” a fronte del denunciato “incubo fiscale” nel processo. L’excursus della legislazione italiana in tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, così come analizzata nel precedente capitolo, permette di ricostruire la ratio della disciplina attualmente vigente in termini totalmente nuovi rispetto al passato, se considerata anche alla luce dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, nonchè della normazione dettata in subiecta materia nel 1972 e del successivo approdo normativo, rappresentato dall’adozione del D.P.R. n. 131 del 1986. L’applicazione dell’imposta di registro agli atti giudiziari rappresenta uno strumento di emersione, in sede giurisdizionale, degli interessi giuridici privati, espressione di capacità contributiva e, nel contempo, di garanzia del “preminente interesse erariale” all’assoggettamento ad imposizione degli atti del processo; tale interesse erariale, comunque, non deve porsi in contrasto con i principi costituzionalmente sanciti e, quindi, non deve condizionare “… l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale all’adempimento del suo dovere di contribuente e dall’altro …” ritenendo “… legittime costituzionalmente le norme che prevedono oneri fiscali razionalmente collegati con la pretesa dedotta in giudizio e che non impediscano al processo uno svolgimento conforme alla sua funzione”. Peraltro, la nuova disciplina legislativa ha contribuito ad un radicale mutamento della natura del tributo, originariamente concepito come tassa dovuta per il servizio della giustizia, in imposta sugli effetti degli atti giudiziari. Le disposizioni di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, infatti, si limitano a determinare le categorie degli atti giudiziari e le modalità di soggezione all’imposta, mentre l’effettiva quantificazione è commisurata agli effetti dell’atto. Tale nuova impostazione, dunque, ha determinato anche il superamento della discussa distinzione tra le tasse giudiziali e contrattuali, così come quella relativa alla distinzione tra la tassa di enunciazione, dovuta nel caso di menzione di un atto o di una convenzione in un altro atto enunciante, e quella di tassa titolo, riferibile alle pronunce giudiziali fondate su convenzioni verbali o su titoli non registrati, poiché entrambe sono state ricondotte nell’ambito dell’enunciazione. Nel corso della presente trattazione si analizzeranno, quindi, gli atti giudiziari rilevanti ai fini dell’imposizione di registro ed il diverso atteggiarsi del tributo, in base al rapporto tra la portata dispositiva della pronuncia e l’effetto giuridico che viene a realizzarsi, poiché il processo non può considerarsi presupposto dell’imposizione, ma “l’occasione in cui atti, già di per sé tassabili in via astratta, vengono ad essere assoggettati ad imposta in funzione del proprio contenuto giuridico per effetto della loro acquisizione nell’ambito di un processo stesso”. Dunque, il presupposto dell’imposta deve individuarsi in atti, che già di per sé posseggono una certa attitudine contributiva, ma che assumono rilevanza tributaria qualora vengano devoluti in ambito processuale. In tal modo l’intervento dell’autorità giurisdizionale deve considerarsi accessorio, poiché al di là dell’adozione del provvedimento giudiziale, i termini della tassazione rimangono collegati alla natura dell’atto dedotto in giudizio rendendo oltremodo difficoltosa la coesistenza del binomio rappresentato dall’interesse generale alla riscossione dei tributi, rispetto al diritto del singolo ad ottenere un’effettiva tutela giurisdizionale. Sul punto la normativa previgente incideva in modo assolutamente pregnante sulle tutele costituzionalmente garantite, realizzando una compressione della libera iniziativa processuale delle parti, che si risolveva in una violazione del diritto di difesa e di uguaglianza. Tale costruzione giuridica risentiva indubbiamente di una “visione assolutistica del processo, attraverso cui consolidare le garanzie patrimoniali dello Stato, se non i privilegi dello stesso”. Anche la giurisprudenza costituzionale aveva, in parte, legittimato la previgente disciplina normativa, come nel caso dell’enunciazione, giustificando la limitazione del diritto d’azione nel caso del mancato assolvimento degli oneri fiscali. Pertanto, al fine di eliminare tale insostenibile situazione di illegittimità, vi è stata ad una modifica radicale del sistema tributario attraverso la previsione di un criterio direttivo, dettato dall’art. 7, n. 7 della citata Legge n. 825 del 1971, con il quale si è sancita la necessità di pervenire alla rimozione di “ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”, per garantire la preminenza del diritto di difesa sulle esigenze di natura tributaria. La ratio di tale disposizione era, infatti, quella di eliminare le situazioni di disuguaglianza cui dava luogo la previgente disciplina, che, ad esempio, non permetteva la produzione in giudizio degli atti per i quali non fosse stata osservata la formalità della registrazione. Gli oneri fiscali che gravavano sul processo, infatti, costituivano un fattore di grande disfunzione del nostro sistema giudiziario, poiché determinavano una subordinazione dell’esercizio dell’azione o della difesa giudiziale, garantiti dall’art. 24 Cost., all’assolvimento di oneri fiscali, anche per esigenze non direttamente connesse alla tutela giurisdizionale. L’onere fiscale, infatti, posto a carico delle parti in giudizio si riverberava sul loro interesse processuale e condizionava l’adozione del provvedimento giudiziario all’adempimento delle obbligazioni tributarie ad esso correlate. Il legislatore, infatti, comminava al mancato assolvimento degli oneri fiscali l’inefficacia, l’ineseguibilità, l’inutilizzabilità probatoria o l’improduttività della stessa azione ovvero sanciva l’inefficacia dei rapporti giuridici controversi oggetto della domanda di tutela giurisdizionale, determinando, nei fatti, anche un’inversione del criterio preferenziale delle prove precostituite, in favore di quelle costituende, qualora per le prime non vi fosse stata una regolarizzazione del predetto onere fiscale. Un punto di sicura frattura con tale impostazione normativa è rappresentato dalle pronunce di incostituzionalità dell’istituto del solve et repete, previsto nel quadro delle leggi dell’Italia post-unitaria, in base al quale si subordinava l’ammissibilità in giudizio delle opposizioni contenziose al previo adempimento dell’obbligazione tributaria, nonchè delle disposizioni che vietavano ai cancellieri di rilasciare copie o estratti di sentenze non registrate. Da ultimo, i recenti interventi normativi e giurisprudenziali hanno definitivamente sancito che il diritto d’azione non possa affievolirsi, né costituire un’“occasione di tassazione” per garantire l’esigenza di assicurare il gettito delle entrate statuali, non essendo possibile rendere un diritto sprovvisto della relativa azione, né negare la pienezza della difesa e la tutela degli interessi legittimi vantati dalle parti in giudizio, a fronte dell’assolvimento degli oneri fiscali. Una parte della dottrina ha, infatti, definito quale “incivile criterio”, l’utilizzo dell’esercizio della funzione giurisdizionale al fine di incrementare le entrate tributarie. Non può, inoltre, sfuggire il ricorrente tentativo del legislatore, già denunciato da un’autorevole e insigne dottrina, di reintrodurre nel processo delle punitive preclusioni di carattere fiscale, che si pongono in contrasto non solo con la citata disposizione legislativa di cui all’art. 7, n. 7, della Legge n. 825 del 1971, ma anche con le pronunzie della Corte costituzionale, attraverso le quali è stata evidenziata una netta differenza tra gli oneri imposti, che siano diretti ad “assicurare il miglior esercizio dei poteri processuali e la rispondenza di questi a quella funzione” e quelli che, invece, perseguono delle finalità estranee al processo. Pertanto, alla luce di quanto innanzi è evidente che permangano obiettivamente difficili i rapporti funzionali tra processo e fisco, per cui l’esasperata “fiscalità” nel processo crea indubbie interferenze di carattere fiscale che si palesano come inevitabili, costituendo una sorta di “male necessario”. Analisi del D.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986. Con l’adozione del D.P.R. n. 131 del 1986, il legislatore ha introdotto delle sostanziali modifiche rispetto alla previgente disciplina della tassazione degli atti giudiziari, prevista dal D.P.R. n. 634 del 1972, giungendo ad una sistemazione organica dell’intera materia e superando le questioni, che attanagliavano la vecchia disciplina, quali ad esempio, quelle relative alla distinzione tra la fase di formazione dell’atto giudiziario, della sua pubblicazione ovvero dell’emanazione, che attribuiva rilevanza giuridica allo stesso provvedimento. Dunque, l’attuale disciplina dell’imposta di registro sugli atti giudiziari, enunciata nel combinato disposto degli art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 e art. 8 della Tariffa I, Parte I, allegata al citato D.P.R., rinviene il proprio fondamento nel principio di tassativa elencazione degli atti soggetti alla formalità del registro, ragion per cui i provvedimenti non menzionati nelle categorie impositive normativamente previste, non sono soggetti ad imposta, né per essi vi è obbligo di registrazione. Per espressa previsione normativa, deve evidenziarsi che alcuni atti giudiziari sono esenti dall’imposizione, mentre per altri è stato previsto un trattamento agevolativo, in virtù delle finalità cui sono diretti ed in ragione della materia devoluta nel processo. In via generale, l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 enuclea i principi generali per l’applicazione dell’imposta, nonché le regole fondamentali che consentono l’individuazione degli atti giudiziali soggetti a registrazione in termine fisso. L’art. 8 della Tariffa, invece, prevede un’elencazione dettagliata degli atti soggetti ad imposizione, distinguendo i provvedimenti in base all’oggetto o alla natura della controversia e prevedendo per essi una differente misura del tributo. Il rapporto tra l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 e l’art. 8, Tariffa I, Parte I, all. al D.P.R. n. 131 del 1986. L’analisi dell’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, impone ai fini della sua interpretazione testuale e teleologica, di esser posto in correlazione con l’art. 8, Tariffa I, Parte I, allegata al citato D.P.R. Una parte della dottrina ha sostenuto che l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 costituisce una norma fondamentale, ai fini dell’individuazione del presupposto di fatto e dell’assoggettamento degli atti giudiziari all’applicazione ed al prelievo del tributo, ossia all’an dell’imposizione. L’art. 8 Tariffa I, Parte I, invece, avrebbe uno scopo complementare e di mera specificazione della norma di carattere generale, ex art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, in quanto diretta a stabilire il quantum ed il quomodo della tassazione, poiché in essa vi è l’esatta specificazione ed individuazione delle singole tipologie di atti giudiziari soggetti ad imposizione. Secondo un altro orientamento dottrinario, invece, tra le due disposizioni vi sarebbe una reciproca complementarietà, volta a realizzare l’applicazione del tributo, nonché ad evitare una tassazione generalizzata sui provvedimenti giudiziari, anche privi del carattere della definitorietà. Per contro, altra parte della dottrina ha affermato che all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 andrebbe attribuita una funzione integrativa e chiarificatrice dell’art. 8 Tariffa I, Parte I, al quale dovrebbe essere riconosciuta una funzione primaria di individuazione degli atti tassabili. Deve ulteriormente registrarsi l’orientamento assunto da altra parte della dottrina, che ha ritenuto del tutto sterile la disputa sulla natura esplicativa o tassativa dell’elencazione di atti di cui all’art. 8, Tariffa I, Parte I, in rapporto all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, poiché l’imponibilità degli atti giudiziari sarebbe da ricollegare alla natura della controversia dedotta in giudizio. Infatti, l’art. 2 della Tabella, prescrive che non vi è obbligo di registrazione per tutti quei i provvedimenti diversi da quelli elencati nelle categorie indicate dall’art. 8 della Tariffa. Il rapporto di correlazione tra l’art. 8 Tariffa e l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986. L’art. 8 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 deve necessariamente porsi in correlazione con l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, in ragione del rapporto di complementarietà e di parziale identità testuale sussistente tra le due disposizioni normative, come già specificato nel capitolo precedente. La prima parte dell’art. 8 della Tariffa prevede che siano soggette all’imposta di registro le medesime fattispecie imponibili già individuate nell’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed, in particolare, gli atti dell’autorità giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili, che definiscono il giudizio, in modo anche parziale, nonché i decreti ingiuntivi esecutivi; le sentenze che rendono efficaci nello Stato le sentenze straniere ed i provvedimenti che dichiarano esecutivi i lodi arbitrali. L’art. 8 Tariffa ricomprende nel genus degli atti giudiziari, in materia di controversie civili, due ulteriori fattispecie imponibili, ossia i provvedimenti di aggiudicazione e quelli di assegnazione, anche in sede di scioglimento delle comunioni. La disposizione prosegue, poi, individuando diverse tipologie di pronunce giurisdizionali, distinte per natura, contenuto ed effetti giuridici, nonchè per l’applicazione di aliquote d’imposta differenziate. Tali tipologie di atti, in alcuni casi, sono ricomprese in ampie categorie, come nell’ipotesi degli atti di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale (sub lett. c) ovvero i provvedimenti non recanti trasferimento, condanna o accertamento di diritti a contenuto patrimoniale (sub lett. d); in altri casi, sono circoscritte in ambiti limitati, come per i provvedimenti di omologazione (sub lett. g) o i provvedimenti che dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto (sub lett. e). All’art. 8 della Tariffa deve attribuirsi il ruolo di norma complementare, diretta a definire le regole di quantificazione ed attuazione del tributo ovvero di specificazione della portata della disposizione di carattere generale di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, che rappresenta la norma fondamentale, ai fini dell’individuazione del presupposto di fatto per l’assoggettamento degli atti giudiziari all’imposta di registro. Nella presente trattazione, dunque, saranno analizzate le fattispecie imponibili, contemplate dall’art. 8 Tariffa, diverse ed ulteriori rispetto a quelle di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed, in particolare, i provvedimenti di aggiudicazione e quelli di assegnazione, anche in sede di scioglimento di comunioni, oltreché gli atti indicati nelle seguenti lettere dell’art. 8 Tariffa: - lett. a), atti traslativi o costitutivi di diritti reali su beni immobili o su unità di diporto ovvero su altri beni o diritti; - lett. b), atti recanti condanna al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura; - lett. c), atti aventi per oggetto gli atti di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale; - lett. d), atti non recanti trasferimento, condanna o accertamento di diritti a contenuto patrimoniale; - lett. e), sentenze dichiarative della nullità o che pronunciano la risoluzione o l’annullamento di un atto, anche qualora comportino la retrocessione di beni o la restituzione di somme di denaro; - lett. f), le sentenze di scioglimento, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di separazione personale dei coniugi e di quelle modificative delle condanne al pagamento di assegni o delle attribuzioni di beni patrimoniali già facenti parte della comunione dei coniugi; - lett. g) di omologazione. L’esame sarà, inoltre, condotto sulla portata della disposizione di cui all’art. 8, comma 1 bis, Tariffa, introdotto dall’art. 33, comma 1, lett. a), Legge n. 388 del 23 dicembre 2000, che ha previsto l’assoggettabilità a tassazione degli atti emessi dal Consiglio di Stato e dai T.A.R., che definiscano, anche parzialmente il giudizio, compresi i decreti ingiuntivi esecutivi, recanti condanna al pagamento di somme di danaro diverse dalle spese processuali, con l’applicazione dell’imposta proporzionale nella misura del 3%. Infine, si analizzeranno le significative modificazioni relative alle note esplicative di cui all’art. 8 Tariffa, riguardanti i decreti ingiuntivi emessi in sostituzione di quelli divenuti inefficaci (nota I) e le sentenze di condanna al pagamento di corrispettivi o a prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986 (nota II), nonché i provvedimenti di accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione della proprietà immobiliare o di diritti reali di godimento (nota II bis). Considerazioni critiche. Alla luce delle argomentazioni svolte e dell’approfondita analisi del dettato normativo di cui agli artt. 37 D.P.R. n. 131 del 1986 ed 8 della Tariffa, Parte I, allegata al detto D.P.R., si ritiene opportuno svolgere delle prime considerazioni critiche sull’effettivo presupposto dell’imposizione di registro sugli atti giudiziari, rispetto alle diverse fattispecie provvedimentali esaminate nel presente studio. Invero, in tema di atti giudiziari, il verificarsi del presupposto impositivo e la misura dell’imposizione differiscono in base al provvedimento giudiziale adottato, ragion per cui il costrutto normativo costituito dagli artt. ult. cit., sembrerebbe discostarsi dai principi generali sanciti dal D.P.R. n. 131 del 1986. Tale analisi potrà essere condotta mediante una comparazione tra alcune fattispecie provvedimentali ed, in particolare, tra i decreti ingiuntivi, i provvedimenti giudiziari relativi al pagamento di corrispettivi o all’esecuzione di prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto ed i piani di riparto dell’attivo fallimentare. Con riguardo all’adozione di un decreto ingiuntivo deve ritenersi che il presupposto impositivo si realizza nel momento in cui viene attribuita allo stesso l’efficacia esecutiva, ai sensi degli artt. 642, 647, 648 e 653 c.p.c., poichè solo in tale momento si manifesta la capacità contributiva che promana dalla dichiarazione di credito, azionata esecutivamente, dandosi luogo all’applicazione dell’imposta in misura proporzionale. Invece, nell’ipotesi in cui un provvedimento giudiziario sancisca il pagamento di corrispettivi o l’esecuzione di prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986, lo stesso dovrà essere assoggettato all’imposta di registro solo in misura fissa, poiché il medesimo presupposto impositivo risulta già essere assoggettato ad imposizione ai fini dell’Iva, in conseguenza dalla mera inclusione della fattispecie dedotta in giudizio nell’ambito di tale sfera impositiva. Pertanto, anche nel caso in cui venga adottato un decreto di ingiunzione per il pagamento dei corrispettivi soggetti ad Iva, si farà luogo, salvo specifiche ipotesi, al versamento dell’imposta di registro in misura fissa. Infine, con riferimento al piano di riparto dell’attivo fallimentare e dei relativi decreti, che lo rendono esecutivo, deve evidenziarsi che l’ammontare del credito ed il relativo titolo risultando, di fatto, già determinati a seguito del decreto di ammissione allo stato passivo, sono assoggettati ad imposizione in misura fissa, poichè costituiscono meri atti di giurisdizione esecutiva privi di effetti traslativi. Dunque, la scelta di assoggettare i diversi e molteplici atti giudiziari all’imposizione di registro, in misura proporzionale o fissa, sembrerebbe rapportata più a decisioni di politica legislativa e fiscale, che al principio costituzionale dell’imponibilità degli atti in forza della capacità contributiva che gli stessi sono in grado di manifestare. Pertanto, così come si dirà ampiamente in seguito, la tassazione degli atti giudiziari ai fini dell’imposta di registro si discosta dai principi generali dettati dal D.P.R. n. 131 del 1986, per assumere dei connotati del tutto propri e peculiari, rispetto alla molteplicità e complessità delle fasi e dei provvedimenti giudiziari. In una prospettiva de iure condendo è sicuramente auspicabile una riforma del sistema impositivo, ai fini dell’imposta di registro, sugli atti giudiziari, che renda omogenea la stessa imposizione fiscale e conforme al principio costituzionale di cui all’art. 53 Cost. Tassazione degli atti giudiziari nell’ordinamento inglese: analisi della Stamp Duty Land Tax. Nell’ordinamento fiscale inglese era vigente sino al 30 novembre del 2003, l’imposta di bollo, cosiddetta “Stamp Duty”, con la quale si assoggettavano ad imposizione, attraverso la materiale apposizione di un bollo rosso, gli atti formati nel territorio inglese. Tuttavia, a partire dal 1° dicembre 2003, con il Finance Act è stata introdotta nel detto ordinamento la “Stamp Duty Land Tax”, che analogamente all’imposta sul reddito e sulle società si basa su un sistema di autovalutazione da parte del contribuente della stessa imposta. La Stamp Duty Land Tax è un’imposta applicabile prevalentemente alle transazioni ed è governata ed applicata in base a principi totalmente differenti rispetto alla Stamp Duty. Per costante giurisprudenza, infatti, in passato l’imposta di bollo veniva assolta sui provvedimenti resi dalle Corti, su cui erano apposte le marche e tali atti venivano presentati dalle parti per la registrazione. Attualmente, all’adozione di tali provvedimenti fa seguito l’applicazione la Stamp Duty Land Tax, che comunque non tiene luogo solo del mero dato letterale ma anche della natura del provvedimento adottato, anche in sede giudiziale, oltreché dalla domanda proposta in giudizio. La dottrina inglese ha rilevato che l’interpretazione della normativa sulla Stamp Duty Land Tax possa essere influenzata dall’adozione giudiziaria di principi teleologici, tant’è che il giudice non dovrebbe prestare troppa attenzione alla formulazione della legislazione, ma dovrebbe cercare di applicare lo “spirito” degli atti, che acquisiscono “una quota di rispettabilità e di integrità intellettuale come una costruzione intenzionale della normativa”. Dunque, l’applicazione della Stamp Duty Land Tax deve essere rapportata alla varietà di forme ed ai contenuti che i provvedimenti giudiziali resi dalle Corti inglesi possono assumere, tra i quali quelli di attribuzione della proprietà, quelli dichiarativi dell’esistenza di un diritto di una parte o che censurino una disposizione normativa ovvero che siano diretti a manifestare il consenso di persone, che non sono in grado di consentirne. Nell’ipotesi in cui le Corti attribuiscano la proprietà di un bene ad un soggetto, l’Her Majesty’s Revenue and Customs, il cui acronimo è HMRC, cercherà di imporre l’applicazione del tributo ai richiamati provvedimenti giudiziali. Per contro, la parte gravata del tributo cercherà di dimostrare che con tale provvedimento giudiziale è stato accertato un diritto e che, pertanto, non deve corrispondersi la Stamp Duty Land Tax. Infatti, nel caso in cui venga adottata una pronuncia giudiziale che accerti l’esistenza di un diritto e nessuna intervenuta modifica degli interessi delle parti, a causa degli eventi controversi dedotti in giudizio, non potrà darsi luogo ad imposizione fiscale, poiché potrebbe non esserci alcuna acquisizione o dismissione di una qualsiasi proprietà. In altri casi, la sentenza potrà riconoscere la modifica nel titolo di proprietà, come nel caso della “promessa di pagamento” ovvero l’esistenza di accordi equi, quali i “constructive trusts” ed istituti simili. In tali casi, le parti, facendo affidamento su dichiarazioni rese o in conseguenza della loro inattività, potrebbero aver sostenuto spese o aver modificato la loro posizione, così da diventare titolari di una qualche forma di interesse sulla proprietà contesa. In tali circostanze, in applicazione dei principi di equità, le Corti potrebbero riconoscere la validità di un contratto, anche in assenza della forma scritta, richiesta dalla Law of Property Act del 1989. La Corte, infatti, può individuare una qualche forma di obbligo legale per trasferire un interesse in una proprietà, sia per mezzo di un “equo contratto orale ma vincolante” o facendo riferimento a una qualche forma di fiducia implicita, poichè vi è una labile differenza, seppur fondamentale, tra ciò che è condizione e ciò che è il riconoscimento da parte del giudice, di una qualche forma di interesse, dalla quale può discendere l’imponibilità ai fini della Stamp Duty Land Tax di tale trasferimento. Rientra, quindi, nella discrezionalità giudiziaria verificare se il trasferimento orale di un bene costituisca un valido titolo per il trasferimento della proprietà e quale sia la data di efficacia di tali operazioni. La Corte ha indicato che vi sono dei principi di equità che intervengono per creare un contratto orale che sia vincolante e valido per le parti e sufficiente per superare i requisiti richiesti dalla Law of Property Act del 1989, s 2. In tali casi, senza dubbio viene a realizzarsi un’operazione imponibile, che, comunque, dovrà essere vagliata in base ad un’analisi dettagliata della situazione, per determinare se e quali diritti vengono creati e se vengono in rilievo nelle opere o nei servizi forniti o eseguiti. In molti casi accade che le Corti possano decidere che non intendono qualificare il rapporto giuridico intervenuto tra le parti, poiché tali disposizioni riguardano i rapporti di natura interna, che le parti hanno costituito, essendo maggiormente favorevoli a riconoscere forme di donazione, più che di contratto. Tale impostazione si riduce ad una questione riconducibile a canoni di mera presunzione. Tuttavia, laddove vi siano elementi significativi che permettano di ricondurre tali fattispecie nell’ambito degli accordi commerciali, allora le Corti potranno più facilmente imputare alle intenzioni delle parti la volontà di stabilire dei rapporti giuridici attraverso i principi di equità, al fine di configurare l’intervenuta costituzione di un valido contratto orale nonostante la Law of Property Act del 1989, s. 2. Dunque, nel caso in cui vi sia un contratto, concordato tra le parti ovvero la cui esistenza sia accertata dalla Corte, tale atto o provvedimento sarà in grado di formare la base per un’operazione imponibile ai fini della Stamp Duty Land Tax. Conclusioni Nell’ambito dello studio della tassazione degli atti giudiziari ai fini dell’imposta di registro, l’analisi dell’excursus normativo ha consentito di comprendere quale importanza abbia rivestito l’istituto de quo nelle comunità di riferimento, quale strumento diretto a consentire l’accesso alla giustizia, nonché a far emergere quelle forme di ricchezza, che altrimenti sarebbero sfuggite alla tassazione. Pertanto, la sede giurisdizionale ha rappresentato non solo il mezzo di risoluzione dei conflitti privati, ma anche la fonte attraverso cui consolidare i privilegi e le garanzie patrimoniali e finanziarie dello Stato, tanto da incidere sul diritto di difesa e di uguaglianza dei cittadini, costituzionalmente garantiti. A riprova di quanto innanzi, si è potuto constatare che i cosiddetti “oneri fiscali” sul processo hanno costituito un fattore di grande disfunzione del nostro sistema giudiziario, poiché subordinando l’esercizio dell’azione o della difesa giudiziale all’assolvimento di oneri fiscali, hanno condizionato l’interesse processuale delle parti e l’adozione dei provvedimenti giudiziari, all’adempimento delle obbligazioni tributarie ad essi correlate. Tuttavia, la ratio della disciplina dettata in subiecta materia dal D.P.R. n. 131 del 1986, attualmente vigente, ha rappresentato un punto di sicura frattura con la previgente legislazione, segnando il passaggio dalla tassa dovuta per il servizio della giustizia, all’imposta sugli effetti degli atti giudiziari. Il processo, dunque, non rappresenta più il presupposto dell’imposizione, ma “l’occasione” per assoggettare ad imposizione degli atti che, devoluti in ambito processuale, siano già di per sé tassabili in via astratta. L’analisi del costrutto normativo di cui agli artt. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed 8, Tariffa I, allegata al richiamato D.P.R., ha permesso di ricostruire gli esatti termini di qualificazione e di applicazione dell’imposta di registro agli atti giudiziari, ponendo una questione di indubbio spessore, rappresentata dall’includibilità o meno della disciplina de quo nell’ambito dei principi generali sanciti dal D.P.R. n. 131 del 1986 ovvero in un sistema ad esso avulso o sui generis. Il legislatore, rispetto alle altre forme di imposizione previste in tema di imposta di registro, ha sicuramente inteso delineare, per gli atti giudiziari, un sistema impositivo specifico, tant’è che ad esso non sarebbe applicabile la disciplina di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, in forza della quale l’imposta di registro è, comunque, dovuta in ragione dell’intrinseca natura degli atti e degli effetti giuridici, che gli stessi sono destinati a realizzare, anche qualora non vi corrisponda il titolo o la forma giuridica esteriore. In tal modo, infatti, gli atti giudiziari verrebbero assoggettati all’imposizione di registro, in base ad elementi estrinseci od extratestuali, attraverso la ricerca dello “spirito” originario degli atti dedotti in giudizio, così come accade ad esempio nelle Corti inglesi, nell’ambito di un ordinamento di common law. Tuttavia, ciò determinerebbe un mancato raccordo della disciplina di registro sugli atti giudiziari al precetto costituzionale di capacità contributiva, sancito dall’art. 53 Cost., in tal modo realizzando surrettiziamente e di fatto un sistema impositivo di tipo “creativo”. Il legislatore, invece, ha delineato un sistema impositivo fondato essenzialmente sulla nomenclatura dei provvedimenti giudiziari, differenziandone il presupposto e la misura dell’imposizione in base al provvedimento giudiziale adottato. Dunque, la tassazione degli atti giudiziari ai fini dell’imposta di registro si discosta dai principi generali dettati dal D.P.R. n. 131 del 1986, per assumere dei connotati del tutto propri e peculiari, rispetto alla molteplicità e complessità delle fasi e dei provvedimenti giudiziari. Alla luce delle osservazioni svolte, si è avuto modo di rilevare che il problema relativo all’incubo fiscale sul processo civile, posto quasi un secolo fa da autorevolissima dottrina, non possa considerarsi svanito a causa dell’esasperata fiscalità ancora presente nel processo, che crea comunque indubbie ed inevitabili interferenze che di fatto rappresentano una sorta di “male necessario”. Pertanto, si rende quanto mai necessaria una riforma dell’attuale sistema impositivo, anche alla luce della fiscalità di vantaggio prevista dalle “misure di degiurisdizionalizzazione” del contenzioso civile, quali la mediazione, prevista dal D.Lgs. n. 28 del 2010 e la negoziazione assistita, disciplinata dalla Legge n. 162 del 2014. Tali strumenti deflattivi del contenzioso e di composizione stragiudiziale delle liti, nella realtà dei fatti introducono delle consistenti franchigie in sede di registrazione degli atti, prevedendo delle forme di applicazione dell’imposta di registro in misura diversa o fortemente ridotta rispetto all’imposizione prevista per i corrispondenti atti negoziali o provvedimenti giudiziali. Conclusivamente, può affermarsi che l’imposizione di registro in tema di atti giudiziari si appresta ad attraversare una nuova fase, rendendo quanto mai opportuna e necessaria una riforma organica, che sia agganciata ai precetti costituzionali del diritto di difesa e di capacità contributiva, più che alle contingenti scelte di politica legislativa e fiscale.
LA TASSAZIONE DEGLI ATTI GIUDIZIARI AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO / DI GIOVINE, Raffaele. - (2015 Apr 20). [10.14274/UNIFG/FAIR/338201]
LA TASSAZIONE DEGLI ATTI GIUDIZIARI AI FINI DELL’IMPOSTA DI REGISTRO
DI GIOVINE, RAFFAELE
2015-04-20
Abstract
La presente trattazione è volta ad illustrare le problematiche sottese alla tassazione degli atti giudiziari, con specifico riferimento all’imposta di registro e a definire gli esatti ambiti applicativi e di interpretazione dell’imposizione tributaria, previsti dalle disposizioni normative di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, così come innovate dai recenti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali. L’analisi avrà come punto di partenza l’excursus storico dell’imposizione di registro sugli atti giudiziari, conosciuta fin dai primordi delle comunità organizzate, sino alla legislazione francese del XVI secolo, antesignana dell’odierna legislazione. Non ci si potrà, poi, esimere dall’effettuare un approfondito esame della legislazione degli anni settanta e della sua evoluzione, alla luce degli imprescindibili interventi della Corte Costituzionale, che hanno consentito di inquadrare la normazione, in tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, in un’ottica costituzionalmente orientata e diretta, altresì, a considerare l’esercizio della tutela giurisdizionale quale espressione di capacità contributiva. Degli importanti spunti di riflessione riguarderanno la portata normativa delle disposizioni di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed art. 8 della Tariffa, allegata al detto D.P.R., al fine di verificare in quale rapporto di specificazione il legislatore abbia inteso porre le due disposizioni. A tal fine si procederà ad una disamina dettagliata della formulazione delle citate norme, volta ad evidenziare le criticità, in ordine all’individuazione delle fattispecie imponibili, in esse previste, nonchè il rapporto tra le stesse e gli effetti delle pronunce giurisdizionali. Particolare attenzione sarà, poi, dedicata all’analisi dei singoli provvedimenti giudiziali alla luce della loro qualificazione in ambito processuale e, conseguentemente, alla verifica della loro assoggettabilità all’imposta di registro, in forza dell’elencazione di cui all’art. 8 della Tariffa I, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986. Il presente studio sarà, inoltre, diretto a valutare se nei fatti sia stato rimosso quell’“incubo fiscale sul processo civile”, evidenziato da autorevole dottrina sin dai primi anni trenta del secolo scorso, attraverso l’analisi degli oneri fiscali come limite interno all’azione ed alla difesa giudiziale ovvero quale limite esterno al giudizio, tale da comprimere o, persino, grandemente inibire la stessa difesa giudiziale, poiché diretti a perseguire delle finalità ad esso del tutto estranee. Infatti, gli elevati costi fiscali del processo, utilizzati talvolta come strumento di leva fiscale costituiscono un limite all’accesso alla giustizia e alla compiuta realizzazione della garanzia costituzionale del diritto di difesa, ex art. 24 Cost. Dopo aver esaminato il dato testuale delle disposizioni di cui all’art. 37 D.P.R. 131 del 1986 ed art. 8 della Tariffa, allegata al detto D.P.R., si procederà con il verificare se l’imposizione di registro ricada sul provvedimento giurisdizionale o sui suoi effetti ed, in che modo, il tributo si rapporti alla pronuncia e agli stessi effetti giuridici, che l’atto è destinato a realizzare. L’atto processuale, infatti, non viene più considerato quale oggetto della tassazione, bensì quale espressione di un rapporto giuridico - economico rilevante sul piano fiscale, che trova in sede attuativa del tributo, le garanzie legislative per adeguare la stessa imposizione al precetto costituzionale di capacità contributiva. A completamento di tale trattazione si analizzeranno gli aspetti comparatistici tra l’ordinamento fiscale inglese e quello interno, con riferimento all’imposizione sugli atti giudiziari, evidenziando gli elementi di sicura peculiarità offerti dalla Stamp Duty Land Tax. Si evidenzierà, altresì, come tra le caratteristiche di maggiore rilievo della disciplina tributaria inglese vi è l’assenza di una normazione specifica in tema di atti giudiziari, poiché l’applicazione di tale imposta è rimessa ai tax cases ed alle Corti è demandata la ricerca dello “spirito” del contratto o della transazione, ai fini della stessa tassazione. Premesse generali. L’imposta di registro può definirsi, in termini generali, quale tributo percepito dallo Stato in occasione della registrazione degli atti formati per iscritto, nel suo territorio. In passato, il fondamento della suddetta imposta era rinvenibile nell’esigenza dello Stato di introitare dei tributi in occasione dei trasferimenti di ricchezza, nonché nell’assolvimento di un interesse pubblico diretto alla custodia, alla garanzia e all’attribuzione dell’autenticità degli atti pubblici e delle scritture private; tale funzione veniva assolta attraverso uffici all’uopo preposti, che svolgevano un servizio pubblico di carattere obbligatorio, reso in favore delle parti contrattuali, di terzi o, anche, dei contendenti in giudizio ed in occasione della registrazione veniva riscossa una somma ragguagliata all’importanza dell’atto. Pur tuttavia, deve evidenziarsi che, nel corso degli anni, il carattere di servizio pubblico ha perso sempre più rilevanza, poiché la registrazione degli atti eseguita su base volontaria, da parte dei contribuenti, si è quanto mai affievolita, cedendo il passo ad una registrazione di carattere prevalentemente obbligatorio, ragion per cui a fronte dei crescenti e rilevanti bisogni finanziari dello Stato la stessa registrazione ha assunto una funzione di strumento di leva fiscale. In ragione delle peculiarità proprie dell’imposta di registro e dell’evoluzione dell’istituto, si sono registrati diversi orientamenti dottrinali, in ordine all’esatta qualificazione della detta imposta. Secondo le prime interpretazioni, al tributo di registro poteva attribuirsi una valenza “nobile”, poiché ai fini della sua applicazione non solo era richiesta l’esistenza di un atto scritto, concretantesi in una manifestazione di volontà delle parti, ma era altresì indispensabile la ricerca della causa giuridica, fonte di produzione del contratto, al fine di collegare le ragioni dell’imposizione a quelle astratte e proprie del diritto civile. Dunque, il tributo di registro doveva cercare la sua legittima misura nei principi di diritto comune, così come rinvenibili nelle disposizioni del Codice civile, del Codice di commercio, poi abrogato, del Codice di procedura civile ed, in parte, del Codice di procedura penale. Successivamente, tale tributo è stato concepito più semplicemente quale prestazione pecuniaria riconducibile alla redazione di atti ed inquadrabile nell’ambito dello svolgimento un servizio pubblico divisibile e riferibile direttamente in capo all’obbligato, tanto da poter esser qualificato in termini di tassa o di prestazione paracommutativa. Secondo altra parte della dottrina, invero, nel tributo di registro veniva a coesistere sia la tassa, intesa quale vantaggio che il singolo rinveniva dalla registrazione, sia l’imposta, che colpiva una manifestazione di capacità contributiva. In base ad un altro orientamento dottrinario, invece, il tributo di registro presentava sia i caratteri propri della tassa, che quelli dell’imposta, anche se veniva espressamente riconosciuto “… che la quota dell’imposta soverchia di gran lunga quella della tassa, seppure non è un elemento decisivo perché si accolga la prima soluzione, può essere un notevole indizio dell’intendimento del legislatore di attribuire, nella configurazione del tributo, la prevalenza al presupposto dell’imposta di fronte a quello della tassa”. Tuttavia, un autorevole indirizzo dottrinale respingeva decisamente tale interpretazione, affermando che: “in un tributo non possono coesistere in diversa misura la tassa e l’imposta: il tributo o è tassa o è imposta o è altro genere di tributo, ma non può essere ad un tempo tassa ed imposta”. Ed ancora, secondo un’altra autorevole corrente dottrinale, poteva distinguersi la nozione d’imposta da quella di tassa, in considerazione di criteri essenzialmente giuridici, individuando nell’imposta l’obbligazione e nella tassa l’onere. Pertanto, il tributo di registro trovava la sua ragion d’essere in un’obbligazione ex lege, che “… possiede tutti i requisiti necessari per poter venire definita come imposta, a nulla rilevando la circostanza che alla produzione del fatto generatore (la registrazione dell’atto) abbia concorso anche la pubblica amministrazione e che da tale fatto il contribuente possa aver risentito un vantaggio”. La tassazione degli atti giudiziari. L’attività di protezione, nonché di sorveglianza, “equivalente ad un vero premio di sicurtà”, posta in essere dallo Stato è stata, altresì, garantita nell’ambito dell’esplicazione della funzione giurisdizionale, che, da sempre, ha rappresentato uno strumento di risposta alla violazione dei diritti tutelati nei diversi ordinamenti, costituendo un mezzo strumentale ed attuativo dei diritti contesi e sostitutivo del comportamento doveroso, non assunto spontaneamente dalle parti in causa. I provvedimenti giurisdizionali, infatti, sono volti a realizzare, in via indiretta e sostitutiva, una protezione agli interessi posti alla base dei diritti sostanziali violati, contestati o vantati dai contendenti in causa, al fine di pervenire ad un atto che abbia contenuto equivalente a quello del negozio giuridico, fonte del diritto violato, conteso o vantato, che, conseguentemente, deve essere assoggettato ad imposizione ai fini dell’imposta di registro. Tale imposizione, oltre a garantire le esigenze di gettito fiscale dello Stato, ha rappresentato l’occasione per far emergere nel processo quelle manifestazioni di capacità contributiva, che altrimenti sarebbero sfuggite alla tassazione. Pertanto, parte della dottrina ha utilizzato l’espressione seppur atecnica di “fiscalità giudiziaria”, proprio per intendere la necessità per lo Stato di finanziare, attraverso dei tributi giudiziali, il servizio pubblico della giustizia, nonché per far emergere all’interno del processo quelle manifestazioni di capacità contributiva da assoggettare, comunque, all’imposizione, anche attraverso l’uso di atti e l’esercizio di attività che altrimenti sarebbero vietate. Tuttavia, l’imposizione fiscale degli atti giudiziari ai fini del registro ha da sempre rappresentato un “costo fiscale” del processo, il cui onere non deve essere “tale e di tanta misura da rendere presumibilmente impossibile lo svolgimento delle attività processuali... ” risultando, altrimenti, “… in evidente contraddizione logica con la funzione del processo e con il principio sancito nell’art. 24 Cost.; la conclusione deve essere invece del tutto diversa se la prestazione abbia lo scopo e produca l’effetto di assicurare il migliore esercizio dei poteri processuali”. Pertanto, il prelievo tributario deve essere determinato in misura ragionevole, in rapporto all’interesse di parte ad ottenere la tutela ed il riconoscimento del proprio diritto azionato giudizialmente e diretto ad assolvere alla funzione di garanzia del superiore interesse pubblico all’accesso alla giustizia. Osservazioni generali ed analisi della rimozione degli “impedimenti fiscali al diritto dei cittadini di agire in giudizio” a fronte del denunciato “incubo fiscale” nel processo. L’excursus della legislazione italiana in tema di imposta di registro sugli atti giudiziari, così come analizzata nel precedente capitolo, permette di ricostruire la ratio della disciplina attualmente vigente in termini totalmente nuovi rispetto al passato, se considerata anche alla luce dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, nonchè della normazione dettata in subiecta materia nel 1972 e del successivo approdo normativo, rappresentato dall’adozione del D.P.R. n. 131 del 1986. L’applicazione dell’imposta di registro agli atti giudiziari rappresenta uno strumento di emersione, in sede giurisdizionale, degli interessi giuridici privati, espressione di capacità contributiva e, nel contempo, di garanzia del “preminente interesse erariale” all’assoggettamento ad imposizione degli atti del processo; tale interesse erariale, comunque, non deve porsi in contrasto con i principi costituzionalmente sanciti e, quindi, non deve condizionare “… l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale all’adempimento del suo dovere di contribuente e dall’altro …” ritenendo “… legittime costituzionalmente le norme che prevedono oneri fiscali razionalmente collegati con la pretesa dedotta in giudizio e che non impediscano al processo uno svolgimento conforme alla sua funzione”. Peraltro, la nuova disciplina legislativa ha contribuito ad un radicale mutamento della natura del tributo, originariamente concepito come tassa dovuta per il servizio della giustizia, in imposta sugli effetti degli atti giudiziari. Le disposizioni di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, infatti, si limitano a determinare le categorie degli atti giudiziari e le modalità di soggezione all’imposta, mentre l’effettiva quantificazione è commisurata agli effetti dell’atto. Tale nuova impostazione, dunque, ha determinato anche il superamento della discussa distinzione tra le tasse giudiziali e contrattuali, così come quella relativa alla distinzione tra la tassa di enunciazione, dovuta nel caso di menzione di un atto o di una convenzione in un altro atto enunciante, e quella di tassa titolo, riferibile alle pronunce giudiziali fondate su convenzioni verbali o su titoli non registrati, poiché entrambe sono state ricondotte nell’ambito dell’enunciazione. Nel corso della presente trattazione si analizzeranno, quindi, gli atti giudiziari rilevanti ai fini dell’imposizione di registro ed il diverso atteggiarsi del tributo, in base al rapporto tra la portata dispositiva della pronuncia e l’effetto giuridico che viene a realizzarsi, poiché il processo non può considerarsi presupposto dell’imposizione, ma “l’occasione in cui atti, già di per sé tassabili in via astratta, vengono ad essere assoggettati ad imposta in funzione del proprio contenuto giuridico per effetto della loro acquisizione nell’ambito di un processo stesso”. Dunque, il presupposto dell’imposta deve individuarsi in atti, che già di per sé posseggono una certa attitudine contributiva, ma che assumono rilevanza tributaria qualora vengano devoluti in ambito processuale. In tal modo l’intervento dell’autorità giurisdizionale deve considerarsi accessorio, poiché al di là dell’adozione del provvedimento giudiziale, i termini della tassazione rimangono collegati alla natura dell’atto dedotto in giudizio rendendo oltremodo difficoltosa la coesistenza del binomio rappresentato dall’interesse generale alla riscossione dei tributi, rispetto al diritto del singolo ad ottenere un’effettiva tutela giurisdizionale. Sul punto la normativa previgente incideva in modo assolutamente pregnante sulle tutele costituzionalmente garantite, realizzando una compressione della libera iniziativa processuale delle parti, che si risolveva in una violazione del diritto di difesa e di uguaglianza. Tale costruzione giuridica risentiva indubbiamente di una “visione assolutistica del processo, attraverso cui consolidare le garanzie patrimoniali dello Stato, se non i privilegi dello stesso”. Anche la giurisprudenza costituzionale aveva, in parte, legittimato la previgente disciplina normativa, come nel caso dell’enunciazione, giustificando la limitazione del diritto d’azione nel caso del mancato assolvimento degli oneri fiscali. Pertanto, al fine di eliminare tale insostenibile situazione di illegittimità, vi è stata ad una modifica radicale del sistema tributario attraverso la previsione di un criterio direttivo, dettato dall’art. 7, n. 7 della citata Legge n. 825 del 1971, con il quale si è sancita la necessità di pervenire alla rimozione di “ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”, per garantire la preminenza del diritto di difesa sulle esigenze di natura tributaria. La ratio di tale disposizione era, infatti, quella di eliminare le situazioni di disuguaglianza cui dava luogo la previgente disciplina, che, ad esempio, non permetteva la produzione in giudizio degli atti per i quali non fosse stata osservata la formalità della registrazione. Gli oneri fiscali che gravavano sul processo, infatti, costituivano un fattore di grande disfunzione del nostro sistema giudiziario, poiché determinavano una subordinazione dell’esercizio dell’azione o della difesa giudiziale, garantiti dall’art. 24 Cost., all’assolvimento di oneri fiscali, anche per esigenze non direttamente connesse alla tutela giurisdizionale. L’onere fiscale, infatti, posto a carico delle parti in giudizio si riverberava sul loro interesse processuale e condizionava l’adozione del provvedimento giudiziario all’adempimento delle obbligazioni tributarie ad esso correlate. Il legislatore, infatti, comminava al mancato assolvimento degli oneri fiscali l’inefficacia, l’ineseguibilità, l’inutilizzabilità probatoria o l’improduttività della stessa azione ovvero sanciva l’inefficacia dei rapporti giuridici controversi oggetto della domanda di tutela giurisdizionale, determinando, nei fatti, anche un’inversione del criterio preferenziale delle prove precostituite, in favore di quelle costituende, qualora per le prime non vi fosse stata una regolarizzazione del predetto onere fiscale. Un punto di sicura frattura con tale impostazione normativa è rappresentato dalle pronunce di incostituzionalità dell’istituto del solve et repete, previsto nel quadro delle leggi dell’Italia post-unitaria, in base al quale si subordinava l’ammissibilità in giudizio delle opposizioni contenziose al previo adempimento dell’obbligazione tributaria, nonchè delle disposizioni che vietavano ai cancellieri di rilasciare copie o estratti di sentenze non registrate. Da ultimo, i recenti interventi normativi e giurisprudenziali hanno definitivamente sancito che il diritto d’azione non possa affievolirsi, né costituire un’“occasione di tassazione” per garantire l’esigenza di assicurare il gettito delle entrate statuali, non essendo possibile rendere un diritto sprovvisto della relativa azione, né negare la pienezza della difesa e la tutela degli interessi legittimi vantati dalle parti in giudizio, a fronte dell’assolvimento degli oneri fiscali. Una parte della dottrina ha, infatti, definito quale “incivile criterio”, l’utilizzo dell’esercizio della funzione giurisdizionale al fine di incrementare le entrate tributarie. Non può, inoltre, sfuggire il ricorrente tentativo del legislatore, già denunciato da un’autorevole e insigne dottrina, di reintrodurre nel processo delle punitive preclusioni di carattere fiscale, che si pongono in contrasto non solo con la citata disposizione legislativa di cui all’art. 7, n. 7, della Legge n. 825 del 1971, ma anche con le pronunzie della Corte costituzionale, attraverso le quali è stata evidenziata una netta differenza tra gli oneri imposti, che siano diretti ad “assicurare il miglior esercizio dei poteri processuali e la rispondenza di questi a quella funzione” e quelli che, invece, perseguono delle finalità estranee al processo. Pertanto, alla luce di quanto innanzi è evidente che permangano obiettivamente difficili i rapporti funzionali tra processo e fisco, per cui l’esasperata “fiscalità” nel processo crea indubbie interferenze di carattere fiscale che si palesano come inevitabili, costituendo una sorta di “male necessario”. Analisi del D.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986. Con l’adozione del D.P.R. n. 131 del 1986, il legislatore ha introdotto delle sostanziali modifiche rispetto alla previgente disciplina della tassazione degli atti giudiziari, prevista dal D.P.R. n. 634 del 1972, giungendo ad una sistemazione organica dell’intera materia e superando le questioni, che attanagliavano la vecchia disciplina, quali ad esempio, quelle relative alla distinzione tra la fase di formazione dell’atto giudiziario, della sua pubblicazione ovvero dell’emanazione, che attribuiva rilevanza giuridica allo stesso provvedimento. Dunque, l’attuale disciplina dell’imposta di registro sugli atti giudiziari, enunciata nel combinato disposto degli art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 e art. 8 della Tariffa I, Parte I, allegata al citato D.P.R., rinviene il proprio fondamento nel principio di tassativa elencazione degli atti soggetti alla formalità del registro, ragion per cui i provvedimenti non menzionati nelle categorie impositive normativamente previste, non sono soggetti ad imposta, né per essi vi è obbligo di registrazione. Per espressa previsione normativa, deve evidenziarsi che alcuni atti giudiziari sono esenti dall’imposizione, mentre per altri è stato previsto un trattamento agevolativo, in virtù delle finalità cui sono diretti ed in ragione della materia devoluta nel processo. In via generale, l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 enuclea i principi generali per l’applicazione dell’imposta, nonché le regole fondamentali che consentono l’individuazione degli atti giudiziali soggetti a registrazione in termine fisso. L’art. 8 della Tariffa, invece, prevede un’elencazione dettagliata degli atti soggetti ad imposizione, distinguendo i provvedimenti in base all’oggetto o alla natura della controversia e prevedendo per essi una differente misura del tributo. Il rapporto tra l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 e l’art. 8, Tariffa I, Parte I, all. al D.P.R. n. 131 del 1986. L’analisi dell’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, impone ai fini della sua interpretazione testuale e teleologica, di esser posto in correlazione con l’art. 8, Tariffa I, Parte I, allegata al citato D.P.R. Una parte della dottrina ha sostenuto che l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 costituisce una norma fondamentale, ai fini dell’individuazione del presupposto di fatto e dell’assoggettamento degli atti giudiziari all’applicazione ed al prelievo del tributo, ossia all’an dell’imposizione. L’art. 8 Tariffa I, Parte I, invece, avrebbe uno scopo complementare e di mera specificazione della norma di carattere generale, ex art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, in quanto diretta a stabilire il quantum ed il quomodo della tassazione, poiché in essa vi è l’esatta specificazione ed individuazione delle singole tipologie di atti giudiziari soggetti ad imposizione. Secondo un altro orientamento dottrinario, invece, tra le due disposizioni vi sarebbe una reciproca complementarietà, volta a realizzare l’applicazione del tributo, nonché ad evitare una tassazione generalizzata sui provvedimenti giudiziari, anche privi del carattere della definitorietà. Per contro, altra parte della dottrina ha affermato che all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 andrebbe attribuita una funzione integrativa e chiarificatrice dell’art. 8 Tariffa I, Parte I, al quale dovrebbe essere riconosciuta una funzione primaria di individuazione degli atti tassabili. Deve ulteriormente registrarsi l’orientamento assunto da altra parte della dottrina, che ha ritenuto del tutto sterile la disputa sulla natura esplicativa o tassativa dell’elencazione di atti di cui all’art. 8, Tariffa I, Parte I, in rapporto all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, poiché l’imponibilità degli atti giudiziari sarebbe da ricollegare alla natura della controversia dedotta in giudizio. Infatti, l’art. 2 della Tabella, prescrive che non vi è obbligo di registrazione per tutti quei i provvedimenti diversi da quelli elencati nelle categorie indicate dall’art. 8 della Tariffa. Il rapporto di correlazione tra l’art. 8 Tariffa e l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986. L’art. 8 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 deve necessariamente porsi in correlazione con l’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, in ragione del rapporto di complementarietà e di parziale identità testuale sussistente tra le due disposizioni normative, come già specificato nel capitolo precedente. La prima parte dell’art. 8 della Tariffa prevede che siano soggette all’imposta di registro le medesime fattispecie imponibili già individuate nell’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed, in particolare, gli atti dell’autorità giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili, che definiscono il giudizio, in modo anche parziale, nonché i decreti ingiuntivi esecutivi; le sentenze che rendono efficaci nello Stato le sentenze straniere ed i provvedimenti che dichiarano esecutivi i lodi arbitrali. L’art. 8 Tariffa ricomprende nel genus degli atti giudiziari, in materia di controversie civili, due ulteriori fattispecie imponibili, ossia i provvedimenti di aggiudicazione e quelli di assegnazione, anche in sede di scioglimento delle comunioni. La disposizione prosegue, poi, individuando diverse tipologie di pronunce giurisdizionali, distinte per natura, contenuto ed effetti giuridici, nonchè per l’applicazione di aliquote d’imposta differenziate. Tali tipologie di atti, in alcuni casi, sono ricomprese in ampie categorie, come nell’ipotesi degli atti di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale (sub lett. c) ovvero i provvedimenti non recanti trasferimento, condanna o accertamento di diritti a contenuto patrimoniale (sub lett. d); in altri casi, sono circoscritte in ambiti limitati, come per i provvedimenti di omologazione (sub lett. g) o i provvedimenti che dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto (sub lett. e). All’art. 8 della Tariffa deve attribuirsi il ruolo di norma complementare, diretta a definire le regole di quantificazione ed attuazione del tributo ovvero di specificazione della portata della disposizione di carattere generale di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986, che rappresenta la norma fondamentale, ai fini dell’individuazione del presupposto di fatto per l’assoggettamento degli atti giudiziari all’imposta di registro. Nella presente trattazione, dunque, saranno analizzate le fattispecie imponibili, contemplate dall’art. 8 Tariffa, diverse ed ulteriori rispetto a quelle di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed, in particolare, i provvedimenti di aggiudicazione e quelli di assegnazione, anche in sede di scioglimento di comunioni, oltreché gli atti indicati nelle seguenti lettere dell’art. 8 Tariffa: - lett. a), atti traslativi o costitutivi di diritti reali su beni immobili o su unità di diporto ovvero su altri beni o diritti; - lett. b), atti recanti condanna al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura; - lett. c), atti aventi per oggetto gli atti di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale; - lett. d), atti non recanti trasferimento, condanna o accertamento di diritti a contenuto patrimoniale; - lett. e), sentenze dichiarative della nullità o che pronunciano la risoluzione o l’annullamento di un atto, anche qualora comportino la retrocessione di beni o la restituzione di somme di denaro; - lett. f), le sentenze di scioglimento, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di separazione personale dei coniugi e di quelle modificative delle condanne al pagamento di assegni o delle attribuzioni di beni patrimoniali già facenti parte della comunione dei coniugi; - lett. g) di omologazione. L’esame sarà, inoltre, condotto sulla portata della disposizione di cui all’art. 8, comma 1 bis, Tariffa, introdotto dall’art. 33, comma 1, lett. a), Legge n. 388 del 23 dicembre 2000, che ha previsto l’assoggettabilità a tassazione degli atti emessi dal Consiglio di Stato e dai T.A.R., che definiscano, anche parzialmente il giudizio, compresi i decreti ingiuntivi esecutivi, recanti condanna al pagamento di somme di danaro diverse dalle spese processuali, con l’applicazione dell’imposta proporzionale nella misura del 3%. Infine, si analizzeranno le significative modificazioni relative alle note esplicative di cui all’art. 8 Tariffa, riguardanti i decreti ingiuntivi emessi in sostituzione di quelli divenuti inefficaci (nota I) e le sentenze di condanna al pagamento di corrispettivi o a prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986 (nota II), nonché i provvedimenti di accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione della proprietà immobiliare o di diritti reali di godimento (nota II bis). Considerazioni critiche. Alla luce delle argomentazioni svolte e dell’approfondita analisi del dettato normativo di cui agli artt. 37 D.P.R. n. 131 del 1986 ed 8 della Tariffa, Parte I, allegata al detto D.P.R., si ritiene opportuno svolgere delle prime considerazioni critiche sull’effettivo presupposto dell’imposizione di registro sugli atti giudiziari, rispetto alle diverse fattispecie provvedimentali esaminate nel presente studio. Invero, in tema di atti giudiziari, il verificarsi del presupposto impositivo e la misura dell’imposizione differiscono in base al provvedimento giudiziale adottato, ragion per cui il costrutto normativo costituito dagli artt. ult. cit., sembrerebbe discostarsi dai principi generali sanciti dal D.P.R. n. 131 del 1986. Tale analisi potrà essere condotta mediante una comparazione tra alcune fattispecie provvedimentali ed, in particolare, tra i decreti ingiuntivi, i provvedimenti giudiziari relativi al pagamento di corrispettivi o all’esecuzione di prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto ed i piani di riparto dell’attivo fallimentare. Con riguardo all’adozione di un decreto ingiuntivo deve ritenersi che il presupposto impositivo si realizza nel momento in cui viene attribuita allo stesso l’efficacia esecutiva, ai sensi degli artt. 642, 647, 648 e 653 c.p.c., poichè solo in tale momento si manifesta la capacità contributiva che promana dalla dichiarazione di credito, azionata esecutivamente, dandosi luogo all’applicazione dell’imposta in misura proporzionale. Invece, nell’ipotesi in cui un provvedimento giudiziario sancisca il pagamento di corrispettivi o l’esecuzione di prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986, lo stesso dovrà essere assoggettato all’imposta di registro solo in misura fissa, poiché il medesimo presupposto impositivo risulta già essere assoggettato ad imposizione ai fini dell’Iva, in conseguenza dalla mera inclusione della fattispecie dedotta in giudizio nell’ambito di tale sfera impositiva. Pertanto, anche nel caso in cui venga adottato un decreto di ingiunzione per il pagamento dei corrispettivi soggetti ad Iva, si farà luogo, salvo specifiche ipotesi, al versamento dell’imposta di registro in misura fissa. Infine, con riferimento al piano di riparto dell’attivo fallimentare e dei relativi decreti, che lo rendono esecutivo, deve evidenziarsi che l’ammontare del credito ed il relativo titolo risultando, di fatto, già determinati a seguito del decreto di ammissione allo stato passivo, sono assoggettati ad imposizione in misura fissa, poichè costituiscono meri atti di giurisdizione esecutiva privi di effetti traslativi. Dunque, la scelta di assoggettare i diversi e molteplici atti giudiziari all’imposizione di registro, in misura proporzionale o fissa, sembrerebbe rapportata più a decisioni di politica legislativa e fiscale, che al principio costituzionale dell’imponibilità degli atti in forza della capacità contributiva che gli stessi sono in grado di manifestare. Pertanto, così come si dirà ampiamente in seguito, la tassazione degli atti giudiziari ai fini dell’imposta di registro si discosta dai principi generali dettati dal D.P.R. n. 131 del 1986, per assumere dei connotati del tutto propri e peculiari, rispetto alla molteplicità e complessità delle fasi e dei provvedimenti giudiziari. In una prospettiva de iure condendo è sicuramente auspicabile una riforma del sistema impositivo, ai fini dell’imposta di registro, sugli atti giudiziari, che renda omogenea la stessa imposizione fiscale e conforme al principio costituzionale di cui all’art. 53 Cost. Tassazione degli atti giudiziari nell’ordinamento inglese: analisi della Stamp Duty Land Tax. Nell’ordinamento fiscale inglese era vigente sino al 30 novembre del 2003, l’imposta di bollo, cosiddetta “Stamp Duty”, con la quale si assoggettavano ad imposizione, attraverso la materiale apposizione di un bollo rosso, gli atti formati nel territorio inglese. Tuttavia, a partire dal 1° dicembre 2003, con il Finance Act è stata introdotta nel detto ordinamento la “Stamp Duty Land Tax”, che analogamente all’imposta sul reddito e sulle società si basa su un sistema di autovalutazione da parte del contribuente della stessa imposta. La Stamp Duty Land Tax è un’imposta applicabile prevalentemente alle transazioni ed è governata ed applicata in base a principi totalmente differenti rispetto alla Stamp Duty. Per costante giurisprudenza, infatti, in passato l’imposta di bollo veniva assolta sui provvedimenti resi dalle Corti, su cui erano apposte le marche e tali atti venivano presentati dalle parti per la registrazione. Attualmente, all’adozione di tali provvedimenti fa seguito l’applicazione la Stamp Duty Land Tax, che comunque non tiene luogo solo del mero dato letterale ma anche della natura del provvedimento adottato, anche in sede giudiziale, oltreché dalla domanda proposta in giudizio. La dottrina inglese ha rilevato che l’interpretazione della normativa sulla Stamp Duty Land Tax possa essere influenzata dall’adozione giudiziaria di principi teleologici, tant’è che il giudice non dovrebbe prestare troppa attenzione alla formulazione della legislazione, ma dovrebbe cercare di applicare lo “spirito” degli atti, che acquisiscono “una quota di rispettabilità e di integrità intellettuale come una costruzione intenzionale della normativa”. Dunque, l’applicazione della Stamp Duty Land Tax deve essere rapportata alla varietà di forme ed ai contenuti che i provvedimenti giudiziali resi dalle Corti inglesi possono assumere, tra i quali quelli di attribuzione della proprietà, quelli dichiarativi dell’esistenza di un diritto di una parte o che censurino una disposizione normativa ovvero che siano diretti a manifestare il consenso di persone, che non sono in grado di consentirne. Nell’ipotesi in cui le Corti attribuiscano la proprietà di un bene ad un soggetto, l’Her Majesty’s Revenue and Customs, il cui acronimo è HMRC, cercherà di imporre l’applicazione del tributo ai richiamati provvedimenti giudiziali. Per contro, la parte gravata del tributo cercherà di dimostrare che con tale provvedimento giudiziale è stato accertato un diritto e che, pertanto, non deve corrispondersi la Stamp Duty Land Tax. Infatti, nel caso in cui venga adottata una pronuncia giudiziale che accerti l’esistenza di un diritto e nessuna intervenuta modifica degli interessi delle parti, a causa degli eventi controversi dedotti in giudizio, non potrà darsi luogo ad imposizione fiscale, poiché potrebbe non esserci alcuna acquisizione o dismissione di una qualsiasi proprietà. In altri casi, la sentenza potrà riconoscere la modifica nel titolo di proprietà, come nel caso della “promessa di pagamento” ovvero l’esistenza di accordi equi, quali i “constructive trusts” ed istituti simili. In tali casi, le parti, facendo affidamento su dichiarazioni rese o in conseguenza della loro inattività, potrebbero aver sostenuto spese o aver modificato la loro posizione, così da diventare titolari di una qualche forma di interesse sulla proprietà contesa. In tali circostanze, in applicazione dei principi di equità, le Corti potrebbero riconoscere la validità di un contratto, anche in assenza della forma scritta, richiesta dalla Law of Property Act del 1989. La Corte, infatti, può individuare una qualche forma di obbligo legale per trasferire un interesse in una proprietà, sia per mezzo di un “equo contratto orale ma vincolante” o facendo riferimento a una qualche forma di fiducia implicita, poichè vi è una labile differenza, seppur fondamentale, tra ciò che è condizione e ciò che è il riconoscimento da parte del giudice, di una qualche forma di interesse, dalla quale può discendere l’imponibilità ai fini della Stamp Duty Land Tax di tale trasferimento. Rientra, quindi, nella discrezionalità giudiziaria verificare se il trasferimento orale di un bene costituisca un valido titolo per il trasferimento della proprietà e quale sia la data di efficacia di tali operazioni. La Corte ha indicato che vi sono dei principi di equità che intervengono per creare un contratto orale che sia vincolante e valido per le parti e sufficiente per superare i requisiti richiesti dalla Law of Property Act del 1989, s 2. In tali casi, senza dubbio viene a realizzarsi un’operazione imponibile, che, comunque, dovrà essere vagliata in base ad un’analisi dettagliata della situazione, per determinare se e quali diritti vengono creati e se vengono in rilievo nelle opere o nei servizi forniti o eseguiti. In molti casi accade che le Corti possano decidere che non intendono qualificare il rapporto giuridico intervenuto tra le parti, poiché tali disposizioni riguardano i rapporti di natura interna, che le parti hanno costituito, essendo maggiormente favorevoli a riconoscere forme di donazione, più che di contratto. Tale impostazione si riduce ad una questione riconducibile a canoni di mera presunzione. Tuttavia, laddove vi siano elementi significativi che permettano di ricondurre tali fattispecie nell’ambito degli accordi commerciali, allora le Corti potranno più facilmente imputare alle intenzioni delle parti la volontà di stabilire dei rapporti giuridici attraverso i principi di equità, al fine di configurare l’intervenuta costituzione di un valido contratto orale nonostante la Law of Property Act del 1989, s. 2. Dunque, nel caso in cui vi sia un contratto, concordato tra le parti ovvero la cui esistenza sia accertata dalla Corte, tale atto o provvedimento sarà in grado di formare la base per un’operazione imponibile ai fini della Stamp Duty Land Tax. Conclusioni Nell’ambito dello studio della tassazione degli atti giudiziari ai fini dell’imposta di registro, l’analisi dell’excursus normativo ha consentito di comprendere quale importanza abbia rivestito l’istituto de quo nelle comunità di riferimento, quale strumento diretto a consentire l’accesso alla giustizia, nonché a far emergere quelle forme di ricchezza, che altrimenti sarebbero sfuggite alla tassazione. Pertanto, la sede giurisdizionale ha rappresentato non solo il mezzo di risoluzione dei conflitti privati, ma anche la fonte attraverso cui consolidare i privilegi e le garanzie patrimoniali e finanziarie dello Stato, tanto da incidere sul diritto di difesa e di uguaglianza dei cittadini, costituzionalmente garantiti. A riprova di quanto innanzi, si è potuto constatare che i cosiddetti “oneri fiscali” sul processo hanno costituito un fattore di grande disfunzione del nostro sistema giudiziario, poiché subordinando l’esercizio dell’azione o della difesa giudiziale all’assolvimento di oneri fiscali, hanno condizionato l’interesse processuale delle parti e l’adozione dei provvedimenti giudiziari, all’adempimento delle obbligazioni tributarie ad essi correlate. Tuttavia, la ratio della disciplina dettata in subiecta materia dal D.P.R. n. 131 del 1986, attualmente vigente, ha rappresentato un punto di sicura frattura con la previgente legislazione, segnando il passaggio dalla tassa dovuta per il servizio della giustizia, all’imposta sugli effetti degli atti giudiziari. Il processo, dunque, non rappresenta più il presupposto dell’imposizione, ma “l’occasione” per assoggettare ad imposizione degli atti che, devoluti in ambito processuale, siano già di per sé tassabili in via astratta. L’analisi del costrutto normativo di cui agli artt. 37 del D.P.R. n. 131 del 1986 ed 8, Tariffa I, allegata al richiamato D.P.R., ha permesso di ricostruire gli esatti termini di qualificazione e di applicazione dell’imposta di registro agli atti giudiziari, ponendo una questione di indubbio spessore, rappresentata dall’includibilità o meno della disciplina de quo nell’ambito dei principi generali sanciti dal D.P.R. n. 131 del 1986 ovvero in un sistema ad esso avulso o sui generis. Il legislatore, rispetto alle altre forme di imposizione previste in tema di imposta di registro, ha sicuramente inteso delineare, per gli atti giudiziari, un sistema impositivo specifico, tant’è che ad esso non sarebbe applicabile la disciplina di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, in forza della quale l’imposta di registro è, comunque, dovuta in ragione dell’intrinseca natura degli atti e degli effetti giuridici, che gli stessi sono destinati a realizzare, anche qualora non vi corrisponda il titolo o la forma giuridica esteriore. In tal modo, infatti, gli atti giudiziari verrebbero assoggettati all’imposizione di registro, in base ad elementi estrinseci od extratestuali, attraverso la ricerca dello “spirito” originario degli atti dedotti in giudizio, così come accade ad esempio nelle Corti inglesi, nell’ambito di un ordinamento di common law. Tuttavia, ciò determinerebbe un mancato raccordo della disciplina di registro sugli atti giudiziari al precetto costituzionale di capacità contributiva, sancito dall’art. 53 Cost., in tal modo realizzando surrettiziamente e di fatto un sistema impositivo di tipo “creativo”. Il legislatore, invece, ha delineato un sistema impositivo fondato essenzialmente sulla nomenclatura dei provvedimenti giudiziari, differenziandone il presupposto e la misura dell’imposizione in base al provvedimento giudiziale adottato. Dunque, la tassazione degli atti giudiziari ai fini dell’imposta di registro si discosta dai principi generali dettati dal D.P.R. n. 131 del 1986, per assumere dei connotati del tutto propri e peculiari, rispetto alla molteplicità e complessità delle fasi e dei provvedimenti giudiziari. Alla luce delle osservazioni svolte, si è avuto modo di rilevare che il problema relativo all’incubo fiscale sul processo civile, posto quasi un secolo fa da autorevolissima dottrina, non possa considerarsi svanito a causa dell’esasperata fiscalità ancora presente nel processo, che crea comunque indubbie ed inevitabili interferenze che di fatto rappresentano una sorta di “male necessario”. Pertanto, si rende quanto mai necessaria una riforma dell’attuale sistema impositivo, anche alla luce della fiscalità di vantaggio prevista dalle “misure di degiurisdizionalizzazione” del contenzioso civile, quali la mediazione, prevista dal D.Lgs. n. 28 del 2010 e la negoziazione assistita, disciplinata dalla Legge n. 162 del 2014. Tali strumenti deflattivi del contenzioso e di composizione stragiudiziale delle liti, nella realtà dei fatti introducono delle consistenti franchigie in sede di registrazione degli atti, prevedendo delle forme di applicazione dell’imposta di registro in misura diversa o fortemente ridotta rispetto all’imposizione prevista per i corrispondenti atti negoziali o provvedimenti giudiziali. Conclusivamente, può affermarsi che l’imposizione di registro in tema di atti giudiziari si appresta ad attraversare una nuova fase, rendendo quanto mai opportuna e necessaria una riforma organica, che sia agganciata ai precetti costituzionali del diritto di difesa e di capacità contributiva, più che alle contingenti scelte di politica legislativa e fiscale.File | Dimensione | Formato | |
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