Dalla fine dell’età del Bronzo alla tardantichità. Il dibattito sulla transumanza, tra vecchie e nuove certezze. Lo studio diacronico dell’allevamento, e in particolare dell’allevamento transumante, deve essere correlato con la molteplicità di ambiti geografici e culturali - pianura, montagna, organizzazione sociale etc. - nei quali fu praticato: ad oggi alcuni risultano indagati in modo approfondito, in ambito micro o sub-regionale, mentre altri sono solo in parte conosciuti1. Le sempre più diffuse strategie di ricerca multidisciplinare accrescono progressivamente le nostre conoscenze, soprattutto nel caso di indagini realmente integrate; parallelamente, accanto a studi più propriamente storico-archeologici, la landscape archaeology evidenzia in un'ottica diacronica i contesti ambientali, il tessuto degli insediamenti, delle risorse, delle attività produttive, e fornisce dati per lo studio del popolamento2. Al tempo stesso, si aprono sempre nuove applicazioni e prospettive (grazie, soprattutto alle indagini naturalistiche, paleoecologiche e archeozoologiche) e si accentua l’esigenza che i dati vengano trattati e acquisiti in modo da essere comparabili: più si affinano le strategie di ricerca più si ampliano i campi di indagine secondo una prospettiva globale nel metodo e contestuale nei fini. La grande transumanza, cioè quella a lungo raggio, è divenuta protagonista dell’interesse e della discussione e ha spesso eclissato l’attenzione per l’allevamento transumante entro ambiti circoscritti, l’allevamento stanziale e la pastio villatica. La discussione, condotta da storici, archeologi e topografi, si è imperniata sull’articolazione diacronica, in particolare sulla continuità o discontinuità della transumanza (con specifico riferimento alla scansione tra le fasi preromana, romana, tardo antica ed altomedievale), sui prodotti ed i mercati civili e militari del grande allevamento. Questa contrapposizione di scala ha originato anche il grande 1 M. PASQUINUCCI, Montagna e pianura: transumanza e allevamento, in Espaces intégrés et ressources naturelles dans l’empire romain, Actes du colloque de l’Université de Laval (Québec, 5-8.IV.2003), éd. M. Clavel-Lévêque - E. Hermon, Besançon, Presses Universitaires de Franche-Comté, 2004, pp. 165-178; M. CORBIER, La transhumance aperçues historiographiques acquis récents, in La question agraire à Roma. Droit romain et société, perception historiques et historiographiques, éd. H. Hermon, Como, Edizioni New Press, 1999, pp. 37-56, con particolare attenzione alla transumanza duranti il peridodo romano, ma con interessanti riflessioni sulla fortuna di questo particolare soggetto storico, nella storiografica italiana e francese. 2 Per un quadro ‘evolutivo’ della Landscape Archeology, con particolare riferimento al mondo anglosassone e all’archeologia storico antropologica mediterranea, A. LAUNARO, Concerning Landscape, «Agri Centuriati. An International Journal of Landscape Archaeology», I (2004), pp. 31-41. Il progetto Populus, fu il primo vero tentativo di riunire le esperienze di archeologia dei paesaggi maturate nei differenti paesi europee, ma anche di creare un’uniformità metodologica ed epistemologica sulle procedure d’analisi e sulle modalità interpretative; per gli aspetti metodologici The Archaeology of Mediterranean Landscapes, ed. G. Barker - D. Mattingly, Oxford, Oxbow, 1999-2000, voll. 1-5, I; per quelli demografici Reconstructing Past Population Trends in Mediterranean Europe, ed. J. Bintliff – K. Sbonias, Oxford, Oxbow, 1999; per le ricostruzioni ambientali e geopedologiche Environmental Reconstruction in Mediterranean Landscape Archaeology, ed. P. Leveau et alii, Oxford, Oxbow, 1999; per l’applicazione dei metodi GIS al paesaggio Geographical Information System and Landscape Archaeology, ed. M. Gillings et alii, Oxford, Oxbow, 1999; per i metodi non distruttivi di analisi Non-Destructive Techniques Applied to Landscape Archaeology, ed. M. Pasquinucci - F. Trément, Oxford, Oxbow, 2000; per i metodi ed i risultati nell’applicazione della ricognizione archeologica nel paesaggio antropizzato del mediterraneo Extracting Meanings from Ploughsoil Assemblages, ed. R. Francovich - H. Patterson, Oxford, Oxbow, 2000; per le critiche al Populus Project J. F. CHERRY, Vox POPULI: Landscape archaeology in Mediterranean Europe, «Journal of Roman Archaeology», XV (2002), pp. 561-573. Per quanto concerne l’archeologia dei paesaggi in Italia G. BARKER, L’archeologia del paesaggio italiano: nuovi orientamenti e recenti esperienze, «Archeologia Medievale», III (1986), pp. 7-29; F. CAMBI - N. TERRENATO, Introduzione all’Archeologia dei Paesaggi, Roma, Carocci, 1994 e da ultimo Manuale di archeologia dei paesaggi. Metodologie, fonti, contesti, a cura di F. Cambi, Roma, Carocci, 2011. dibattito tra la spiegazione geografica e quella politica sull’origine della transumanza e sui metodi da utilizzare per l’indagine di tali sistemi3. Temi e obiettivi Flussi transumanti, poleogenesi e pratiche agro-silvo-pastorali nell'Etruria settentrionale dal Ferro al Tardo Antico. L'area della Toscana meridionale fu interessata dal fenomeno della transumanza non solo tra Medioevo ed Età Moderna, ma anche a partire dall'età del Bronzo, con modalità, probabilmente differenti e ancora del tutto da delineare4. Resta infine una questione aperta la conoscenza del popolamento e delle pratiche agro-silvo-pastorali attivate sin dall’età del Bronzo e del primo Ferro in questo contesto, necessarie per dar conto delle numerose ‘stazioni’ protostoriche presenti nell'area, con frequentazione in molti casi ‘stagionale’ e così riflettere sul fenomeno poleogenetico tra Bronzo Finale e primo Ferro. Tale fenomeno in questa particolare zona dell’Etruria conobbe sviluppi del tutto particolari rispetto alla formazione delle città etrusche più a sud, e costituì la cifra distintiva di questo territorio dando vita a quella separazione tra Etruria meridionale ed Etruria settentrionale che, se pur sfumata, resterà del tutto operante per l’epoca romana5. In questo senso riteniamo che tale differenza possa essere rintracciata in forme economico-sociali a forte matrice conservativa, di cui il pastoralismo può aver costituito un fattore non del tutto marginale. La storiografia sulla transumanza attraverso la Toscana, pur ricca e accurata, si è fortemente concentrata sull'Età Moderna - a dispetto della precocità di tale fenomeno fin dal Medioevo e alle tracce della sua presenza anche in epoca antica e nell'Età del Bronzo - , in particolare per lo studio dei percorsi e delle frequentazioni pastorali, tendendo a privilegiare il recupero della memoria e la 3 F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986, 2 voll., I, pp. 83 e sgg.; O. DELL'OMODARME, Le dogane di Siena, di Roma e di Foggia: un raffronto dei sistemi di "governo" della transumanza in età moderna, «Ricerche storiche», XXVI (1996), 2, pp. 259-260; M. PASQUINUCCI, La transumanza nell'Italia romana, in E. GABBA - M. PASQUINUCCI, Strutture agrarie e allevamento transumante nell'Italia romana, Pisa, Giardini, 1979, pp. 79-91; F. CAZZOLA, Ovini, transumanza e lana in Italia dal medioevo all'età contemporanea, in Percorsi di pecore e di uomini: la pastorizia in Emilia Romagna dal Medioevo all'età contemporanea, Bologna, Clueb, 1993, pp. 11-14.; 4 A. CIACCI - M. FIRMATI, La valle dell'Ombrone in periodo etrusco e romano, in Ombrone. Un fiume tra due terre, a cura di G. Resti, Pisa, Pacini Editore, 2009, pp. 15-16; Come sappiamo oramai dalle analisi archeozoologiche disponibili per numerosi contesti dell’Etruria meridionale e settentrionale, l’attività pastorale prevale nettamente sull’allevamento bovino e suino seguendo un trend che già si era avviato sin dalla media età del Bronzo. Analizzando complessivamente tutti gli insediamenti del periodo si nota come le percentuali degli ovicaprini aumentino da circa il 23,1% del Bronzo medio al 34,2% del Bronzo Recente fino al 49,7% circa del Bronzo Finale. Forse siamo di fronte a una prima tesaurizzazione del bestiame domestico. Il surplus di pecore (il pecus del mondo latino) potrebbe andare a costituire parte della ricchezza mobile dei ceti sociali più ricchi, J. DE GROSSI MAZZORIN, Economie di allevamento in Italia centrale dalla media età del Bronzo alla fine dell’età del Ferro, in Settlement and Economy in Italy, 1500 BC-AD 1500. Papers of the Fifth Conference of Italian Archaeology, ed. N. Christie, Exeter, Oxbow, 1995, (Oxbow Monograph 41), pp. 167-177. Questi aspetti vanno certamente collegati con le forme insediative, i fallimenti ed i successi di alcuni siti rispetto ad altri, in chiave di trasformazioni di lunga durata. Se però nell’Etruria meridionale nel periodo protovillanoviano e poi villaniaviano, il quadro muta nuovamente in favore della suina, per l’Etruria settentrionale e interna la pastorizia sembra continuare a rivestire un ruolo economico di primo piano. Il fatto poi che il fenomeno poligenetico conosca le sue precoci e più complete manifestazioni nell’Etruria meridionale (in virtù proprio di quel surplus?) in anticipo su quanto avviene invece in Etruria settentrionale, potrebbe essere dovuto proprio a scelte legate al sistema produttivo pastorale piuttosto che agricolo. 5 La separazione tra le ‘due Etrurie’ ha una tradizione storiografica molto lunga. Dal punto di vista ‘archeologico’ queste differenze, sia sociali che economiche, se particolarmente evidenti alle soglie del Primo Ferro, con un ritardo nella formazione della proto-città e della città dell’Etruria settentrionale rispetto alle città meridionali e centro-tirreniche, tendono a sfumare in epoca romana o per lo meno a mutare le proprie gerarchie e modalità di strutturazione. In generale si veda G. CAMPOREALE, Etruria meridionale (ed Etruria settentrionale?), in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria meridionale. Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Atti del XXIII convegno di Studi Etruschi ed Italici (Roma, Veio, Cerveteri, Pyrgi, Tarquinia, Tuscania, Vulci, Viterbo, 1-6.X.2001), Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2005, pp. 15-20. descrizione piuttosto che l'analisi, in particolare della sua influenza e del suo legame con la costruzione del paesaggio storico; risulta così assente una prospettiva interdisciplinare e di lunga durata6. Il ruolo dell’ecologia storica per la ricostruzione delle strategie agro-silvo-pastorali. L’osservazione diretta a livello micro-topografico delle associazioni vegetali presenti in un determinato areale, sono la traccia ‘vivente’ di una specifica storia che ha condotto a quella specifica associazione vegetale. Le specie che occupano uno spazio definito sono il risultato di un interazione non casuale, tra clima, pedologia, fauna ed azione antropica7. Analizzando la flora si ottiene una conoscenza indiretta dei fattori ecologici che determinano un dato ambiente (climatici, orografici, edafici, biotici). Tra i fattori biotici, quello che a noi interessa in chiave di una ricostruzione ‘olistica’ dei sistemi agro-silvo-pastorali, sono compresi appunto quelli antropici8. Il singolo popolamento così ricostruito in associazione ad un determinato ed ipotetico ambiente, diviene ‘caratteristico’ e costituisce un sistema di riferimento valido a diverse scale, da quella sub-regionale a quella sub- continentale9. All’interno di questo sistema di riferimento multiplo le specie diventano così ‘indicatrici’ di un dato ambiente: alcune specie possiedono caratteristiche auto ecologiche così peculiari da renderle rilevatrici indirette, di pregresse o attuali condizioni ambientali10. La differenza con l’ecologia storica analitica non è di poco conto. Quest’ultima si concentra piuttosto sulla specificità del sito, sviluppando una correlazione tra il comportamento ecologico attuale delle specie (o dalla vegetazione desumibile dai diagrammi pollinici) e le pratiche di gestione pregresse o attuali alla scala locale, senza inferire un modello di associazione vegetale teorico. Ai fini dell’interpretazione storica e delle procedure analitiche, di estremo interesse sono soprattutto le specie ei gruppi di specie ‘anomale’, rispetto alla vegetazione dominante di un sito: questo rumore di fondo costituisce la memoria delle comunità vegetali pregresse, indicatrici di un ambiente oggi scomparso, ma soprattutto unica traccia di una gestione oramai scomparsi11. Negli studi di fitosociologia è basilare invece la comparazione tra gli ecosistemi attuali e quelli potenziali che definiscono la storia evolutiva o involutiva di un ambiente12. I modelli predittivi creati dalla fitosociologia, le serie 6 Si veda ad esempio in Bibliografia i testi di Marcaccini, Calzolai, Rombai, Barsanti, Dell'Omodarme. Imberciadori è stato l'unico ad occuparsi della Dogana dei Paschi di Siena nel XV secolo con l'edizione dello Statuto del 1419: I. IMBERCIADORI, Il primo Statuto della Dogana dei Paschi maremmani, in ID., Per la storia della società rurale. Amiata e Maremma tra il IX e il XX secolo, Parma, La Nazionale Tipografica, 1971, ora in ID., Studi su Amiata e maremma, a cura di Z. Ciuffoletti - P. Nanni, Firenze, Accademia dei Georgofili, 2002. 7 Il sistema determinato da specie diverse in equilibrio, che interagiscono tra di loro, costituisce un’associazione vegetale. Lo studio dell’associazione vegetale è oggetto della fitosociologia, sulla scorta delle teorie elaborate dallo svizzero Braun. Blanquet (1884-1980). L’assunto è che a una determinata associazione vegetale corrisponda uno specifico ambiente e viceversa. 8 Per il concetto di ricostruzione olistica dei sitemi agro-silvo-pastorali si veda l’esperienza svedese di Ishe, Lindhal 2000 che utilizzano concetti come holistic landscape, h. indices, h. parametres etc.. Il significato è mutuato da Troll 1939, 1968. 9 Braun-Blanquet 1964. 10 Pignatti 1997. 11 È interessante notare come le dinamiche vegetative che seguono l’abbandono di una pratica, risultino indicative della medesima. Sperimentazioni condotte sulle specie vegetali più indicative di pascolo, hanno mostrato come al variare delle proprietà dell’ecosistema (microclima, micro topografia, luce, pH etc.), le medesime possono reagire in modi diversi: rimanere in situ, se sono specie altamente competitive o hanno una ricca banca semi nel suolo, o sparire del tutto conservando però la loro memoria nella banca semi del suolo.si è visto sperimentalmente che rimuovendo parti della copertura vegetale può stimolare la germinazione dei semi, facendo riapparire ad esempio un prato da fieno (Marañón 1986; Jonsson 1995; Losvik 1999; Rosef 2004 per le prove sperimentali). 12 Biondi 2001. In questo senso Brun 2011 per la zona della Franche-Comté, ha comparato la vegetazione potenziale con i pollini sedimentati (comparison of the vegetation and its pollen rain, p. 141), per inferire il grado di ‘disturbo’ antropico sullo sviluppo atteso, costituendo allo stesso tempo una serie di strong indicators of human activities. L’obiettivo non troppo velato è stabilire se le native plants and aliens introduced long ago (archaeophytes), or more recently (neophytes) abbiano potuto costituire una vegetazione ‘possibile’ di là dell’intervento umano. predittive e regressive basate sul concetto di climax13, offuscano in parte o del tutto i fattori storici responsabili dell’ecologia di un sito. Ogni paesaggio come più volte ricordato non è né totalmente naturale, né totalmente culturale: parafrasando le parole di K. Krzywinski nell’introduzione del suo studio sulla regione tra il Nilo e il Mar Rosso,bisogna accettare l’idea che tutti i landscapes siano cultural landscapes, implica riconoscere che i processi ecologici debbano essere visti in contesti storicamente determinati14. La ‘svolta culturale’ in geografia, così’ com’è stata definita da M. Quaini, corre il rischio di identificare i paesaggi solo per la loro valenza simbolica, mitica e percettiva, trascurando le valenze materiali e socio-economiche15. L’archeologia, lo studio della cultura materiale e della storia di un sito sono dunque decisive per decifrare i cambiamenti ambientali visibili nella vegetazione attuale o desumibili dalle analisi polliniche. L’etnobotanica svolge in questo frangente il ruolo dell’archeologia sperimentale e dell’etnoarcheologia: osserva l’evoluzione della flora in quei sistemi mantenuti con tecniche tradizionali o riproduce le dinamiche di interazione tra sfruttamento e gestione delle risorse (come il pascolo ripetuto, il ronco, la capitozza tura etc.) con la vegetazione, verificando le conseguenze dell’abbandono di talune pratiche16. In questo quadro così sommariamente tracciato, ci preme rilevare come la complessità del paesaggio emerga ancora una volta in tutta la sua forza. Le categorie etiche di classificazione del paesaggio (naturale, sub- naturale, semi-naturale, culturale etc.) spingono alcuni fenomeni storici nella condizione di invisibilità. La scommessa sarebbe quella quindi di istituire delle categorie analitiche (emiche) che tengano conto di tutti i fattori che costituiscono quel complesso palinsesto che è il paesaggio, e delle relazioni costituite storicamente attorno ad una determinata pratica, riportando alla luce le modalità di gestione delle risorse, paesaggi e strutture socio-economiche. Costituire una serie documentaria di ‘specie indicatrici’ di un dato comprensorio vorrebbe dire accrescere le potenzialità storico-archeologiche del paesaggio, poter rispondere a vecchie domande o porne di nuove. Sviluppare le connessioni esistenti tra la presenza di determinate specie e le modalità di uso del suolo, ci porterebbe al di là dall’individuare i classici indicatori antropogenici che consentono di stabilire genericamente un qualche uso del suolo da parte di una comunità attraverso le sue conseguenze sulla vegetazione, individuando con più precisione le pratiche specifiche di gestione (sfalcio, pascolo, uso del fuoco etc.)17. Il nostro contesto in esame possiede già tutta una serie di siti per cui sono disponibili delle sequenze polliniche in grado di restituirci il quadro evolutivo della vegetazione e dell’uso del suolo per il periodo da noi preso in esame. La sfida sarà quella di reinterpretare questi dati alla luce della particolare prospettiva della pratica della transumanza e delle scelte agro-pastorali del comprensorio, tenendo conto della strettissima relazione tra composizioni fitosociologiche e scelte insediative ed economiche dell’uomo. I resti faunistici come indicatori di accumulazione e pratiche pastorali. In generale dobbiamo dire che i siti di cui si possono seguire le variazioni diacroniche per il nostro contesto, e prendendo in esame anche altri siti dell’Etruria meridionale, interna e settentrionale (Pitigliano, Luni sul Mignone, M. Rovello ad esempio)18, e analizzando la composizione percentuale delle tre principali specie di animali domestici in senso cronologico, si può notare come in Etruria meridionale si sia verificato un leggero cambiamento di indirizzo delle pratiche di allevamento19. Dalle analisi archeozoologiche si nota come nel periodo villanoviano l’attività pastorale prevale 13 Russell 1997. 14 Krzywinski 2001. 15 Quaini 2005, 2006. 16 Pollock et alii 2013 sulle prove sperimentali delle conseguenze di una diminuita sheep grazing pressure, con bibliografia. 17 Il pericolo che si nasconde dietro l’utilizzo di questi strumenti euristici, è quello di appiattire la specificità di un dato contesto o di una data epoca in uno sfondo privo di storicità. 18 De Grossi Mazzorin 1985 per Pitigliano; per Luni sul Mignone Gejvall 1967; Lepiksaar 1975; per Monte Rovello Caloi, Palombo 1986. 19 De Grossi Mazzorin 2001: p. 325, 2006: p. 90, nettamente sull’allevamento bovino e suino seguendo un trend che già si era avviato sin dalla media età del Bronzo. Analizzando complessivamente tutti gli insediamenti del periodo si nota come le percentuali degli ovicaprini aumentino da circa il 23,1% del Bronzo medio al 34,2% del Bronzo Recente fino al 49,7% circa del Bronzo Finale. Queste conclusioni erano già ben presenti nello studio di Giovanni Puglisi Carratelli sulla nascita e diffusione della Civiltà Appenninica del 1969, pur considerando in maniera marginale i dati archeozoologici disponibili a quel tempo20. La coincidenza delle presenza di stazioni di questa civiltà con i valichi montani e in zone chiave delle pianure costiere, veniva messo in relazione agli spostamenti stagionali transumanti, pur non esaurendone fino in fondo tutte le implicazioni21. Di solito si tende a considerare la pastorizia come tipica e predominante del Bronzo Medio (facies Appenninica), una pratica in cui la mobilità rappresenta il tratto distintivo e in cui la presenza di stazioni stagionali, fa di questo sistema non solo il caposaldo dell’economia di questo periodo e di queste società ma pone specifici indirizzi alla strategia insediativa, mentre invece il Bronzo Recente e Finale (facies subappenninica e protovillanoviana) sono considerati più basati su un’economia mista in cui si realizza l’integrazione fra fenomeni sedentari legati allo sfruttamento agricolo con fenomeni di allevamento stagionale. L’incremento sostanziale dell’allevamento per quest’ultimo orizzonte cronologico, risulta con tutta evidenza dai dati archeozoologici e come abbiamo avuto modo di verificare per il nostro contesto, è particolarmente evidente a Scarceta, dove si avverte il cambio del peso degli ovicaprini (almeno per i dati disponibili per il numero di individui), a Pitigliano e a Sorgenti della Nova22. Tale percentuale, come sembrano confermare i campioni provenienti da alcuni contesti dell’Etruria meridionale (ad esempio Cretoncini a Traquinia e Gran Carro a Bolsena), sembra mantenersi costante ancora nel IX sec. a.C., mentre dall’VIII secolo fino a tutto il periodo arcaico invece tale percentuale sembra calare23. L’aumento percentuale delle greggi nel Bronzo finale potrebbe anche trovare una spiegazione nelle modificazioni sociali verificatesi in 20 Puglisi Carratelli 2005, soprattutto Cap. III. sull’attualità del pensiero di Puglisi si veda da ultimo Manfredini 2005; Caneva 2005 21 Puglisi Carratelli 2005 : p. 18. Nell’idea di Puglisi Carratelli, l’appennino non rappresentava il luogo di permanenza di questi popoli, ma piuttosto un luogo di confluenza identitaria e culturale, vero luogo di osmosi fra gruppi umani, mentre le basi principali erano situate nelle pianure o nelle fasce collinari costiere. 22 A Sorgenti della Nova come abbiamo visto il numero cospicuo di resti suini (circa il 75%), proveniva essenzialmente da un contesto di tipo cultuale (la Grotta 10), che ha fortemente modificato la composizione del campione (Caloi, Palombo 1981; già notato in Rendeli 1993: p. 142; Bartoloni et alii 1997: p. 121). Analisi successive di resti provenienti da contesti abitativi hanno confermato la prevalenza degli ovicaprini (Bartoloni et alii 1997: p. 122; De Grossi Mazzorin 1998). Anche se i resti faunistici provenienti da contesti cultuali possono essere poco indicativi sulla presenza di bestiame e sulla loro importanza relativa, l’analisi osteometrica può essere indicativa del progressivo miglioramento diuna razza a scopo allevatizio, come è stato desunto dai resti del contesto cultuale del santuario di pescocchiaro, De Grossi Mazzorin 1995c. 23 A Gran Carro i reperti faunistici provengono dagli scavi degli anni 1965 e 1966 (De Grossi Mazzorin 1995b) e dalle campagne di scavo del 1974 e 1980 (Pennacchioni 1977; Costantini et alii 1987), e si inquadrano cronologicamente nel IX secolo a.C. Gli ovicaprini sembrano essere rappresentati esclusivamente dalle pecore e costituiscono la specie domestica più rappresentata, anche se in base alla quantità di carne che forniscono, l’apporto proteico era dovuto principalmente all’allevamento bovino e alla caccia del cervo. Un così alto contributo alimentare dovuto alla caccia è abbastanza insolito per insediamenti di questo periodo, basti pensare che a Tarquinia- Cretoncini, sempre nel IX secolo a.C., la selvaggina è scarsamente documentata (De Grossi Mazzorin 2006: p. 81). Per lo scavo si veda Camerini, Fioravanti 1977; Tamburini 1995. A Tarquinia la fauna rinvenuta negli scavi condotti nel 1990-1991 su Poggio Cretoncini, nelle immediate vicinanze del pianoro della Civita di Tarquinia, riferibile alla seconda metà IX- metà VIII a.C., vede i caprovini come la specie domestica più rappresentata, con percentuali che oltrepassano il 50% sia nel conto del numero di frammenti che in quello del numero minimo di individui. La maggior parte del gregge era macellata entro i primi tre anni, cioè quando la maggior quantità di carne viene resa con i più bassi costi di produzione. Tuttavia alcuni individui oltrepassavano tale età, probabilmente si tratta di quegli animali tenuti per la riproduzione o per la produzione di lana. I suini erano di grosse dimensioni e il loro allevamento era chiaramente finalizzato alla produzione di carne, ma a differenza dei nostri giorni in cui la macellazione avviene entro il primo anno di vita, allora i maiali venivano uccisi prevalentemente tra i 18 e i 24 mesi, questo a causa della loro crescita più lenta rispetto a quella delle razze attuali. I resti di animali selvatici sono molto scarsi e tra questi sono rappresentati solo il cervo e l’orso (Sorrentino 1981; Bedini 1997). Il campione rinvenuto invece sugli scavi della Civita, abbraccia un arco cronologico che va dal IX al II secolo a.C. La fase I comprende dal IX al VII secolo a.C., la fase II dal VI al V secolo a.C. e tra il III e il II secolo a.C., la fase 3. In questo campione i suini risultano predominanti in tutte le fasi, testimoniando la differenza tra contesto ‘rurale’ (Cretoncini) ed ‘urbano’. Per il sito di Tarquinia si veda Bonghi Jovino 1986; Bonghi Jovino, Chiaramonti Trerè 1997. questo periodo; forse siamo di fronte a una prima tesaurizzazione del bestiame domestico. Il surplus di pecore (il pecus del mondo latino) potrebbe andare a costituire parte della ricchezza mobile dei ceti sociali più ricchi. È interessante notare che è in questa fase che le curve di mortalità degli ovicaprini segnalano per la prima volta una particolare attenzione alla produzione della lana24. In alcuni centri si nota infatti la presenza di un gran numero di animali adulti che non troverebbe una giustificazione in un allevamento le cui finalità primarie siano la carne o il latte. Confermerebbero questa tendenza le mutate condizioni demografiche25, in cui la carne di maiale diviene un’importante componente della dieta alimentare. Infatti i suini sembrano in genere prevalere nei grossi centri urbani come Tarquinia, Roselle e Populonia. A Roselle come abbiamo avuto modo di vedere, in contesti di VI secolo a.C., la percentuale predominate era quella relativa ai suini, anche se gli ovicaprini non devono aver rivestito un ruolo secondario, il cui sfruttamento era indirizzato verso un utilizzo misto. Un consistente gruppo di insediamenti dell’Etruria, mostra un economia incentrata prevalentemente sull’allevamento pastorale con una media di 17% di suini, 32,7% di bovini e la prevalenza di caprovini. Questi sono infatti attestati con valori percentuali che variano tra il 44 e il 55% con punte più alte nel sito di Torrionaccio (74%)26. Da questo insieme si discostano per la prevalenza di bovini seguiti dagli ovicaprini e dai suini le capanne di Luni sul Mignone (trincea I) e lo strato III di Pitigliano, per il quale va altresì ricordato che si tratta di livelli di scarico ove la scansione crono-tipologica è estremamente difficile. Anche i livelli più recenti di Monte Rovello (livelli 7-6) mostrano questa evidenza e, se confrontati con lo strato 8, potrebbero indicare un’evoluzione interna verso strategie di accumulo armentizio, indizio indiretto di una più marcata stratificazione sociale interna. L’aumento dei suini raggiungerà poi il suo apice in pieno periodo imperiale, almeno per i contesti urbani scavati a Roma (Caput Africae, Meta Sudans, Quirinale, Foro Transitorio, Arco di Costantino e acquedotto dell’Aqua Marcia) negli ultimi anni, l’animale sicuramente più rappresentato è il maiale, con percentuali che oltrepassano il 70% dei resti. Riflessioni che prendono in considerazione diversi contesti, con l’intento di chiarire il peso avuto dal consumo di carne suina per il periodo romano, sia in chiave di composizione del campione, sia in chiave economica, sono state avanzate da A. King per l’impero e da M. MacKinnon per l’Italia romana27. Per la penisola, le analisi archeozoologiche e le informazioni ricavabili dalle fonti letterarie ed iconografiche, suggeriscono due tipi di strategie di allevamento: quello brado in foresta con animali di piccola taglia, legato principalmente ad insediamenti rurali ed uno basato sullo sfruttamento intensivo di animali di grossa taglia, tenuti in recinti e pertinenti centri urbani o luoghi di mercato28. Bisogna comunque sottolineare che la percentuale di suini ad esempio desumibile dal campione di Populonia (circa il 46%), non raggiunge le percentuali ragguardevoli di altri contesti, come ad esempio Capua (tra il 60 e il 68%)29 o Cantone (60%), ma piuttosto si avvicina a contesti di tipo rurale, come la villa a Lugnano in Tiberina o quella di Settefinestre e Le Colonne, dove si controbilancia con percentuali rilevanti di ovicaprini30. Se poi riflettiamo sulla vicinanza della laguna e su un paesaggio sostanzialmente spoglio, i suini dovevano con tutta probabilità trovarsi altrove, probabilmente nelle colline di Campiglia, dove una zona più boscosa con Q. caducifoglie e Q. suber offriva un ambiente favorevole al pascolo. Le basse percentuali di suini a Cosa invece, e l’importanza degli ovicaprini nell’economia della città alle soglie del II secolo a.C., sembrano fare da eco a quello che sappiamo del primo periodo di Settefinestre, in cui gli ovicaprini si trovano quasi nelle stesse 24 De Grossi Mazzorin 2001. 25 Sulla complessa questione delle cifre concernenti la demografia etrusca, si veda Kron 2012, che basa le sue riflessioni sui dati osteologici delle necropoli studiate, non prendendo in considerazione la distribuzione e la densità dei siti nei vari periodi. Anche Rajala 2006 tra Bronzo Finale e Orientalizzante. 26 Placidi 1978 per Torrionaccio; Gajvall 1967 e Lepiksaar 1975 per Luni sul Mignone; Caloi, Palombo 1986 per Monte Rovello. 27 King 1999; Mackinnon 2001 e in particolare 2004a: pp. 138-62 per i suini. 28 Mackinnon 2001: p. 664-5. 29 King 1987. 30 Mackinnon 1998 per Lugnano in Tiverina. percentuali dei suini. È probabile che l’importanza dell’allevamento transumante ovicaprino in questa parte dell’Etruria, abbia mantenuto una sua valenza precipua che affonda le sue radici nel periodo etrusco, trasformandosi in maniera sostanziale solo alla fine del II secolo a.C. Sia King che Mackinnon, evidenziano l’importanza della resa alimentare, ma soprattutto il tipo di contesto di rinvenimento, se urbano o rurale31. Il nostro campione rivela come la situazione sia estremamente più complessa e variegata e che non sempre in presenza di un contesto ‘urbano’ si ha una prevalenza di suini, segno evidente che vi erano all’opera, in determinati periodi e paesaggi, differenti pratiche e strategie allevatizie. Sul rapporto tra ovicaprini e suini e sull’implicazione circa le strategie economiche, l’ambiente e le trasformazioni del paesaggio, torneremo sul finale del prossimo paragrafo. Da tutto ciò si evince come il quadro archeozoologico sia molto più complesso di quanto delineato dalla documentazione attualmente disponibile. Il sale e la mobilità. Il sale ha da sempre costituito un elemento di importanza basilare nell’alimentazione degli uomini, ma il suo contributo, almeno fino al secolo scorso diffuso ad ogni livello sociale, non si esauriva all’alimentazione e alla preparazione delle pietanze, ma anche e soprattutto per la conservazione dei cibi – determinante nell’accrescere in modo significativo il valore di questa derrata. La salatura infatti, ha rappresentato fino a tempi recenti la migliore soluzione per conservare i cibi, non soltanto carne e pesce, ma anche tutta un’altra serie di prodotti, come i formaggi, le verdure, i legumi etc… Recenti studi condotti sulla dieta di cacciatori-raccoglitori attuali, caratterizzata da un rapporto animali/vegetali di 35% a 65%, hanno cercato di ricostruire la probabile dieta degli uomini del Paleolitico Superiore. Per il sodio è stato osservato che la sua scarsa quantità nell’alimentazione paleolitica, stimata intorno ai 700 mg al giorno, è “perfettamente compatibile con una vita normale, … e molto idonea a prevenire l’ipertensione arteriosa” (Delluc et al., 1997, p. 191); per una popolazione di cacciatori è sufficiente una discreta quantità di carne rossa, con eventuale integrazione di vegetali contenenti sodio. Dobbiamo allora chiederci perché sia stato introdotto il cloruro di sodio nell’alimentazione umana. Poiché la documentazione archeologica indica che la produzione del sale assunse una certa importanza durante il Neolitico, si è ipotizzato che il suo uso alimentare sia cominciato con l’avvento dell’agricoltura, per la necessità di reintegrare i sali persi, soprattutto dai vegetali, durante la bollitura. Tale ipotesi però è inconsistente, giacché da una parte la bollitura non era sconosciuta alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, dall’altra cereali e legumi possono essere cotti con metodi diversi. Nell’allevamento stanziale, in cui gli erbivori non possono scegliersi le risorse vegetali più adatte per integrare la propria alimentazione, può insorgere la necessità di somministrare agli erbivori una certa quantità di cloruro di sodio. Ma soprattutto è verosimile che si sia affermata l’esigenza di trovare nuove forme di conservazione per prodotti specifici, soprattutto di origine animale. In questa prospettiva spicca la lavorazione del latte; infatti, per alcuni dei suoi derivati è indispensabile l’aggiunta di sale, poiché la salatura costituisce un momento fondamentale della caseificazione. Ciò è tanto più importante perché il latte, in quanto tale, non solo non poteva essere conservato a lungo, ma originariamente non poteva nemmeno essere digerito dagli adulti e quindi non poteva essere consumato tutto subito; tale situazione si modificò soltanto quando alcune mutazioni genetiche determinarono la persistenza della lattasi in individui adulti. Vanno poi considerati i possibili usi non alimentari: dalla concia delle pelli, alla tintura delle stoffe, alla metallurgia. Tuttavia è probabile che per alcuni di questi usi non fosse necessaria una particolare raffinazione e fosse quindi utilizzabile il sale ottenuto dalla semplice evaporazione dell’acqua marina. Ulteriori motivazioni, legate ad esempio al gusto o a particolari valenze simboliche e rituali o ancora a particolari rapporti socio-culturali – come ritiene ad esempio Weller (Weller, 2002a) –, possono aver accresciuto l’importanza del sale, 31 In particolare MacKinnon distingue tra un contesto Urban 1, in sostanza le città, ed un contesto Urban 2, essenzialmente insediamenti di minore importanza (complessi rurali, mansio, villaggi etc.). ma tali motivazioni devono essere state secondarie o comunque derivate, sia in senso cronologico che socio-economico. Anche il fatto che la documentazione archeologica europea sia enormemente più ampia e ricca per l’età del ferro e per le fasi protourbane, quando diventa essenziale lo stoccaggio di notevoli riserve alimentari per un numero elevato di abitanti, rafforza la tesi secondo cui l’aspetto economico-funzionale è stato quello più rilevante. L’importanza rivestita dal sale nel ciclo produttivo dei prodotti caseari e in quello dell’alimentazione animale, come integratore, è stato in larga parte trascurato, così come il suo ruolo nella gestione delle greggi transumanti, stanziali e semi-stanziali, per cui si conosce una vera e propria sovrapposizione topografica tra l’ubicazione delle saline e i luoghi di sosta degli armenti. È dunque decisivo ricostruire nel dettaglio l’ubicazione certa ed anche possibile delle saline, al fine di poter ipotizzare siti attrattivi ed elettrificatori di queste pratiche. Questo bene, tanto prezioso, deve avere avuto una circolazione su grande scala ed estremamente capillare nell’antichità, tale da costituire una risorsa fondamentale per le aree in grado di attivarne la produzione. Il sale infatti costituiva un prodotto circolante su scala subregionale o più vasta anche in periodi in cui lo scambio risultava in via generale piuttosto circoscritto e localizzato. Questo naturalmente dipendeva dalla natura stessa della risorsa la cui produzione poteva essere promossa soltanto in aree dotate di particolari condizioni ambientali, come la presenza di mare con bassi fondali, di lagune interne, di aree palustri costiere, oltre che di miti condizioni climatiche, con estati calde ma asciutte tali da favorire la rapida evaporazione dell’acqua salata all’interno delle strutture predisposte per l’estrazione. Tali condizioni risultavano tutte ben presenti nell’area del lago Prile, dellla laguna di Piombino e in quella di Orbetello-Talamone, dove la presenza di lagune marine interne si associava a fondali poco profondi in grado di favorire la formazione di incrostazioni saline facilmente utilizzabili ben prima del medioevo. Le favorevoli condizioni naturali di questo territorio facevano sì che in estate, durante la fase di consistente evaporazione, quando gli apporti fluviali erano significativamente ridotti e il battente del mare si allontanava, potessero formarsi, lungo le fasce costiere e le insenature, piccoli specchi d’acqua salata chiusi all’esterno e ad elevato potenziale di sfruttamento. La natura del contesto, le esigenze economiche ed alimentari del luogo e l’attestazione dell’importanza dell’estrazione del sale nelle epoche successive all’altomedioevo costituiscono la prova indiretta dell’importanza di questa attività anche in età romana e forse già in precedenza. Tuttavia, il problema della impossibilità di individuare marcatori archeologici legati allo sfruttamento di questa risorsa ci costringe ad operare per le epoche anteriori alle prime attestazioni documentari di saline, soltanto attraverso la ricerca di argumenta ex silentio. Possiamo immaginare che la lunga continuità insediativa, tra la tarda età repubblicana e la tarda antichità, di una serie di insediamenti ubicati lungo le sponde o in prossimità delle zone umide, possa trovare spiegazione anche nel ruolo che questi potevano svolgere nell’ambito dello sfruttamento di tale risorsa. Nonostante l’ampia diffusione e l’importanza di una risorsa così preziosa per l’alimentazione, le fonti antiche menzionano un numero piuttosto limitato di località nelle quali si praticava la produzione di sale. La ricerca archeologica dal canto suo non offre, un contributo particolarmente significativo, né dal punto di vista dei ritrovamenti, né dal punto di vista delle metodologie ad hoc elaborate per la loro individuazione. La difficoltà nel rintracciare strutture specifiche atte per la produzione di sale e di individuare chimicamente le tracce del processo di evaporazione solare, rende una qualsivoglia ricerca in questo senso alquanto ardua. Questo a maggior ragione se consideriamo che in alcuni casi si poteva praticare la semplice raccolta e che anche le saline artificiali erano costituite da strutture di lieve impatto, quali bacini di scarsa profondità scavati nel terreno, serviti da canali che assicuravano l’afflusso delle acque; inoltre tali strutture insistevano su uno degli elementi più instabili del paesaggio, cioè la linea di costa. Solo l’utilizzo dell’etnografia e della ricerca antropologica si è rivelato utile per fornire un campione di casi e tracce tipo. Anche in mancanza di notizie esplicite nelle fonti, tuttavia, è possibile individuare luoghi di produzione del sale nel mondo antico: un elemento importante è costituito dalla presenza di un idoneo contesto ambientale, che può essere ricostruito grazie alla descrizione delle fonti o a studi paleoambientali; l’esistenza di saline attestate in epoca medievale o moderna, o segnalate dalla toponomastica, può suggerire una probabile continuità con le epoche più antiche; la presenza di attività produttive legate allo sfruttamento del sale, come la pesca e la salagione – testimoniate dalle fonti o dalla documentazione archeologica–, può offrire un indizio fondamentale. Nessuno di questi elementi, preso singolarmente, è sufficiente per identificare una produzione di sale nel mondo antico; quando esiste la possibilità di combinare insieme un certo numero di indizi favorevoli, però, si può ragionevolmente ipotizzare la presenza di una tale produzione e tentare di valutarne l’importanza. La tecnica dell’evaporazione al fuoco infatti, prevede spostamenti organizzati e cadenzati verso le zone di estrazione, con tecniche ‘non stabili’ di lavorazione. È evidente che i pani di sale, costituivano la forma più efficiente per il trasporto di questo prodotto, ed è lecito dunque supporre. che queste dinamiche di mobilità operassero anche lungo le coste italiane tra Bronzo Finale e del Primo Ferro. Per il contesto da noi preso in esame, fortunatamente possediamo di alcuni casi in cui le informazioni in nostro possesso permettono una ricostruzione più dettagliata per le attività che si svolgevano sulle zone umide della costa. Come nel Golfo di Baratti, a Populonia32, al Puntone di Scarlino in località le Chiarine, in un contesto territoriale fortemente caratterizzato dallo sfruttamento delle risorse saline33 a Duna Feniglia, dove l’orizzonte cronologico di questi frammenti di ceramica ad impasto, non si esaurisce con l’età del Ferro, ma presenta tracce evidenti dello stesso tipo di sfruttamento e di tecniche per l’età etrusco-arcaica, anche questa caratterizzata da un’elevata quantità di frammenti ceramici34. L’estrazione del sale con l’uso del fuoco, era ritenuta una tecnica sporadica nel Mediterraneo, tipica invece di zone con clima meno favorevole all’evaporazione e aree dell’interno dove le popolazioni erano costrette a tecniche ‘eccentriche’ e ‘non convenzionali’. Studi recenti condotti nel bacino meridionale del mediterraneo, hanno dimostrato come questa tecniche fosse impiegata anche in climi aridi, come ad esempio nel sito di Marismilla, nei pressi di Cadice alla foce del Guadalquivir, attenuando l’importanza del fattore climatico come irrilevante nell’evoluzione di questi processi. L’unicità della geomorfologia della fascia costiera tirrenica, in particolare tra alto Lazio e Toscana, restituisce un quadro che potremmo definire unico nel panorama della penisola italiana, in cui il contesto particolarmente favorevole allo sviluppo delle pratiche di estrazione del sale, corrisponde ad una concentrazione per tutta l’età del bronzo e oltre, di una serie di insediamenti caratterizzati dallo sfruttamento intensivo del sale. Lo scenario che si delinea mostra presenze anche capillari che, solo di recente e seppur in forma rarefatta, sembrano emergere nella loro portata, in cui il sale come risorsa, deve aver assunto un ruolo primario di elettrificazione nelle dinamiche insediative della fascia tirrenica nella seconda parte dell’età del Bronzo e della prima età del Ferro e nell’interscambio con lo sviluppo demografico dell’entroterra appenninico e con lo sviluppo dell’economia pastorale e delle transumanze. Vi è dunque la necessità di reinterpretare vecchi siti produttivi alla luce di quanto detto finora e di estendere Più a sud nell’ager cosanus le caratteristiche favorevoli alla produzione di sale erano anch’essa legata all’ambiente salmastro palustre. La laguna di Orbetello, costituita da bacini salmastri, separati dal mare da stretti cordoni sabbiosi, doveva offrire condizioni ottimali per l’installazione di saline. Il toponimo parlante di Torre Saline rivela che anche alla foce dell’Albegna dovevano essere presenti impianti per la produzione di sale marino. L’edificio quadrato costruito dalla Repubblica di Siena per il controllo e lo stoccaggio del sale nel XV secolo, è tuttora visibile e riconoscibile nella struttura denominata ‘Forte delle Saline’, posta sulla sponda sinistra dell’Albegna, a guardia dello scalo fluviale e degli impianti di produzione di sale. Non si dimentichi, infine, la vasta laguna costiera – di cui oggi resta solo l’estremità più orientale, nota come Lago di Burano – era presente anche a sud-est del promontorio di Cosa, nell’area in cui in epoca romana sorgeva l’insediamento di Portus Cosanus e naturalmente il tombolo sottile tra il mare ed il lago Prile in quella che ad oggi è la pianura grossetana, dove sappiamo vi furono saline medievali e medicee. Nel contesto del Monte Argentario si trovano alcune ville marittime con impianti di produzione di pesce di una certa importanza: la villa 32 BARATTI 2010. 33 ARANGUREN 2002. 34 NEGRONI CATACCHIO - CARDOSA 2002. di Santa Liberata – la Domitiana positio dell’Itinerarium maritimum (499, 8 Cuntz) –, fondata probabilmente nella seconda metà del I secolo a.C., costituiva un articolato complesso produttivo, del quale spiccava una fra le più grandi peschiere del Tirreno, destinata probabilmente all’allevamento del pregiato pesce di scoglio e la villa in località Muracci a Porto Santo Stefano attiva dalla metà del I secolo a.C. dotata non solo di strutture portuali e di un impianto per la piscicoltura, ma probabilmente anche di installazioni per la salagione del pesce; nei pressi di questi impianti fu rinvenuto nell’Ottocento, un deposito di anfore contenenti ossa di tonno, da interpretare più verosimilmente come produzioni locali che come derrate d’importazione42. Si consideri che la pesca del tonno costituì all’Argentario un’attività economica rilevante almeno sino all’inizio del secolo scorso: a Porto Santo Stefano – da identificare forse con il portus Incitaria dell’Itinerarium maritimum (499, 7 Cuntz) – veniva calata un’importante tonnara, della cui attività si conserva traccia nel toponimo moderno di Baia dei Tonni Come avremo modo di ricordare più volte, ma sempre sotto un profilo diverso, la bassa valle dell’Albegna, il tombolo della Giannella e la costa settentrionale del Monte Argentario, furono sede dei praedia della gens Domizia, che nella tarda età repubblicana, beneficiarono delle confische operate da Silla in quest’area in seguito alla guerra civile. In questo momento, nel pieno dell’esplosione mercantile e del fiorire nell’ager cosanus delle grandi ville schiavistiche a vocazione transmarina, gli interessi economici dei Domitii sembrano piuttosto indirizzati verso le grandi produzioni figuline e di anfore da trasporto. Lo scalo di Albinia, appartenente ai praedia di questa famiglia, rappresentava il principale. Per il momento il ruolo dei Domizi non risulta esplicitamente attestato e resta in ombra, rispetto ad esempio a quanto sappiamo di un'altra famiglia egemone nel territorio, come i Sestii. Non si conoscono infatti in questo territorio strutture per la produzione figulina, o anfore bollate dei Domizi. Tuttavia quello che risulta chiaro era l’enorme superficie dei praedia senatori e imperiali nella zona. La gestione di questi terreni doveva essere assolutamente diversificata. E se accettiamo comunque una certa rarefazione degli insediamenti rurali a partire almeno dal II secolo a.C., potremmo vedere una precoce presenza di latifondi, in cui le pratiche silvo-pastorali erano probabilmente la strategia più utilizzata di sfruttamento. Ma è chiaro che gli interessi di una famiglia senatoria per il controllo dei siti per l’estrazione del sale, anche se fosse vero lo scopo primario per la salagione del pesce, deve aver avviato, in corrispondenza dei punti adatti a questo tipo di sfruttamento, una serie di attività ‘collaterali’, come culti emporici, gestione dei guadi e certamente transumanza . E’ probabile che il sale fin dal Neolitico fosse anche destinato agli scambi, magari insieme ad altre materie prime; ad esempio il salgemma siciliano, puro e immediatamente commestibile, potrebbe aver seguito alcune rotte dell’ossidiana; cioè il sale potrebbe essere stato trasportato insieme all’ossidiana, come prodotto pregiato, dai giacimenti della Sicilia all’Italia peninsulare, incrementando il valore e l’importanza degli scambi. Recentemente è stata fatta un’illuminante osservazione (Weller, 1999;Vaquer, 2006) sulla possibilità di desumere l’importanza della produzione e circolazione del sale anche in assenza di reperti specifici; ad esempio nei siti neolitici di Pescale (Modena) e di Menglon (Francia meridionale), ambedue vicini a sorgenti salmastre, è attestata una percentuale di ossidiana sarda e di selce pregiata più alta rispetto ai siti coevi dei rispettivi territori. Un discorso analogo si può fare per altri siti vicini, tra cui ad esempio Fiorano, del Neolitico antico, e Spilamberto, dell’età del rame. L’unica spiegazione possibile è che tali siti costituissero due nodi gerarchicamente importanti nella rete di scambi, in quanto tappe obbligate per l’approvvigionamento del sale. Osservazioni simili sono state fatte riguardo alla circolazione di manufatti particolari, come le asce levigate: A proposito della circolazione di materie prime e manufatti, va considerato il fenomeno della transumanza, che, oltre alla propria specificità economica, comporta un indotto, o meglio un’economia di rete sistemica, in cui il sale può avere svolto un ruolo importante. I pastori cioè, durante il loro soggiorno invernale nei pascoli presso il mare, avrebbero potuto approvvigionarsi di sale marino, che poi in parte avrebbero utilizzato per la caseificazione, in parte potrebbero avere sfruttato come mezzo di scambio. L’etnografia documenta anche l’utilizzazione delle stesse pecore come bestie da soma durante la transumanza: un esemplare della varietà Jumly poteva trasportare fino a 13 kg di sale dal Tibet al Nepal nei mesi di luglio-agosto (Ryder, 1983) e in qualche caso resti ossei di ovini preistorici mostrano tracce di deformazioni provocate dal trasporto di carichi pesanti. Alcuni autori (Lane, Morris, 2001) hanno avanzato l’ipotesi del “modello opportunistico”, cioè una produzione di sale effettuata da pastori durante i soggiorni presso le coste marine, anche perché presso i luoghi di produzione non sono state individuate tracce di insediamenti stabili. La produzione del sale era comunque impegnativa, anche in ambienti mediterranei; infatti se l’evaporazione non era sufficiente o il sale risultante non era abbastanza puro per l’alimentazione o se comunque si volevano ottenere pani facilmente trasportabili, bisognava produrre molti vasi e bruciare grandi quantità di legna, il che rientrebbe perfettamente all’interno di un sistema integrato ed interconnesso di sfruttamento delle risorse agro-silvo-pastorali. È stato obiettato che il soggiorno costiero dei pastori coincide con il periodo autunno-inverno, non avrebbe favorito le condizioni per il metodo di evaporazione per l’estrazione del sale. Il che però potrebbe speghiare benissimo l’utilizzo del sistema del briquetage utilizzato in climi o stagioni fredde. Tuttavia, su un piano generale, si ha l’impressione che l’attività pastorale durante la preistoria in Italia, come forse anche in altre aree, sia stata finora sottostimata, con riferimento sia alla sua estensione geografica, sia alla sua importanza economica, sia infine alla cronologia, poiché l’avvio e lo sviluppo probabilmente furono più precoci di quanto si pensasse. Ad esempio, recenti studi sul territorio del levante ligure nel terzo millennio a.C. hanno ipotizzato che l’attività pastorale potesse essere collegata all’estrazione mineraria sia di diaspro che di minerali cupriferi, nel periodo di permanenza dei pastori a quote medio-alte; in uno scenario del genere la produzione e il trasporto del sale potrebbero avere svolto un ruolo di implementazione di processi economici già molto importanti. E’ stato anche ipotizzato, che durante i periodi di soggiorno estivo in certe aree montuose del ordest dell’Italia, i pastori avrebbero fornito, attraverso il formaggio, una buona parte dell’apporto alimentare per i minatori impegnati nell’estrazione dei minerali del rame e degli specialisti addetti alle prime fasi di lavorazione del metallo. Obiettivi: - Riconsiderare nel loro insieme tutti i dati editi nella prospettiva della mobilità e delle pratiche silvo pastorali, sia quelli situati in pianura che quelli, largamente trascurati, presenti sul Monte Amiata. - Acquisire nuovi dati alla luce dell’individuazione di aree chiave con alta potenzialità scientifica (scavi-survey) - Dove possibile proporre analisi su campioni (polliniche, isotopiche etc.) utili alla ricostruzione della mobilità di uomini ed animali e all’individuazione di precise ptratiche silvo-pastorali, tramite il record ecologico - Proporre un modello di sviluppo per la transumanza nel contesto preso in esame, alla luce anche dei dati sul popolamento e le trasformazioni socio-economiche ed ambientali del territorio, con particolare riferimento al periodo romano e tardoantico, per cui il tema è stato in gran parte messo da parte - Indagine etnografica con acquisizione di materiale audio-visivo e relativo alla cultura materiale, con relativa catalogazione (capanne, strumenti etc) - Individuazione e proposta per una musealizzazione ‘attiva’ di alcuni percorsi o aree ricche di testimonianze e tracce relative alle pratiche transumanti.

Sistemi agro-silvo-pastorali in un contesto dell’Etruria costiera. Aspetti conservativi del paesaggio in una prospettiva di lunga durata / Vanni, Edoardo. - (2014 Jun 24). [10.14274/UNIFG/FAIR/335328]

Sistemi agro-silvo-pastorali in un contesto dell’Etruria costiera. Aspetti conservativi del paesaggio in una prospettiva di lunga durata

VANNI, EDOARDO
2014-06-24

Abstract

Dalla fine dell’età del Bronzo alla tardantichità. Il dibattito sulla transumanza, tra vecchie e nuove certezze. Lo studio diacronico dell’allevamento, e in particolare dell’allevamento transumante, deve essere correlato con la molteplicità di ambiti geografici e culturali - pianura, montagna, organizzazione sociale etc. - nei quali fu praticato: ad oggi alcuni risultano indagati in modo approfondito, in ambito micro o sub-regionale, mentre altri sono solo in parte conosciuti1. Le sempre più diffuse strategie di ricerca multidisciplinare accrescono progressivamente le nostre conoscenze, soprattutto nel caso di indagini realmente integrate; parallelamente, accanto a studi più propriamente storico-archeologici, la landscape archaeology evidenzia in un'ottica diacronica i contesti ambientali, il tessuto degli insediamenti, delle risorse, delle attività produttive, e fornisce dati per lo studio del popolamento2. Al tempo stesso, si aprono sempre nuove applicazioni e prospettive (grazie, soprattutto alle indagini naturalistiche, paleoecologiche e archeozoologiche) e si accentua l’esigenza che i dati vengano trattati e acquisiti in modo da essere comparabili: più si affinano le strategie di ricerca più si ampliano i campi di indagine secondo una prospettiva globale nel metodo e contestuale nei fini. La grande transumanza, cioè quella a lungo raggio, è divenuta protagonista dell’interesse e della discussione e ha spesso eclissato l’attenzione per l’allevamento transumante entro ambiti circoscritti, l’allevamento stanziale e la pastio villatica. La discussione, condotta da storici, archeologi e topografi, si è imperniata sull’articolazione diacronica, in particolare sulla continuità o discontinuità della transumanza (con specifico riferimento alla scansione tra le fasi preromana, romana, tardo antica ed altomedievale), sui prodotti ed i mercati civili e militari del grande allevamento. Questa contrapposizione di scala ha originato anche il grande 1 M. PASQUINUCCI, Montagna e pianura: transumanza e allevamento, in Espaces intégrés et ressources naturelles dans l’empire romain, Actes du colloque de l’Université de Laval (Québec, 5-8.IV.2003), éd. M. Clavel-Lévêque - E. Hermon, Besançon, Presses Universitaires de Franche-Comté, 2004, pp. 165-178; M. CORBIER, La transhumance aperçues historiographiques acquis récents, in La question agraire à Roma. Droit romain et société, perception historiques et historiographiques, éd. H. Hermon, Como, Edizioni New Press, 1999, pp. 37-56, con particolare attenzione alla transumanza duranti il peridodo romano, ma con interessanti riflessioni sulla fortuna di questo particolare soggetto storico, nella storiografica italiana e francese. 2 Per un quadro ‘evolutivo’ della Landscape Archeology, con particolare riferimento al mondo anglosassone e all’archeologia storico antropologica mediterranea, A. LAUNARO, Concerning Landscape, «Agri Centuriati. An International Journal of Landscape Archaeology», I (2004), pp. 31-41. Il progetto Populus, fu il primo vero tentativo di riunire le esperienze di archeologia dei paesaggi maturate nei differenti paesi europee, ma anche di creare un’uniformità metodologica ed epistemologica sulle procedure d’analisi e sulle modalità interpretative; per gli aspetti metodologici The Archaeology of Mediterranean Landscapes, ed. G. Barker - D. Mattingly, Oxford, Oxbow, 1999-2000, voll. 1-5, I; per quelli demografici Reconstructing Past Population Trends in Mediterranean Europe, ed. J. Bintliff – K. Sbonias, Oxford, Oxbow, 1999; per le ricostruzioni ambientali e geopedologiche Environmental Reconstruction in Mediterranean Landscape Archaeology, ed. P. Leveau et alii, Oxford, Oxbow, 1999; per l’applicazione dei metodi GIS al paesaggio Geographical Information System and Landscape Archaeology, ed. M. Gillings et alii, Oxford, Oxbow, 1999; per i metodi non distruttivi di analisi Non-Destructive Techniques Applied to Landscape Archaeology, ed. M. Pasquinucci - F. Trément, Oxford, Oxbow, 2000; per i metodi ed i risultati nell’applicazione della ricognizione archeologica nel paesaggio antropizzato del mediterraneo Extracting Meanings from Ploughsoil Assemblages, ed. R. Francovich - H. Patterson, Oxford, Oxbow, 2000; per le critiche al Populus Project J. F. CHERRY, Vox POPULI: Landscape archaeology in Mediterranean Europe, «Journal of Roman Archaeology», XV (2002), pp. 561-573. Per quanto concerne l’archeologia dei paesaggi in Italia G. BARKER, L’archeologia del paesaggio italiano: nuovi orientamenti e recenti esperienze, «Archeologia Medievale», III (1986), pp. 7-29; F. CAMBI - N. TERRENATO, Introduzione all’Archeologia dei Paesaggi, Roma, Carocci, 1994 e da ultimo Manuale di archeologia dei paesaggi. Metodologie, fonti, contesti, a cura di F. Cambi, Roma, Carocci, 2011. dibattito tra la spiegazione geografica e quella politica sull’origine della transumanza e sui metodi da utilizzare per l’indagine di tali sistemi3. Temi e obiettivi Flussi transumanti, poleogenesi e pratiche agro-silvo-pastorali nell'Etruria settentrionale dal Ferro al Tardo Antico. L'area della Toscana meridionale fu interessata dal fenomeno della transumanza non solo tra Medioevo ed Età Moderna, ma anche a partire dall'età del Bronzo, con modalità, probabilmente differenti e ancora del tutto da delineare4. Resta infine una questione aperta la conoscenza del popolamento e delle pratiche agro-silvo-pastorali attivate sin dall’età del Bronzo e del primo Ferro in questo contesto, necessarie per dar conto delle numerose ‘stazioni’ protostoriche presenti nell'area, con frequentazione in molti casi ‘stagionale’ e così riflettere sul fenomeno poleogenetico tra Bronzo Finale e primo Ferro. Tale fenomeno in questa particolare zona dell’Etruria conobbe sviluppi del tutto particolari rispetto alla formazione delle città etrusche più a sud, e costituì la cifra distintiva di questo territorio dando vita a quella separazione tra Etruria meridionale ed Etruria settentrionale che, se pur sfumata, resterà del tutto operante per l’epoca romana5. In questo senso riteniamo che tale differenza possa essere rintracciata in forme economico-sociali a forte matrice conservativa, di cui il pastoralismo può aver costituito un fattore non del tutto marginale. La storiografia sulla transumanza attraverso la Toscana, pur ricca e accurata, si è fortemente concentrata sull'Età Moderna - a dispetto della precocità di tale fenomeno fin dal Medioevo e alle tracce della sua presenza anche in epoca antica e nell'Età del Bronzo - , in particolare per lo studio dei percorsi e delle frequentazioni pastorali, tendendo a privilegiare il recupero della memoria e la 3 F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986, 2 voll., I, pp. 83 e sgg.; O. DELL'OMODARME, Le dogane di Siena, di Roma e di Foggia: un raffronto dei sistemi di "governo" della transumanza in età moderna, «Ricerche storiche», XXVI (1996), 2, pp. 259-260; M. PASQUINUCCI, La transumanza nell'Italia romana, in E. GABBA - M. PASQUINUCCI, Strutture agrarie e allevamento transumante nell'Italia romana, Pisa, Giardini, 1979, pp. 79-91; F. CAZZOLA, Ovini, transumanza e lana in Italia dal medioevo all'età contemporanea, in Percorsi di pecore e di uomini: la pastorizia in Emilia Romagna dal Medioevo all'età contemporanea, Bologna, Clueb, 1993, pp. 11-14.; 4 A. CIACCI - M. FIRMATI, La valle dell'Ombrone in periodo etrusco e romano, in Ombrone. Un fiume tra due terre, a cura di G. Resti, Pisa, Pacini Editore, 2009, pp. 15-16; Come sappiamo oramai dalle analisi archeozoologiche disponibili per numerosi contesti dell’Etruria meridionale e settentrionale, l’attività pastorale prevale nettamente sull’allevamento bovino e suino seguendo un trend che già si era avviato sin dalla media età del Bronzo. Analizzando complessivamente tutti gli insediamenti del periodo si nota come le percentuali degli ovicaprini aumentino da circa il 23,1% del Bronzo medio al 34,2% del Bronzo Recente fino al 49,7% circa del Bronzo Finale. Forse siamo di fronte a una prima tesaurizzazione del bestiame domestico. Il surplus di pecore (il pecus del mondo latino) potrebbe andare a costituire parte della ricchezza mobile dei ceti sociali più ricchi, J. DE GROSSI MAZZORIN, Economie di allevamento in Italia centrale dalla media età del Bronzo alla fine dell’età del Ferro, in Settlement and Economy in Italy, 1500 BC-AD 1500. Papers of the Fifth Conference of Italian Archaeology, ed. N. Christie, Exeter, Oxbow, 1995, (Oxbow Monograph 41), pp. 167-177. Questi aspetti vanno certamente collegati con le forme insediative, i fallimenti ed i successi di alcuni siti rispetto ad altri, in chiave di trasformazioni di lunga durata. Se però nell’Etruria meridionale nel periodo protovillanoviano e poi villaniaviano, il quadro muta nuovamente in favore della suina, per l’Etruria settentrionale e interna la pastorizia sembra continuare a rivestire un ruolo economico di primo piano. Il fatto poi che il fenomeno poligenetico conosca le sue precoci e più complete manifestazioni nell’Etruria meridionale (in virtù proprio di quel surplus?) in anticipo su quanto avviene invece in Etruria settentrionale, potrebbe essere dovuto proprio a scelte legate al sistema produttivo pastorale piuttosto che agricolo. 5 La separazione tra le ‘due Etrurie’ ha una tradizione storiografica molto lunga. Dal punto di vista ‘archeologico’ queste differenze, sia sociali che economiche, se particolarmente evidenti alle soglie del Primo Ferro, con un ritardo nella formazione della proto-città e della città dell’Etruria settentrionale rispetto alle città meridionali e centro-tirreniche, tendono a sfumare in epoca romana o per lo meno a mutare le proprie gerarchie e modalità di strutturazione. In generale si veda G. CAMPOREALE, Etruria meridionale (ed Etruria settentrionale?), in Dinamiche di sviluppo delle città nell’Etruria meridionale. Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Atti del XXIII convegno di Studi Etruschi ed Italici (Roma, Veio, Cerveteri, Pyrgi, Tarquinia, Tuscania, Vulci, Viterbo, 1-6.X.2001), Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore, 2005, pp. 15-20. descrizione piuttosto che l'analisi, in particolare della sua influenza e del suo legame con la costruzione del paesaggio storico; risulta così assente una prospettiva interdisciplinare e di lunga durata6. Il ruolo dell’ecologia storica per la ricostruzione delle strategie agro-silvo-pastorali. L’osservazione diretta a livello micro-topografico delle associazioni vegetali presenti in un determinato areale, sono la traccia ‘vivente’ di una specifica storia che ha condotto a quella specifica associazione vegetale. Le specie che occupano uno spazio definito sono il risultato di un interazione non casuale, tra clima, pedologia, fauna ed azione antropica7. Analizzando la flora si ottiene una conoscenza indiretta dei fattori ecologici che determinano un dato ambiente (climatici, orografici, edafici, biotici). Tra i fattori biotici, quello che a noi interessa in chiave di una ricostruzione ‘olistica’ dei sistemi agro-silvo-pastorali, sono compresi appunto quelli antropici8. Il singolo popolamento così ricostruito in associazione ad un determinato ed ipotetico ambiente, diviene ‘caratteristico’ e costituisce un sistema di riferimento valido a diverse scale, da quella sub-regionale a quella sub- continentale9. All’interno di questo sistema di riferimento multiplo le specie diventano così ‘indicatrici’ di un dato ambiente: alcune specie possiedono caratteristiche auto ecologiche così peculiari da renderle rilevatrici indirette, di pregresse o attuali condizioni ambientali10. La differenza con l’ecologia storica analitica non è di poco conto. Quest’ultima si concentra piuttosto sulla specificità del sito, sviluppando una correlazione tra il comportamento ecologico attuale delle specie (o dalla vegetazione desumibile dai diagrammi pollinici) e le pratiche di gestione pregresse o attuali alla scala locale, senza inferire un modello di associazione vegetale teorico. Ai fini dell’interpretazione storica e delle procedure analitiche, di estremo interesse sono soprattutto le specie ei gruppi di specie ‘anomale’, rispetto alla vegetazione dominante di un sito: questo rumore di fondo costituisce la memoria delle comunità vegetali pregresse, indicatrici di un ambiente oggi scomparso, ma soprattutto unica traccia di una gestione oramai scomparsi11. Negli studi di fitosociologia è basilare invece la comparazione tra gli ecosistemi attuali e quelli potenziali che definiscono la storia evolutiva o involutiva di un ambiente12. I modelli predittivi creati dalla fitosociologia, le serie 6 Si veda ad esempio in Bibliografia i testi di Marcaccini, Calzolai, Rombai, Barsanti, Dell'Omodarme. Imberciadori è stato l'unico ad occuparsi della Dogana dei Paschi di Siena nel XV secolo con l'edizione dello Statuto del 1419: I. IMBERCIADORI, Il primo Statuto della Dogana dei Paschi maremmani, in ID., Per la storia della società rurale. Amiata e Maremma tra il IX e il XX secolo, Parma, La Nazionale Tipografica, 1971, ora in ID., Studi su Amiata e maremma, a cura di Z. Ciuffoletti - P. Nanni, Firenze, Accademia dei Georgofili, 2002. 7 Il sistema determinato da specie diverse in equilibrio, che interagiscono tra di loro, costituisce un’associazione vegetale. Lo studio dell’associazione vegetale è oggetto della fitosociologia, sulla scorta delle teorie elaborate dallo svizzero Braun. Blanquet (1884-1980). L’assunto è che a una determinata associazione vegetale corrisponda uno specifico ambiente e viceversa. 8 Per il concetto di ricostruzione olistica dei sitemi agro-silvo-pastorali si veda l’esperienza svedese di Ishe, Lindhal 2000 che utilizzano concetti come holistic landscape, h. indices, h. parametres etc.. Il significato è mutuato da Troll 1939, 1968. 9 Braun-Blanquet 1964. 10 Pignatti 1997. 11 È interessante notare come le dinamiche vegetative che seguono l’abbandono di una pratica, risultino indicative della medesima. Sperimentazioni condotte sulle specie vegetali più indicative di pascolo, hanno mostrato come al variare delle proprietà dell’ecosistema (microclima, micro topografia, luce, pH etc.), le medesime possono reagire in modi diversi: rimanere in situ, se sono specie altamente competitive o hanno una ricca banca semi nel suolo, o sparire del tutto conservando però la loro memoria nella banca semi del suolo.si è visto sperimentalmente che rimuovendo parti della copertura vegetale può stimolare la germinazione dei semi, facendo riapparire ad esempio un prato da fieno (Marañón 1986; Jonsson 1995; Losvik 1999; Rosef 2004 per le prove sperimentali). 12 Biondi 2001. In questo senso Brun 2011 per la zona della Franche-Comté, ha comparato la vegetazione potenziale con i pollini sedimentati (comparison of the vegetation and its pollen rain, p. 141), per inferire il grado di ‘disturbo’ antropico sullo sviluppo atteso, costituendo allo stesso tempo una serie di strong indicators of human activities. L’obiettivo non troppo velato è stabilire se le native plants and aliens introduced long ago (archaeophytes), or more recently (neophytes) abbiano potuto costituire una vegetazione ‘possibile’ di là dell’intervento umano. predittive e regressive basate sul concetto di climax13, offuscano in parte o del tutto i fattori storici responsabili dell’ecologia di un sito. Ogni paesaggio come più volte ricordato non è né totalmente naturale, né totalmente culturale: parafrasando le parole di K. Krzywinski nell’introduzione del suo studio sulla regione tra il Nilo e il Mar Rosso,bisogna accettare l’idea che tutti i landscapes siano cultural landscapes, implica riconoscere che i processi ecologici debbano essere visti in contesti storicamente determinati14. La ‘svolta culturale’ in geografia, così’ com’è stata definita da M. Quaini, corre il rischio di identificare i paesaggi solo per la loro valenza simbolica, mitica e percettiva, trascurando le valenze materiali e socio-economiche15. L’archeologia, lo studio della cultura materiale e della storia di un sito sono dunque decisive per decifrare i cambiamenti ambientali visibili nella vegetazione attuale o desumibili dalle analisi polliniche. L’etnobotanica svolge in questo frangente il ruolo dell’archeologia sperimentale e dell’etnoarcheologia: osserva l’evoluzione della flora in quei sistemi mantenuti con tecniche tradizionali o riproduce le dinamiche di interazione tra sfruttamento e gestione delle risorse (come il pascolo ripetuto, il ronco, la capitozza tura etc.) con la vegetazione, verificando le conseguenze dell’abbandono di talune pratiche16. In questo quadro così sommariamente tracciato, ci preme rilevare come la complessità del paesaggio emerga ancora una volta in tutta la sua forza. Le categorie etiche di classificazione del paesaggio (naturale, sub- naturale, semi-naturale, culturale etc.) spingono alcuni fenomeni storici nella condizione di invisibilità. La scommessa sarebbe quella quindi di istituire delle categorie analitiche (emiche) che tengano conto di tutti i fattori che costituiscono quel complesso palinsesto che è il paesaggio, e delle relazioni costituite storicamente attorno ad una determinata pratica, riportando alla luce le modalità di gestione delle risorse, paesaggi e strutture socio-economiche. Costituire una serie documentaria di ‘specie indicatrici’ di un dato comprensorio vorrebbe dire accrescere le potenzialità storico-archeologiche del paesaggio, poter rispondere a vecchie domande o porne di nuove. Sviluppare le connessioni esistenti tra la presenza di determinate specie e le modalità di uso del suolo, ci porterebbe al di là dall’individuare i classici indicatori antropogenici che consentono di stabilire genericamente un qualche uso del suolo da parte di una comunità attraverso le sue conseguenze sulla vegetazione, individuando con più precisione le pratiche specifiche di gestione (sfalcio, pascolo, uso del fuoco etc.)17. Il nostro contesto in esame possiede già tutta una serie di siti per cui sono disponibili delle sequenze polliniche in grado di restituirci il quadro evolutivo della vegetazione e dell’uso del suolo per il periodo da noi preso in esame. La sfida sarà quella di reinterpretare questi dati alla luce della particolare prospettiva della pratica della transumanza e delle scelte agro-pastorali del comprensorio, tenendo conto della strettissima relazione tra composizioni fitosociologiche e scelte insediative ed economiche dell’uomo. I resti faunistici come indicatori di accumulazione e pratiche pastorali. In generale dobbiamo dire che i siti di cui si possono seguire le variazioni diacroniche per il nostro contesto, e prendendo in esame anche altri siti dell’Etruria meridionale, interna e settentrionale (Pitigliano, Luni sul Mignone, M. Rovello ad esempio)18, e analizzando la composizione percentuale delle tre principali specie di animali domestici in senso cronologico, si può notare come in Etruria meridionale si sia verificato un leggero cambiamento di indirizzo delle pratiche di allevamento19. Dalle analisi archeozoologiche si nota come nel periodo villanoviano l’attività pastorale prevale 13 Russell 1997. 14 Krzywinski 2001. 15 Quaini 2005, 2006. 16 Pollock et alii 2013 sulle prove sperimentali delle conseguenze di una diminuita sheep grazing pressure, con bibliografia. 17 Il pericolo che si nasconde dietro l’utilizzo di questi strumenti euristici, è quello di appiattire la specificità di un dato contesto o di una data epoca in uno sfondo privo di storicità. 18 De Grossi Mazzorin 1985 per Pitigliano; per Luni sul Mignone Gejvall 1967; Lepiksaar 1975; per Monte Rovello Caloi, Palombo 1986. 19 De Grossi Mazzorin 2001: p. 325, 2006: p. 90, nettamente sull’allevamento bovino e suino seguendo un trend che già si era avviato sin dalla media età del Bronzo. Analizzando complessivamente tutti gli insediamenti del periodo si nota come le percentuali degli ovicaprini aumentino da circa il 23,1% del Bronzo medio al 34,2% del Bronzo Recente fino al 49,7% circa del Bronzo Finale. Queste conclusioni erano già ben presenti nello studio di Giovanni Puglisi Carratelli sulla nascita e diffusione della Civiltà Appenninica del 1969, pur considerando in maniera marginale i dati archeozoologici disponibili a quel tempo20. La coincidenza delle presenza di stazioni di questa civiltà con i valichi montani e in zone chiave delle pianure costiere, veniva messo in relazione agli spostamenti stagionali transumanti, pur non esaurendone fino in fondo tutte le implicazioni21. Di solito si tende a considerare la pastorizia come tipica e predominante del Bronzo Medio (facies Appenninica), una pratica in cui la mobilità rappresenta il tratto distintivo e in cui la presenza di stazioni stagionali, fa di questo sistema non solo il caposaldo dell’economia di questo periodo e di queste società ma pone specifici indirizzi alla strategia insediativa, mentre invece il Bronzo Recente e Finale (facies subappenninica e protovillanoviana) sono considerati più basati su un’economia mista in cui si realizza l’integrazione fra fenomeni sedentari legati allo sfruttamento agricolo con fenomeni di allevamento stagionale. L’incremento sostanziale dell’allevamento per quest’ultimo orizzonte cronologico, risulta con tutta evidenza dai dati archeozoologici e come abbiamo avuto modo di verificare per il nostro contesto, è particolarmente evidente a Scarceta, dove si avverte il cambio del peso degli ovicaprini (almeno per i dati disponibili per il numero di individui), a Pitigliano e a Sorgenti della Nova22. Tale percentuale, come sembrano confermare i campioni provenienti da alcuni contesti dell’Etruria meridionale (ad esempio Cretoncini a Traquinia e Gran Carro a Bolsena), sembra mantenersi costante ancora nel IX sec. a.C., mentre dall’VIII secolo fino a tutto il periodo arcaico invece tale percentuale sembra calare23. L’aumento percentuale delle greggi nel Bronzo finale potrebbe anche trovare una spiegazione nelle modificazioni sociali verificatesi in 20 Puglisi Carratelli 2005, soprattutto Cap. III. sull’attualità del pensiero di Puglisi si veda da ultimo Manfredini 2005; Caneva 2005 21 Puglisi Carratelli 2005 : p. 18. Nell’idea di Puglisi Carratelli, l’appennino non rappresentava il luogo di permanenza di questi popoli, ma piuttosto un luogo di confluenza identitaria e culturale, vero luogo di osmosi fra gruppi umani, mentre le basi principali erano situate nelle pianure o nelle fasce collinari costiere. 22 A Sorgenti della Nova come abbiamo visto il numero cospicuo di resti suini (circa il 75%), proveniva essenzialmente da un contesto di tipo cultuale (la Grotta 10), che ha fortemente modificato la composizione del campione (Caloi, Palombo 1981; già notato in Rendeli 1993: p. 142; Bartoloni et alii 1997: p. 121). Analisi successive di resti provenienti da contesti abitativi hanno confermato la prevalenza degli ovicaprini (Bartoloni et alii 1997: p. 122; De Grossi Mazzorin 1998). Anche se i resti faunistici provenienti da contesti cultuali possono essere poco indicativi sulla presenza di bestiame e sulla loro importanza relativa, l’analisi osteometrica può essere indicativa del progressivo miglioramento diuna razza a scopo allevatizio, come è stato desunto dai resti del contesto cultuale del santuario di pescocchiaro, De Grossi Mazzorin 1995c. 23 A Gran Carro i reperti faunistici provengono dagli scavi degli anni 1965 e 1966 (De Grossi Mazzorin 1995b) e dalle campagne di scavo del 1974 e 1980 (Pennacchioni 1977; Costantini et alii 1987), e si inquadrano cronologicamente nel IX secolo a.C. Gli ovicaprini sembrano essere rappresentati esclusivamente dalle pecore e costituiscono la specie domestica più rappresentata, anche se in base alla quantità di carne che forniscono, l’apporto proteico era dovuto principalmente all’allevamento bovino e alla caccia del cervo. Un così alto contributo alimentare dovuto alla caccia è abbastanza insolito per insediamenti di questo periodo, basti pensare che a Tarquinia- Cretoncini, sempre nel IX secolo a.C., la selvaggina è scarsamente documentata (De Grossi Mazzorin 2006: p. 81). Per lo scavo si veda Camerini, Fioravanti 1977; Tamburini 1995. A Tarquinia la fauna rinvenuta negli scavi condotti nel 1990-1991 su Poggio Cretoncini, nelle immediate vicinanze del pianoro della Civita di Tarquinia, riferibile alla seconda metà IX- metà VIII a.C., vede i caprovini come la specie domestica più rappresentata, con percentuali che oltrepassano il 50% sia nel conto del numero di frammenti che in quello del numero minimo di individui. La maggior parte del gregge era macellata entro i primi tre anni, cioè quando la maggior quantità di carne viene resa con i più bassi costi di produzione. Tuttavia alcuni individui oltrepassavano tale età, probabilmente si tratta di quegli animali tenuti per la riproduzione o per la produzione di lana. I suini erano di grosse dimensioni e il loro allevamento era chiaramente finalizzato alla produzione di carne, ma a differenza dei nostri giorni in cui la macellazione avviene entro il primo anno di vita, allora i maiali venivano uccisi prevalentemente tra i 18 e i 24 mesi, questo a causa della loro crescita più lenta rispetto a quella delle razze attuali. I resti di animali selvatici sono molto scarsi e tra questi sono rappresentati solo il cervo e l’orso (Sorrentino 1981; Bedini 1997). Il campione rinvenuto invece sugli scavi della Civita, abbraccia un arco cronologico che va dal IX al II secolo a.C. La fase I comprende dal IX al VII secolo a.C., la fase II dal VI al V secolo a.C. e tra il III e il II secolo a.C., la fase 3. In questo campione i suini risultano predominanti in tutte le fasi, testimoniando la differenza tra contesto ‘rurale’ (Cretoncini) ed ‘urbano’. Per il sito di Tarquinia si veda Bonghi Jovino 1986; Bonghi Jovino, Chiaramonti Trerè 1997. questo periodo; forse siamo di fronte a una prima tesaurizzazione del bestiame domestico. Il surplus di pecore (il pecus del mondo latino) potrebbe andare a costituire parte della ricchezza mobile dei ceti sociali più ricchi. È interessante notare che è in questa fase che le curve di mortalità degli ovicaprini segnalano per la prima volta una particolare attenzione alla produzione della lana24. In alcuni centri si nota infatti la presenza di un gran numero di animali adulti che non troverebbe una giustificazione in un allevamento le cui finalità primarie siano la carne o il latte. Confermerebbero questa tendenza le mutate condizioni demografiche25, in cui la carne di maiale diviene un’importante componente della dieta alimentare. Infatti i suini sembrano in genere prevalere nei grossi centri urbani come Tarquinia, Roselle e Populonia. A Roselle come abbiamo avuto modo di vedere, in contesti di VI secolo a.C., la percentuale predominate era quella relativa ai suini, anche se gli ovicaprini non devono aver rivestito un ruolo secondario, il cui sfruttamento era indirizzato verso un utilizzo misto. Un consistente gruppo di insediamenti dell’Etruria, mostra un economia incentrata prevalentemente sull’allevamento pastorale con una media di 17% di suini, 32,7% di bovini e la prevalenza di caprovini. Questi sono infatti attestati con valori percentuali che variano tra il 44 e il 55% con punte più alte nel sito di Torrionaccio (74%)26. Da questo insieme si discostano per la prevalenza di bovini seguiti dagli ovicaprini e dai suini le capanne di Luni sul Mignone (trincea I) e lo strato III di Pitigliano, per il quale va altresì ricordato che si tratta di livelli di scarico ove la scansione crono-tipologica è estremamente difficile. Anche i livelli più recenti di Monte Rovello (livelli 7-6) mostrano questa evidenza e, se confrontati con lo strato 8, potrebbero indicare un’evoluzione interna verso strategie di accumulo armentizio, indizio indiretto di una più marcata stratificazione sociale interna. L’aumento dei suini raggiungerà poi il suo apice in pieno periodo imperiale, almeno per i contesti urbani scavati a Roma (Caput Africae, Meta Sudans, Quirinale, Foro Transitorio, Arco di Costantino e acquedotto dell’Aqua Marcia) negli ultimi anni, l’animale sicuramente più rappresentato è il maiale, con percentuali che oltrepassano il 70% dei resti. Riflessioni che prendono in considerazione diversi contesti, con l’intento di chiarire il peso avuto dal consumo di carne suina per il periodo romano, sia in chiave di composizione del campione, sia in chiave economica, sono state avanzate da A. King per l’impero e da M. MacKinnon per l’Italia romana27. Per la penisola, le analisi archeozoologiche e le informazioni ricavabili dalle fonti letterarie ed iconografiche, suggeriscono due tipi di strategie di allevamento: quello brado in foresta con animali di piccola taglia, legato principalmente ad insediamenti rurali ed uno basato sullo sfruttamento intensivo di animali di grossa taglia, tenuti in recinti e pertinenti centri urbani o luoghi di mercato28. Bisogna comunque sottolineare che la percentuale di suini ad esempio desumibile dal campione di Populonia (circa il 46%), non raggiunge le percentuali ragguardevoli di altri contesti, come ad esempio Capua (tra il 60 e il 68%)29 o Cantone (60%), ma piuttosto si avvicina a contesti di tipo rurale, come la villa a Lugnano in Tiberina o quella di Settefinestre e Le Colonne, dove si controbilancia con percentuali rilevanti di ovicaprini30. Se poi riflettiamo sulla vicinanza della laguna e su un paesaggio sostanzialmente spoglio, i suini dovevano con tutta probabilità trovarsi altrove, probabilmente nelle colline di Campiglia, dove una zona più boscosa con Q. caducifoglie e Q. suber offriva un ambiente favorevole al pascolo. Le basse percentuali di suini a Cosa invece, e l’importanza degli ovicaprini nell’economia della città alle soglie del II secolo a.C., sembrano fare da eco a quello che sappiamo del primo periodo di Settefinestre, in cui gli ovicaprini si trovano quasi nelle stesse 24 De Grossi Mazzorin 2001. 25 Sulla complessa questione delle cifre concernenti la demografia etrusca, si veda Kron 2012, che basa le sue riflessioni sui dati osteologici delle necropoli studiate, non prendendo in considerazione la distribuzione e la densità dei siti nei vari periodi. Anche Rajala 2006 tra Bronzo Finale e Orientalizzante. 26 Placidi 1978 per Torrionaccio; Gajvall 1967 e Lepiksaar 1975 per Luni sul Mignone; Caloi, Palombo 1986 per Monte Rovello. 27 King 1999; Mackinnon 2001 e in particolare 2004a: pp. 138-62 per i suini. 28 Mackinnon 2001: p. 664-5. 29 King 1987. 30 Mackinnon 1998 per Lugnano in Tiverina. percentuali dei suini. È probabile che l’importanza dell’allevamento transumante ovicaprino in questa parte dell’Etruria, abbia mantenuto una sua valenza precipua che affonda le sue radici nel periodo etrusco, trasformandosi in maniera sostanziale solo alla fine del II secolo a.C. Sia King che Mackinnon, evidenziano l’importanza della resa alimentare, ma soprattutto il tipo di contesto di rinvenimento, se urbano o rurale31. Il nostro campione rivela come la situazione sia estremamente più complessa e variegata e che non sempre in presenza di un contesto ‘urbano’ si ha una prevalenza di suini, segno evidente che vi erano all’opera, in determinati periodi e paesaggi, differenti pratiche e strategie allevatizie. Sul rapporto tra ovicaprini e suini e sull’implicazione circa le strategie economiche, l’ambiente e le trasformazioni del paesaggio, torneremo sul finale del prossimo paragrafo. Da tutto ciò si evince come il quadro archeozoologico sia molto più complesso di quanto delineato dalla documentazione attualmente disponibile. Il sale e la mobilità. Il sale ha da sempre costituito un elemento di importanza basilare nell’alimentazione degli uomini, ma il suo contributo, almeno fino al secolo scorso diffuso ad ogni livello sociale, non si esauriva all’alimentazione e alla preparazione delle pietanze, ma anche e soprattutto per la conservazione dei cibi – determinante nell’accrescere in modo significativo il valore di questa derrata. La salatura infatti, ha rappresentato fino a tempi recenti la migliore soluzione per conservare i cibi, non soltanto carne e pesce, ma anche tutta un’altra serie di prodotti, come i formaggi, le verdure, i legumi etc… Recenti studi condotti sulla dieta di cacciatori-raccoglitori attuali, caratterizzata da un rapporto animali/vegetali di 35% a 65%, hanno cercato di ricostruire la probabile dieta degli uomini del Paleolitico Superiore. Per il sodio è stato osservato che la sua scarsa quantità nell’alimentazione paleolitica, stimata intorno ai 700 mg al giorno, è “perfettamente compatibile con una vita normale, … e molto idonea a prevenire l’ipertensione arteriosa” (Delluc et al., 1997, p. 191); per una popolazione di cacciatori è sufficiente una discreta quantità di carne rossa, con eventuale integrazione di vegetali contenenti sodio. Dobbiamo allora chiederci perché sia stato introdotto il cloruro di sodio nell’alimentazione umana. Poiché la documentazione archeologica indica che la produzione del sale assunse una certa importanza durante il Neolitico, si è ipotizzato che il suo uso alimentare sia cominciato con l’avvento dell’agricoltura, per la necessità di reintegrare i sali persi, soprattutto dai vegetali, durante la bollitura. Tale ipotesi però è inconsistente, giacché da una parte la bollitura non era sconosciuta alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, dall’altra cereali e legumi possono essere cotti con metodi diversi. Nell’allevamento stanziale, in cui gli erbivori non possono scegliersi le risorse vegetali più adatte per integrare la propria alimentazione, può insorgere la necessità di somministrare agli erbivori una certa quantità di cloruro di sodio. Ma soprattutto è verosimile che si sia affermata l’esigenza di trovare nuove forme di conservazione per prodotti specifici, soprattutto di origine animale. In questa prospettiva spicca la lavorazione del latte; infatti, per alcuni dei suoi derivati è indispensabile l’aggiunta di sale, poiché la salatura costituisce un momento fondamentale della caseificazione. Ciò è tanto più importante perché il latte, in quanto tale, non solo non poteva essere conservato a lungo, ma originariamente non poteva nemmeno essere digerito dagli adulti e quindi non poteva essere consumato tutto subito; tale situazione si modificò soltanto quando alcune mutazioni genetiche determinarono la persistenza della lattasi in individui adulti. Vanno poi considerati i possibili usi non alimentari: dalla concia delle pelli, alla tintura delle stoffe, alla metallurgia. Tuttavia è probabile che per alcuni di questi usi non fosse necessaria una particolare raffinazione e fosse quindi utilizzabile il sale ottenuto dalla semplice evaporazione dell’acqua marina. Ulteriori motivazioni, legate ad esempio al gusto o a particolari valenze simboliche e rituali o ancora a particolari rapporti socio-culturali – come ritiene ad esempio Weller (Weller, 2002a) –, possono aver accresciuto l’importanza del sale, 31 In particolare MacKinnon distingue tra un contesto Urban 1, in sostanza le città, ed un contesto Urban 2, essenzialmente insediamenti di minore importanza (complessi rurali, mansio, villaggi etc.). ma tali motivazioni devono essere state secondarie o comunque derivate, sia in senso cronologico che socio-economico. Anche il fatto che la documentazione archeologica europea sia enormemente più ampia e ricca per l’età del ferro e per le fasi protourbane, quando diventa essenziale lo stoccaggio di notevoli riserve alimentari per un numero elevato di abitanti, rafforza la tesi secondo cui l’aspetto economico-funzionale è stato quello più rilevante. L’importanza rivestita dal sale nel ciclo produttivo dei prodotti caseari e in quello dell’alimentazione animale, come integratore, è stato in larga parte trascurato, così come il suo ruolo nella gestione delle greggi transumanti, stanziali e semi-stanziali, per cui si conosce una vera e propria sovrapposizione topografica tra l’ubicazione delle saline e i luoghi di sosta degli armenti. È dunque decisivo ricostruire nel dettaglio l’ubicazione certa ed anche possibile delle saline, al fine di poter ipotizzare siti attrattivi ed elettrificatori di queste pratiche. Questo bene, tanto prezioso, deve avere avuto una circolazione su grande scala ed estremamente capillare nell’antichità, tale da costituire una risorsa fondamentale per le aree in grado di attivarne la produzione. Il sale infatti costituiva un prodotto circolante su scala subregionale o più vasta anche in periodi in cui lo scambio risultava in via generale piuttosto circoscritto e localizzato. Questo naturalmente dipendeva dalla natura stessa della risorsa la cui produzione poteva essere promossa soltanto in aree dotate di particolari condizioni ambientali, come la presenza di mare con bassi fondali, di lagune interne, di aree palustri costiere, oltre che di miti condizioni climatiche, con estati calde ma asciutte tali da favorire la rapida evaporazione dell’acqua salata all’interno delle strutture predisposte per l’estrazione. Tali condizioni risultavano tutte ben presenti nell’area del lago Prile, dellla laguna di Piombino e in quella di Orbetello-Talamone, dove la presenza di lagune marine interne si associava a fondali poco profondi in grado di favorire la formazione di incrostazioni saline facilmente utilizzabili ben prima del medioevo. Le favorevoli condizioni naturali di questo territorio facevano sì che in estate, durante la fase di consistente evaporazione, quando gli apporti fluviali erano significativamente ridotti e il battente del mare si allontanava, potessero formarsi, lungo le fasce costiere e le insenature, piccoli specchi d’acqua salata chiusi all’esterno e ad elevato potenziale di sfruttamento. La natura del contesto, le esigenze economiche ed alimentari del luogo e l’attestazione dell’importanza dell’estrazione del sale nelle epoche successive all’altomedioevo costituiscono la prova indiretta dell’importanza di questa attività anche in età romana e forse già in precedenza. Tuttavia, il problema della impossibilità di individuare marcatori archeologici legati allo sfruttamento di questa risorsa ci costringe ad operare per le epoche anteriori alle prime attestazioni documentari di saline, soltanto attraverso la ricerca di argumenta ex silentio. Possiamo immaginare che la lunga continuità insediativa, tra la tarda età repubblicana e la tarda antichità, di una serie di insediamenti ubicati lungo le sponde o in prossimità delle zone umide, possa trovare spiegazione anche nel ruolo che questi potevano svolgere nell’ambito dello sfruttamento di tale risorsa. Nonostante l’ampia diffusione e l’importanza di una risorsa così preziosa per l’alimentazione, le fonti antiche menzionano un numero piuttosto limitato di località nelle quali si praticava la produzione di sale. La ricerca archeologica dal canto suo non offre, un contributo particolarmente significativo, né dal punto di vista dei ritrovamenti, né dal punto di vista delle metodologie ad hoc elaborate per la loro individuazione. La difficoltà nel rintracciare strutture specifiche atte per la produzione di sale e di individuare chimicamente le tracce del processo di evaporazione solare, rende una qualsivoglia ricerca in questo senso alquanto ardua. Questo a maggior ragione se consideriamo che in alcuni casi si poteva praticare la semplice raccolta e che anche le saline artificiali erano costituite da strutture di lieve impatto, quali bacini di scarsa profondità scavati nel terreno, serviti da canali che assicuravano l’afflusso delle acque; inoltre tali strutture insistevano su uno degli elementi più instabili del paesaggio, cioè la linea di costa. Solo l’utilizzo dell’etnografia e della ricerca antropologica si è rivelato utile per fornire un campione di casi e tracce tipo. Anche in mancanza di notizie esplicite nelle fonti, tuttavia, è possibile individuare luoghi di produzione del sale nel mondo antico: un elemento importante è costituito dalla presenza di un idoneo contesto ambientale, che può essere ricostruito grazie alla descrizione delle fonti o a studi paleoambientali; l’esistenza di saline attestate in epoca medievale o moderna, o segnalate dalla toponomastica, può suggerire una probabile continuità con le epoche più antiche; la presenza di attività produttive legate allo sfruttamento del sale, come la pesca e la salagione – testimoniate dalle fonti o dalla documentazione archeologica–, può offrire un indizio fondamentale. Nessuno di questi elementi, preso singolarmente, è sufficiente per identificare una produzione di sale nel mondo antico; quando esiste la possibilità di combinare insieme un certo numero di indizi favorevoli, però, si può ragionevolmente ipotizzare la presenza di una tale produzione e tentare di valutarne l’importanza. La tecnica dell’evaporazione al fuoco infatti, prevede spostamenti organizzati e cadenzati verso le zone di estrazione, con tecniche ‘non stabili’ di lavorazione. È evidente che i pani di sale, costituivano la forma più efficiente per il trasporto di questo prodotto, ed è lecito dunque supporre. che queste dinamiche di mobilità operassero anche lungo le coste italiane tra Bronzo Finale e del Primo Ferro. Per il contesto da noi preso in esame, fortunatamente possediamo di alcuni casi in cui le informazioni in nostro possesso permettono una ricostruzione più dettagliata per le attività che si svolgevano sulle zone umide della costa. Come nel Golfo di Baratti, a Populonia32, al Puntone di Scarlino in località le Chiarine, in un contesto territoriale fortemente caratterizzato dallo sfruttamento delle risorse saline33 a Duna Feniglia, dove l’orizzonte cronologico di questi frammenti di ceramica ad impasto, non si esaurisce con l’età del Ferro, ma presenta tracce evidenti dello stesso tipo di sfruttamento e di tecniche per l’età etrusco-arcaica, anche questa caratterizzata da un’elevata quantità di frammenti ceramici34. L’estrazione del sale con l’uso del fuoco, era ritenuta una tecnica sporadica nel Mediterraneo, tipica invece di zone con clima meno favorevole all’evaporazione e aree dell’interno dove le popolazioni erano costrette a tecniche ‘eccentriche’ e ‘non convenzionali’. Studi recenti condotti nel bacino meridionale del mediterraneo, hanno dimostrato come questa tecniche fosse impiegata anche in climi aridi, come ad esempio nel sito di Marismilla, nei pressi di Cadice alla foce del Guadalquivir, attenuando l’importanza del fattore climatico come irrilevante nell’evoluzione di questi processi. L’unicità della geomorfologia della fascia costiera tirrenica, in particolare tra alto Lazio e Toscana, restituisce un quadro che potremmo definire unico nel panorama della penisola italiana, in cui il contesto particolarmente favorevole allo sviluppo delle pratiche di estrazione del sale, corrisponde ad una concentrazione per tutta l’età del bronzo e oltre, di una serie di insediamenti caratterizzati dallo sfruttamento intensivo del sale. Lo scenario che si delinea mostra presenze anche capillari che, solo di recente e seppur in forma rarefatta, sembrano emergere nella loro portata, in cui il sale come risorsa, deve aver assunto un ruolo primario di elettrificazione nelle dinamiche insediative della fascia tirrenica nella seconda parte dell’età del Bronzo e della prima età del Ferro e nell’interscambio con lo sviluppo demografico dell’entroterra appenninico e con lo sviluppo dell’economia pastorale e delle transumanze. Vi è dunque la necessità di reinterpretare vecchi siti produttivi alla luce di quanto detto finora e di estendere Più a sud nell’ager cosanus le caratteristiche favorevoli alla produzione di sale erano anch’essa legata all’ambiente salmastro palustre. La laguna di Orbetello, costituita da bacini salmastri, separati dal mare da stretti cordoni sabbiosi, doveva offrire condizioni ottimali per l’installazione di saline. Il toponimo parlante di Torre Saline rivela che anche alla foce dell’Albegna dovevano essere presenti impianti per la produzione di sale marino. L’edificio quadrato costruito dalla Repubblica di Siena per il controllo e lo stoccaggio del sale nel XV secolo, è tuttora visibile e riconoscibile nella struttura denominata ‘Forte delle Saline’, posta sulla sponda sinistra dell’Albegna, a guardia dello scalo fluviale e degli impianti di produzione di sale. Non si dimentichi, infine, la vasta laguna costiera – di cui oggi resta solo l’estremità più orientale, nota come Lago di Burano – era presente anche a sud-est del promontorio di Cosa, nell’area in cui in epoca romana sorgeva l’insediamento di Portus Cosanus e naturalmente il tombolo sottile tra il mare ed il lago Prile in quella che ad oggi è la pianura grossetana, dove sappiamo vi furono saline medievali e medicee. Nel contesto del Monte Argentario si trovano alcune ville marittime con impianti di produzione di pesce di una certa importanza: la villa 32 BARATTI 2010. 33 ARANGUREN 2002. 34 NEGRONI CATACCHIO - CARDOSA 2002. di Santa Liberata – la Domitiana positio dell’Itinerarium maritimum (499, 8 Cuntz) –, fondata probabilmente nella seconda metà del I secolo a.C., costituiva un articolato complesso produttivo, del quale spiccava una fra le più grandi peschiere del Tirreno, destinata probabilmente all’allevamento del pregiato pesce di scoglio e la villa in località Muracci a Porto Santo Stefano attiva dalla metà del I secolo a.C. dotata non solo di strutture portuali e di un impianto per la piscicoltura, ma probabilmente anche di installazioni per la salagione del pesce; nei pressi di questi impianti fu rinvenuto nell’Ottocento, un deposito di anfore contenenti ossa di tonno, da interpretare più verosimilmente come produzioni locali che come derrate d’importazione42. Si consideri che la pesca del tonno costituì all’Argentario un’attività economica rilevante almeno sino all’inizio del secolo scorso: a Porto Santo Stefano – da identificare forse con il portus Incitaria dell’Itinerarium maritimum (499, 7 Cuntz) – veniva calata un’importante tonnara, della cui attività si conserva traccia nel toponimo moderno di Baia dei Tonni Come avremo modo di ricordare più volte, ma sempre sotto un profilo diverso, la bassa valle dell’Albegna, il tombolo della Giannella e la costa settentrionale del Monte Argentario, furono sede dei praedia della gens Domizia, che nella tarda età repubblicana, beneficiarono delle confische operate da Silla in quest’area in seguito alla guerra civile. In questo momento, nel pieno dell’esplosione mercantile e del fiorire nell’ager cosanus delle grandi ville schiavistiche a vocazione transmarina, gli interessi economici dei Domitii sembrano piuttosto indirizzati verso le grandi produzioni figuline e di anfore da trasporto. Lo scalo di Albinia, appartenente ai praedia di questa famiglia, rappresentava il principale. Per il momento il ruolo dei Domizi non risulta esplicitamente attestato e resta in ombra, rispetto ad esempio a quanto sappiamo di un'altra famiglia egemone nel territorio, come i Sestii. Non si conoscono infatti in questo territorio strutture per la produzione figulina, o anfore bollate dei Domizi. Tuttavia quello che risulta chiaro era l’enorme superficie dei praedia senatori e imperiali nella zona. La gestione di questi terreni doveva essere assolutamente diversificata. E se accettiamo comunque una certa rarefazione degli insediamenti rurali a partire almeno dal II secolo a.C., potremmo vedere una precoce presenza di latifondi, in cui le pratiche silvo-pastorali erano probabilmente la strategia più utilizzata di sfruttamento. Ma è chiaro che gli interessi di una famiglia senatoria per il controllo dei siti per l’estrazione del sale, anche se fosse vero lo scopo primario per la salagione del pesce, deve aver avviato, in corrispondenza dei punti adatti a questo tipo di sfruttamento, una serie di attività ‘collaterali’, come culti emporici, gestione dei guadi e certamente transumanza . E’ probabile che il sale fin dal Neolitico fosse anche destinato agli scambi, magari insieme ad altre materie prime; ad esempio il salgemma siciliano, puro e immediatamente commestibile, potrebbe aver seguito alcune rotte dell’ossidiana; cioè il sale potrebbe essere stato trasportato insieme all’ossidiana, come prodotto pregiato, dai giacimenti della Sicilia all’Italia peninsulare, incrementando il valore e l’importanza degli scambi. Recentemente è stata fatta un’illuminante osservazione (Weller, 1999;Vaquer, 2006) sulla possibilità di desumere l’importanza della produzione e circolazione del sale anche in assenza di reperti specifici; ad esempio nei siti neolitici di Pescale (Modena) e di Menglon (Francia meridionale), ambedue vicini a sorgenti salmastre, è attestata una percentuale di ossidiana sarda e di selce pregiata più alta rispetto ai siti coevi dei rispettivi territori. Un discorso analogo si può fare per altri siti vicini, tra cui ad esempio Fiorano, del Neolitico antico, e Spilamberto, dell’età del rame. L’unica spiegazione possibile è che tali siti costituissero due nodi gerarchicamente importanti nella rete di scambi, in quanto tappe obbligate per l’approvvigionamento del sale. Osservazioni simili sono state fatte riguardo alla circolazione di manufatti particolari, come le asce levigate: A proposito della circolazione di materie prime e manufatti, va considerato il fenomeno della transumanza, che, oltre alla propria specificità economica, comporta un indotto, o meglio un’economia di rete sistemica, in cui il sale può avere svolto un ruolo importante. I pastori cioè, durante il loro soggiorno invernale nei pascoli presso il mare, avrebbero potuto approvvigionarsi di sale marino, che poi in parte avrebbero utilizzato per la caseificazione, in parte potrebbero avere sfruttato come mezzo di scambio. L’etnografia documenta anche l’utilizzazione delle stesse pecore come bestie da soma durante la transumanza: un esemplare della varietà Jumly poteva trasportare fino a 13 kg di sale dal Tibet al Nepal nei mesi di luglio-agosto (Ryder, 1983) e in qualche caso resti ossei di ovini preistorici mostrano tracce di deformazioni provocate dal trasporto di carichi pesanti. Alcuni autori (Lane, Morris, 2001) hanno avanzato l’ipotesi del “modello opportunistico”, cioè una produzione di sale effettuata da pastori durante i soggiorni presso le coste marine, anche perché presso i luoghi di produzione non sono state individuate tracce di insediamenti stabili. La produzione del sale era comunque impegnativa, anche in ambienti mediterranei; infatti se l’evaporazione non era sufficiente o il sale risultante non era abbastanza puro per l’alimentazione o se comunque si volevano ottenere pani facilmente trasportabili, bisognava produrre molti vasi e bruciare grandi quantità di legna, il che rientrebbe perfettamente all’interno di un sistema integrato ed interconnesso di sfruttamento delle risorse agro-silvo-pastorali. È stato obiettato che il soggiorno costiero dei pastori coincide con il periodo autunno-inverno, non avrebbe favorito le condizioni per il metodo di evaporazione per l’estrazione del sale. Il che però potrebbe speghiare benissimo l’utilizzo del sistema del briquetage utilizzato in climi o stagioni fredde. Tuttavia, su un piano generale, si ha l’impressione che l’attività pastorale durante la preistoria in Italia, come forse anche in altre aree, sia stata finora sottostimata, con riferimento sia alla sua estensione geografica, sia alla sua importanza economica, sia infine alla cronologia, poiché l’avvio e lo sviluppo probabilmente furono più precoci di quanto si pensasse. Ad esempio, recenti studi sul territorio del levante ligure nel terzo millennio a.C. hanno ipotizzato che l’attività pastorale potesse essere collegata all’estrazione mineraria sia di diaspro che di minerali cupriferi, nel periodo di permanenza dei pastori a quote medio-alte; in uno scenario del genere la produzione e il trasporto del sale potrebbero avere svolto un ruolo di implementazione di processi economici già molto importanti. E’ stato anche ipotizzato, che durante i periodi di soggiorno estivo in certe aree montuose del ordest dell’Italia, i pastori avrebbero fornito, attraverso il formaggio, una buona parte dell’apporto alimentare per i minatori impegnati nell’estrazione dei minerali del rame e degli specialisti addetti alle prime fasi di lavorazione del metallo. Obiettivi: - Riconsiderare nel loro insieme tutti i dati editi nella prospettiva della mobilità e delle pratiche silvo pastorali, sia quelli situati in pianura che quelli, largamente trascurati, presenti sul Monte Amiata. - Acquisire nuovi dati alla luce dell’individuazione di aree chiave con alta potenzialità scientifica (scavi-survey) - Dove possibile proporre analisi su campioni (polliniche, isotopiche etc.) utili alla ricostruzione della mobilità di uomini ed animali e all’individuazione di precise ptratiche silvo-pastorali, tramite il record ecologico - Proporre un modello di sviluppo per la transumanza nel contesto preso in esame, alla luce anche dei dati sul popolamento e le trasformazioni socio-economiche ed ambientali del territorio, con particolare riferimento al periodo romano e tardoantico, per cui il tema è stato in gran parte messo da parte - Indagine etnografica con acquisizione di materiale audio-visivo e relativo alla cultura materiale, con relativa catalogazione (capanne, strumenti etc) - Individuazione e proposta per una musealizzazione ‘attiva’ di alcuni percorsi o aree ricche di testimonianze e tracce relative alle pratiche transumanti.
24-giu-2014
agro-pastorali, Etruria
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
Tesi dottorato.pdf

accesso aperto

Tipologia: PDF Editoriale
Licenza: Dominio pubblico
Dimensione 38.63 MB
Formato Adobe PDF
38.63 MB Adobe PDF Visualizza/Apri

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11369/335328
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact