Abstract A distanza di dieci anni dall’emanazione del T.U. degli Espropri, con D.P.R. n.327/2001, e all’esito di un confronto che ha visto dibattere le massime autorità giurisdizionali, nazionali ed internazionali - Corte di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte Costituzionale e Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo - , il legislatore è tornato ad occuparsi di un tema che impegna la giurisprudenza e fa discutere la dottrina fin dalla fine dell’ottocento e dalla legge fondamentale sulle espropriazioni: l’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del T.U. degli Espropri, intervenuta con sentenza Corte Cost. n. 293 del l’8 ottobre 2010, ha reso, infatti, necessario un nuovo intervento normativo per la disciplina di fattispecie che per troppo tempo (fino all’entrata in vigore del T.U.) erano rimaste prive di disciplina positiva, e alla cui regolazione aveva provveduto il giudice di legittimità, elaborando, con quello che è stato definito un vero e proprio intervento creativo e politico, la famigerata accessione invertita o occupazione acquisitiva. La novella normativa ha visto l’introduzione dell’art. 42bis, e, nonostante la pronuncia di incostituzionalità sia stata motivata dall’eccesso di delega, essa è stata l’occasione per rimeditare l’acquisizione coattiva sanante, un istituto che non aveva mancato di suscitare polemiche, perplessità applicative e dubbi di legittimità costituzionale e di compatibilità con la Convenzione Europea del Diritti Umani (secondo l’insegnamento delle sentenze gemelle della Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007, fonte interposta dell’ordinamento nazionale). Dell’art. 43 previgente, la nuova disciplina condivide, di sicuro, la natura di strumento rimediale: anche l’art. 42 bis risponde, infatti, alla necessità di fornire alla pubblica amministrazione quella “legale via d’uscita” - per usare le parole del Consiglio di Stato - per la soluzione del problema delle occupazioni illegittime, dopo il definitivo travolgimento dell’accessione invertita. Come nell’art. 43, e come nell’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva, la ratio della norma va ricercata nell’intendimento del legislatore di contemperare opposte esigenze in modo equilibrato: la tutela del diritto di proprietà da una lato, la migliore soddisfazione dell’interesse generale e la necessità di salvaguardare l’allocazione di risorse pubbliche da inutili sprechi, dall’altro. In questa ottica, ove la p.a. abbia occupato manipolato e trasformato un bene privato, senza che sia intervenuto un regolare procedimento espropriativo (perché manchi un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, o perché siano stato annullato l’uno o l’altro o l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio), essa potrà evitare la riduzione in pristino stato e la restituzione del bene, disponendone l’acquisizione ex art. 42bis, purché sussistano determinati presupposti e garanzie: e in particolare, purché il bene sia utilizzato per la soddisfazione di un interesse specifico, attuale e concreto; purché valutati gli interessi in conflitto, l’esigenza eccezionale ed attuale di soddisfazione dell’interesse pubblico sia giudicata prevalente rispetto all’interesse del privato e non sussistano soluzioni alternative al sacrificio del diritto di proprietà; purché sia determinato l’indennizzo dovuto al privato, cui spetterà una somma pari al valore venale del bene, per il pregiudizio patrimoniale, oltre al pregiudizio non patrimoniale e al risarcimento per il periodo di occupazione. Nucleo centrale dell’istituto sono, certamente, la illegittimità della condotta della p.a. e la discrezionalità amministrativa, il cui esercizio è saldamente ancorato all’attualità, specificità, concretezza dell’interesse pubblico da soddisfare e dovrà essere guidato dalla rigorosa applicazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza. Rispetto alla disciplina previgente, inoltre, la norma contiene piccole ma rilevanti novità. La qualificazione delle somme spettanti a fronte dell’acquisizione in termini di indennizzo fa discutere sulla natura del provvedimento, mentre la mancata riproposizione dell’acquisizione coattiva sanante, cosiddetta, giudiziaria, è stata salutata come una modifica apprezzabile sotto il profilo di una maggiore “convenzionalità” dell’istituto. Il lavoro di ricerca svolto nella tesi dottorale mira ad una analisi della disciplina, attraverso le sue prime applicazioni giurisprudenziali e le osservazioni critiche della dottrina che si è occupata dell’argomento. D’obbligo, infine, in considerazione dell’origine storica dell’istituto, una valutazione della sua compatibilità con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’applicazione fattane dalla Corte di Strasburgo, secondo cui il diritto di proprietà appartiene al novero delle libertà fondamentali. La prima parte del lavoro è necessariamente dedicata ad una ricostruzione storica delle vicende che hanno condotto alla nascita dell’istituto, introdotto come rimedio alle fattispecie che nel vuoto legislativo antecedente all’introduzione del testo unico, avevano trovato regolazione nelle figure di espropriazione indiretta elaborate dalla giurisprudenza, segnatamente, occupazione appropriativa e occupazione usurpativa. Il fenomeno dell’apprensione illegittima di beni privati e della patologia del procedimento espropriativo ha avuto una larga diffusione nella prassi amministrativa italiana, anche grazie all’abuso, reso possibile da numerosi interventi legislativi di semplificazione, dello strumento dell’occupazione d’urgenza preordinata all’esproprio. In un prima fase, la giurisprudenza riconosceva la persistenza del diritto di proprietà in capo al privato, pur negando l’applicabilità dei principi di diritto comune a fattispecie comunque caratterizzate dalla connessione dell’azione amministrativa con interessi di carattere generale, e riteneva che l’acquisizione del bene potesse comunque avvenire attraverso un procedimento di esproprio in sanatoria o per usucapione, riconoscendo al privato il diritto al risarcimento del danno integrale per la perdita delle utilità ritraibili dal bene stesso. Con la sentenza Bile n. 1464 del 1983, la Cassazione inaugura la nascita dell’accessione invertita, affermando l’operatività di un meccanismo di automatica acquisizione del bene alla mano pubblica, per effetto della sola trasformazione irreversibile e stabile destinazione dell’immobile privato all’opera pubblica, fermo restando il diritto all’integrale risarcimento del danno. L’equilibrio faticosamente elaborato dalla giurisprudenza tra le opposte esigenze di tutela della proprietà e soddisfazione dell’interesse generale sarà però distorto da interventi normativi volti a ridurre il peso finanziario di una diffusissima deriva patologica del procedimento di esproprio, attraverso la riduzione del risarcimento dovuto al soggetto leso dall’accessione invertita. L’aggravamento della posizione del privato, a fronte di comportamenti illegittimi della p.a., determinò l’insorgenza di un ampio contenzioso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo cui seguirono, a partire dal duemila, una serie di pesanti condanne e il chiaro monito allo Stato Italiano di far cessare la sistematica violazione del diritto di proprietà e del principio di legalità, insita nel riconoscimento di spazio operativo alla accessione invertita. È questo il contesto in cui entra in vigore il T.U. deli Espropri e l’istituto dell’acquisizione coattiva sanante, attraverso l’art. 43, sostituito dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale, dall’attuale art. 42bis. La seconda parte della trattazione è rivolta ad analizzare l’art. 42bis, anche attraverso le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza, al fine di metterne in luce ambito di applicazione, caratteristiche strutturali ed effetti (in comparazione con la normativa previgente) e nel tentativo di offrire un’ipotesi di inquadramento giuridico dell’istituto. In linea generale e preliminare, si può osservare che la disposizione attribuisce alla p.a. il potere di emanare un atto con cui trasferire, autoritativamente ed unilateralmente, con efficacia ex nunc – e nella forma di un trasferimento a titolo originario -, la proprietà di un bene privato alla mano pubblica: sembra, dunque, che il novero dei provvedimenti amministrativi di carattere ablatorio, già disciplinati dal T.U. Espropriazioni, venga, in tal modo, ad arricchirsi di un nuovo provvedimento. Perché si possa pervenire al momento ablatorio vero e proprio, tuttavia, è necessario lo svolgimento di uno specifico procedimento, disciplinato, in verità, in modo piuttosto scarno dalla norma, in cui assumono rilevanza fondamentale tre distinti profili, attinenti a tre presupposti o condizioni per l’esercizio del potere di acquisizione. Un primo profilo, che potrebbe essere definito di carattere oggettivo o fattuale, attiene alla verifica dell’esistenza di una precisa situazione di fatto: la circostanza che un soggetto pubblico utilizzi un immobile modificato, per finalità di interesse pubblico, un bene privato modificato. La ricerca, quindi, intende individuare l’ambito di operatività della norma rispetto a tale profilo; come debba essere inteso il concetto di utilizzazione; quali debbano esserne l’oggetto e il soggetto; se le occupazioni che non abbiano comportato una modifica del bene debbano essere escluse dall’applicazione della norma e quali caratteristiche qualitative e quantitative debba rivestire la modificazione, rispetto al tradizionale concetto di trasformazione irreversibile. Il secondo fondamentale profilo dell’esercizio del potere di acquisizione è rappresentato dall’antigiuridicità della condotta materiale della p.a.. La modificazione del bene (e, quindi, la sua utilizzazione) deve, infatti, essere avvenuta in mancanza di un valido ed efficace decreto di esproprio o provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, oppure deve essersi verificato l’annullamento dell’atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio o della dichiarazione di pubblica utilità. In questo ambito, dunque, l’accertamento che l’autorità competente deve svolgere prima di poter emanare il provvedimento, si muove non sul piano dei fatti, ma sul piano del diritto, strettamente giuridico. Le ipotesi di antigiuridicità della condotta della p.a., come si vedrà, sono numerose e molte sono state già approfonditamente analizzate dalla giurisprudenza formatasi sull’accessione invertita e sull’acquisizione sanante. La tesi cerca di effettuarne una ricognizione e di esaminare come il provvedimento di acquisizione sanante possa raccordarsi all’attivazione dei rimedi giurisdizionali contro tali comportamenti antigiuridici e come spesso, per tale via, l’iniziativa del provvedimento dipenda dal ricorso alla autorità giurisdizionale. Inoltre, con riferimento a tale profilo, viene in rilevo la possibilità di applicazione dell’istituto anche le ipotesi di occupazione usurpativa, completamente avulse da una qualsiasi previa valutazione discrezionale della necessità di procedere ad esproprio, aspetto che fa sorgere dubbi in ordine alla compatibilità dell’istituto con la convenzione EDU. Il terzo profilo oggetto di analisi è quello in cui viene maggiormente in rilievo l’esercizio del potere discrezionale della p.a.., chiamata a valutare gli interessi in conflitto, ad accertare la necessità di soddisfare un interesse specifico, concreto ed attuale e la insussistenza di soluzioni alternative al sacrifico del diritto di proprietà. La disposizione impone dunque una comparazione delle posizioni del soggetto pubblico e del soggetto privato e può essere considerata una traduzione in regola del principio generale di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa. Oltre ai profili esaminati, il procedimento di acquisizione sanante richiede un altro fondamentale passaggio consistente nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato. Essa rappresenta al tempo stesso presupposto e condizione di efficacia del provvedimento, poiché al pagamento dell’indennizzo è subordinata l’esplicazione dell’effetto di acquisizione del bene. Anche a questo proposito la ricerca dà conto delle conclusioni della giurisprudenza in relazione ai criteri di determinazione dell’indennizzo e degli strumenti di tutela del privato ablato. Nella terza parte del lavoro, lo studio sull’acquisizione sanante è rivolto all’approfondimento degli aspetti di maggior criticità sotto il profilo della compatibilità con il dettato Costituzionale e, segnatamente, con l’art. 117 Cost., in virtù del quale, secondo l’insegnamento delle sentenze della Corte Cost. n. 348 e 349 del 2007, le norme CEDU costituiscono fonte interposta, con un particolare riferimento alle recenti ordinanze con cui la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha rimesso la questione di legittimità costituzionale al giudice delle leggi (Cass., Sez. Un., n. 441 e n. 442 del 13 gennaio 2014). È stato osservato come, l’art. 1 del I Protocollo addizionale della Convenzione EDU, infatti, introducendo in uno strumento convenzionale destinato a disciplinare la tutela dei diritti fondamentali, una situazione giuridica soggettiva attinente alla sfera economica e sociale dell’individuo, abbia manifestato l’intento di universalizzare un compendio di principi valevoli per il regime dominicale, ed abbia in una certa misura sganciato il sistema di tutela dalla competenza esclusiva dei singoli Stati, aprendolo a forme di controllo sovranazionale. Ciò ha posto all’attenzione dei commentatori il problema di una possibile diversità (e di scontro) fra i due sistemi di protezione del diritto di proprietà, l’uno - quello sovranazionale - apparentemente più solerte nel favorire il proprietario, l’altro - quello nazionale – più sensibile alla valutazione della funzione sociale della proprietà, intesa dalla Corte costituzionale come dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, anche perché negli artt. 41 e 42 Cost., tale diritto sembra trovare una protezione condizionata a differenza delle libertà fondamentali. È questo il terreno di confronto in cui sono maturate le dure censure della CEDU alla figura pretoria dell’accessione invertita. La ricerca tenta di svolgere un approfondimento della tematica, seppur sintetico, in quanto anche dopo l’introduzione dell’art. 42bis, appare opportuno valutare se possa essere ravvisata una effettiva divergenza tra il sistema nazionale e quello sovranazionale di tutela della proprietà oppure se le indicazioni della CEDU impongano un ripensamento dei limiti alla proprietà in relazione alla sua funzione sociale, per valutare se la soluzione adottata dal legislatore possa essere valutata conforme al dettato costituzionale e convenzionale. Come rilevato la decisione in ordine al diritto di cittadinanza dell’acquisizione sanante è affidata ad oggi alla Corte Costituzionale, ma indipendentemente dall’esito del giudizio di legittimità, uno sforzo di interpretazione conforme dell’istituto non sembra sufficiente a superarne le lacune, tanto da far ritenere che sarebbe stato comunque opportuno un intervento correttivo sull’istituto: intervento correttivo per il quale, adesso, il legislatore potrà giovarsi delle indicazioni del giudice delle leggi.
L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 / Borrelli, Ripalta. - (2014 Apr 01). [10.14274/UNIFG/FAIR/331763]
L’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001
BORRELLI, RIPALTA
2014-04-01
Abstract
Abstract A distanza di dieci anni dall’emanazione del T.U. degli Espropri, con D.P.R. n.327/2001, e all’esito di un confronto che ha visto dibattere le massime autorità giurisdizionali, nazionali ed internazionali - Corte di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte Costituzionale e Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo - , il legislatore è tornato ad occuparsi di un tema che impegna la giurisprudenza e fa discutere la dottrina fin dalla fine dell’ottocento e dalla legge fondamentale sulle espropriazioni: l’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. La declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 del T.U. degli Espropri, intervenuta con sentenza Corte Cost. n. 293 del l’8 ottobre 2010, ha reso, infatti, necessario un nuovo intervento normativo per la disciplina di fattispecie che per troppo tempo (fino all’entrata in vigore del T.U.) erano rimaste prive di disciplina positiva, e alla cui regolazione aveva provveduto il giudice di legittimità, elaborando, con quello che è stato definito un vero e proprio intervento creativo e politico, la famigerata accessione invertita o occupazione acquisitiva. La novella normativa ha visto l’introduzione dell’art. 42bis, e, nonostante la pronuncia di incostituzionalità sia stata motivata dall’eccesso di delega, essa è stata l’occasione per rimeditare l’acquisizione coattiva sanante, un istituto che non aveva mancato di suscitare polemiche, perplessità applicative e dubbi di legittimità costituzionale e di compatibilità con la Convenzione Europea del Diritti Umani (secondo l’insegnamento delle sentenze gemelle della Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007, fonte interposta dell’ordinamento nazionale). Dell’art. 43 previgente, la nuova disciplina condivide, di sicuro, la natura di strumento rimediale: anche l’art. 42 bis risponde, infatti, alla necessità di fornire alla pubblica amministrazione quella “legale via d’uscita” - per usare le parole del Consiglio di Stato - per la soluzione del problema delle occupazioni illegittime, dopo il definitivo travolgimento dell’accessione invertita. Come nell’art. 43, e come nell’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva, la ratio della norma va ricercata nell’intendimento del legislatore di contemperare opposte esigenze in modo equilibrato: la tutela del diritto di proprietà da una lato, la migliore soddisfazione dell’interesse generale e la necessità di salvaguardare l’allocazione di risorse pubbliche da inutili sprechi, dall’altro. In questa ottica, ove la p.a. abbia occupato manipolato e trasformato un bene privato, senza che sia intervenuto un regolare procedimento espropriativo (perché manchi un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, o perché siano stato annullato l’uno o l’altro o l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio), essa potrà evitare la riduzione in pristino stato e la restituzione del bene, disponendone l’acquisizione ex art. 42bis, purché sussistano determinati presupposti e garanzie: e in particolare, purché il bene sia utilizzato per la soddisfazione di un interesse specifico, attuale e concreto; purché valutati gli interessi in conflitto, l’esigenza eccezionale ed attuale di soddisfazione dell’interesse pubblico sia giudicata prevalente rispetto all’interesse del privato e non sussistano soluzioni alternative al sacrificio del diritto di proprietà; purché sia determinato l’indennizzo dovuto al privato, cui spetterà una somma pari al valore venale del bene, per il pregiudizio patrimoniale, oltre al pregiudizio non patrimoniale e al risarcimento per il periodo di occupazione. Nucleo centrale dell’istituto sono, certamente, la illegittimità della condotta della p.a. e la discrezionalità amministrativa, il cui esercizio è saldamente ancorato all’attualità, specificità, concretezza dell’interesse pubblico da soddisfare e dovrà essere guidato dalla rigorosa applicazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza. Rispetto alla disciplina previgente, inoltre, la norma contiene piccole ma rilevanti novità. La qualificazione delle somme spettanti a fronte dell’acquisizione in termini di indennizzo fa discutere sulla natura del provvedimento, mentre la mancata riproposizione dell’acquisizione coattiva sanante, cosiddetta, giudiziaria, è stata salutata come una modifica apprezzabile sotto il profilo di una maggiore “convenzionalità” dell’istituto. Il lavoro di ricerca svolto nella tesi dottorale mira ad una analisi della disciplina, attraverso le sue prime applicazioni giurisprudenziali e le osservazioni critiche della dottrina che si è occupata dell’argomento. D’obbligo, infine, in considerazione dell’origine storica dell’istituto, una valutazione della sua compatibilità con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’applicazione fattane dalla Corte di Strasburgo, secondo cui il diritto di proprietà appartiene al novero delle libertà fondamentali. La prima parte del lavoro è necessariamente dedicata ad una ricostruzione storica delle vicende che hanno condotto alla nascita dell’istituto, introdotto come rimedio alle fattispecie che nel vuoto legislativo antecedente all’introduzione del testo unico, avevano trovato regolazione nelle figure di espropriazione indiretta elaborate dalla giurisprudenza, segnatamente, occupazione appropriativa e occupazione usurpativa. Il fenomeno dell’apprensione illegittima di beni privati e della patologia del procedimento espropriativo ha avuto una larga diffusione nella prassi amministrativa italiana, anche grazie all’abuso, reso possibile da numerosi interventi legislativi di semplificazione, dello strumento dell’occupazione d’urgenza preordinata all’esproprio. In un prima fase, la giurisprudenza riconosceva la persistenza del diritto di proprietà in capo al privato, pur negando l’applicabilità dei principi di diritto comune a fattispecie comunque caratterizzate dalla connessione dell’azione amministrativa con interessi di carattere generale, e riteneva che l’acquisizione del bene potesse comunque avvenire attraverso un procedimento di esproprio in sanatoria o per usucapione, riconoscendo al privato il diritto al risarcimento del danno integrale per la perdita delle utilità ritraibili dal bene stesso. Con la sentenza Bile n. 1464 del 1983, la Cassazione inaugura la nascita dell’accessione invertita, affermando l’operatività di un meccanismo di automatica acquisizione del bene alla mano pubblica, per effetto della sola trasformazione irreversibile e stabile destinazione dell’immobile privato all’opera pubblica, fermo restando il diritto all’integrale risarcimento del danno. L’equilibrio faticosamente elaborato dalla giurisprudenza tra le opposte esigenze di tutela della proprietà e soddisfazione dell’interesse generale sarà però distorto da interventi normativi volti a ridurre il peso finanziario di una diffusissima deriva patologica del procedimento di esproprio, attraverso la riduzione del risarcimento dovuto al soggetto leso dall’accessione invertita. L’aggravamento della posizione del privato, a fronte di comportamenti illegittimi della p.a., determinò l’insorgenza di un ampio contenzioso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo cui seguirono, a partire dal duemila, una serie di pesanti condanne e il chiaro monito allo Stato Italiano di far cessare la sistematica violazione del diritto di proprietà e del principio di legalità, insita nel riconoscimento di spazio operativo alla accessione invertita. È questo il contesto in cui entra in vigore il T.U. deli Espropri e l’istituto dell’acquisizione coattiva sanante, attraverso l’art. 43, sostituito dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale, dall’attuale art. 42bis. La seconda parte della trattazione è rivolta ad analizzare l’art. 42bis, anche attraverso le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza, al fine di metterne in luce ambito di applicazione, caratteristiche strutturali ed effetti (in comparazione con la normativa previgente) e nel tentativo di offrire un’ipotesi di inquadramento giuridico dell’istituto. In linea generale e preliminare, si può osservare che la disposizione attribuisce alla p.a. il potere di emanare un atto con cui trasferire, autoritativamente ed unilateralmente, con efficacia ex nunc – e nella forma di un trasferimento a titolo originario -, la proprietà di un bene privato alla mano pubblica: sembra, dunque, che il novero dei provvedimenti amministrativi di carattere ablatorio, già disciplinati dal T.U. Espropriazioni, venga, in tal modo, ad arricchirsi di un nuovo provvedimento. Perché si possa pervenire al momento ablatorio vero e proprio, tuttavia, è necessario lo svolgimento di uno specifico procedimento, disciplinato, in verità, in modo piuttosto scarno dalla norma, in cui assumono rilevanza fondamentale tre distinti profili, attinenti a tre presupposti o condizioni per l’esercizio del potere di acquisizione. Un primo profilo, che potrebbe essere definito di carattere oggettivo o fattuale, attiene alla verifica dell’esistenza di una precisa situazione di fatto: la circostanza che un soggetto pubblico utilizzi un immobile modificato, per finalità di interesse pubblico, un bene privato modificato. La ricerca, quindi, intende individuare l’ambito di operatività della norma rispetto a tale profilo; come debba essere inteso il concetto di utilizzazione; quali debbano esserne l’oggetto e il soggetto; se le occupazioni che non abbiano comportato una modifica del bene debbano essere escluse dall’applicazione della norma e quali caratteristiche qualitative e quantitative debba rivestire la modificazione, rispetto al tradizionale concetto di trasformazione irreversibile. Il secondo fondamentale profilo dell’esercizio del potere di acquisizione è rappresentato dall’antigiuridicità della condotta materiale della p.a.. La modificazione del bene (e, quindi, la sua utilizzazione) deve, infatti, essere avvenuta in mancanza di un valido ed efficace decreto di esproprio o provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, oppure deve essersi verificato l’annullamento dell’atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio o della dichiarazione di pubblica utilità. In questo ambito, dunque, l’accertamento che l’autorità competente deve svolgere prima di poter emanare il provvedimento, si muove non sul piano dei fatti, ma sul piano del diritto, strettamente giuridico. Le ipotesi di antigiuridicità della condotta della p.a., come si vedrà, sono numerose e molte sono state già approfonditamente analizzate dalla giurisprudenza formatasi sull’accessione invertita e sull’acquisizione sanante. La tesi cerca di effettuarne una ricognizione e di esaminare come il provvedimento di acquisizione sanante possa raccordarsi all’attivazione dei rimedi giurisdizionali contro tali comportamenti antigiuridici e come spesso, per tale via, l’iniziativa del provvedimento dipenda dal ricorso alla autorità giurisdizionale. Inoltre, con riferimento a tale profilo, viene in rilevo la possibilità di applicazione dell’istituto anche le ipotesi di occupazione usurpativa, completamente avulse da una qualsiasi previa valutazione discrezionale della necessità di procedere ad esproprio, aspetto che fa sorgere dubbi in ordine alla compatibilità dell’istituto con la convenzione EDU. Il terzo profilo oggetto di analisi è quello in cui viene maggiormente in rilievo l’esercizio del potere discrezionale della p.a.., chiamata a valutare gli interessi in conflitto, ad accertare la necessità di soddisfare un interesse specifico, concreto ed attuale e la insussistenza di soluzioni alternative al sacrifico del diritto di proprietà. La disposizione impone dunque una comparazione delle posizioni del soggetto pubblico e del soggetto privato e può essere considerata una traduzione in regola del principio generale di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa. Oltre ai profili esaminati, il procedimento di acquisizione sanante richiede un altro fondamentale passaggio consistente nella determinazione dell’indennizzo dovuto al privato. Essa rappresenta al tempo stesso presupposto e condizione di efficacia del provvedimento, poiché al pagamento dell’indennizzo è subordinata l’esplicazione dell’effetto di acquisizione del bene. Anche a questo proposito la ricerca dà conto delle conclusioni della giurisprudenza in relazione ai criteri di determinazione dell’indennizzo e degli strumenti di tutela del privato ablato. Nella terza parte del lavoro, lo studio sull’acquisizione sanante è rivolto all’approfondimento degli aspetti di maggior criticità sotto il profilo della compatibilità con il dettato Costituzionale e, segnatamente, con l’art. 117 Cost., in virtù del quale, secondo l’insegnamento delle sentenze della Corte Cost. n. 348 e 349 del 2007, le norme CEDU costituiscono fonte interposta, con un particolare riferimento alle recenti ordinanze con cui la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha rimesso la questione di legittimità costituzionale al giudice delle leggi (Cass., Sez. Un., n. 441 e n. 442 del 13 gennaio 2014). È stato osservato come, l’art. 1 del I Protocollo addizionale della Convenzione EDU, infatti, introducendo in uno strumento convenzionale destinato a disciplinare la tutela dei diritti fondamentali, una situazione giuridica soggettiva attinente alla sfera economica e sociale dell’individuo, abbia manifestato l’intento di universalizzare un compendio di principi valevoli per il regime dominicale, ed abbia in una certa misura sganciato il sistema di tutela dalla competenza esclusiva dei singoli Stati, aprendolo a forme di controllo sovranazionale. Ciò ha posto all’attenzione dei commentatori il problema di una possibile diversità (e di scontro) fra i due sistemi di protezione del diritto di proprietà, l’uno - quello sovranazionale - apparentemente più solerte nel favorire il proprietario, l’altro - quello nazionale – più sensibile alla valutazione della funzione sociale della proprietà, intesa dalla Corte costituzionale come dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, anche perché negli artt. 41 e 42 Cost., tale diritto sembra trovare una protezione condizionata a differenza delle libertà fondamentali. È questo il terreno di confronto in cui sono maturate le dure censure della CEDU alla figura pretoria dell’accessione invertita. La ricerca tenta di svolgere un approfondimento della tematica, seppur sintetico, in quanto anche dopo l’introduzione dell’art. 42bis, appare opportuno valutare se possa essere ravvisata una effettiva divergenza tra il sistema nazionale e quello sovranazionale di tutela della proprietà oppure se le indicazioni della CEDU impongano un ripensamento dei limiti alla proprietà in relazione alla sua funzione sociale, per valutare se la soluzione adottata dal legislatore possa essere valutata conforme al dettato costituzionale e convenzionale. Come rilevato la decisione in ordine al diritto di cittadinanza dell’acquisizione sanante è affidata ad oggi alla Corte Costituzionale, ma indipendentemente dall’esito del giudizio di legittimità, uno sforzo di interpretazione conforme dell’istituto non sembra sufficiente a superarne le lacune, tanto da far ritenere che sarebbe stato comunque opportuno un intervento correttivo sull’istituto: intervento correttivo per il quale, adesso, il legislatore potrà giovarsi delle indicazioni del giudice delle leggi.File | Dimensione | Formato | |
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