“Per raggiungere il punto che non conosci, devi prendere la strada che non conosci.” Se siamo pronti a riconoscere che il mondo di ogni giorno è caratterizzato da pratiche che assumono la veste di comportamenti ripetuti, allora, probabilmente, siamo anche pronti a riconoscere che questa affermazione di San Giovanni della Croce, descrive, attraverso un’argomentazione logica stringente, il processo che porta a nuova conoscenza. Eppure, ben lungi dal dichiararsi compiuta nella sua dimensione puramente razionale, l’affermazione racchiude un’inquietudine che sembra surclassare la sola consistenza logica: essa rinvia a una più profonda riflessione sulla natura della conoscenza e del conoscere, evocando il processo stesso di scoperta. Infatti, l’affermazione racchiude, allo stesso tempo, la difficoltà e l’auspicabilità della violazione di norme entro le quali un sistema umano si pone in essere e si regola attraverso praxis. Ed è proprio una violazione intenzionale dello status quo, la condizione sufficiente per la realizzazione di una consapevolezza più profonda. Se si snatura la problematica della sua dimensione esistenziale e la si riconduce ad una più stilizzata riflessione scientifica ci si rende facilmente conto di come tale problematica costituisca il nocciolo di una questione fondamentale e sostanzialmente antica: la spiegazione del cambiamento endogeno nei fenomeni sociali. Da secoli ormai la riflessione scientifica ci ha abituato a rinunciare a chiavi di lettura idiografiche dei fenomeni storici e ci ha abituato a pensare al cambiamento in termini evoluzionistici ovvero ha innestato la necessità di rinvenire logiche generali in grado di spigare la non-invarianza che contraddistingue il divenire storico. Tale approccio, che oggi coincide essenzialmente con l’eredità (neo-)darwiniana, si sostanzia in una prospettiva sul cambiamento la cui logica è retta da due opposte pressioni: da un lato la pressione alla discontinuità — realizzata attraverso i processi di variazione — dall’altro la pressione alla conservazione (in stati inerziali) di adattamenti occorsi — realizzata attraverso processi di selezione e ritenzione. La questione delineata appare particolarmente saliente nell’ambito dei domini di speculazione sui fenomeni organizzativi e manageriali; infatti, il problema non è quello di spiegare il cambiamento tout court ma quello di concepirlo nell’ambito di una logica organizzativa secondo la quale la ricerca di stabilità (e quindi di efficienza) appaiono imperativi categorici per il funzionamento fisiologico del sistema. La problematica del cambiamento appare quindi critica proprio nella misura in cui si riconosce nella stabilità e nell’invarianza dei comportamenti, un elemento costitutivo della stabilità dei sistemi organizzativi; la conservazione inerziale di stati di efficienza raggiunti rappresenta, allo stesso tempo, un imperativo normativo ed un elemento irriflesso del comportamento economico. Herbert A. Simon (1947, 1955, 1962, 1982) aveva già messo in luce come l’agire umano risolva l’inattuabilità di un comportamento totalmente razionale attraverso la docilità, la memoria, l’abitudine e l’automatismo. E facendolo poneva implicitamente un problema al quale questo lavoro vuole contribuire a dare una risposta: se riconosciamo che automatismi e routinizzazione rappresentano una costante del comportamento (la normalità) come possiamo spigare il cambiamento proprio a partire da essi? Risulta, così, rilevante ribaltare la questione posta dagli approcci evoluzionistici recepiti nelle discipline organizzative e manageriali. Non tanto porre la questione del cambiamento in termini di processo adattivo ma al contrario ribaltarne la logica: come concepire il cambiamento partendo dallo stato inerziale di un sistema? come gli attuali comportamenti di un sistema vincolano il suo cambiamento specificando, ineluttabili e particolari, traiettorie evolutive? In altre parole, la questione che si pone in questo lavoro non è retrospettiva — spiegare i tratti di un sistema come frutto di un processo adattivo pregresso — ma è prospettica e si sostanzia in due questioni logicamente connesse: 1) quali traiettorie evolutive si manifesteranno a partire dai tratti comportamentali presenti (cosa) e 2) attraverso quale logica (come). La questione, quindi, è quella di vedere i tratti comportamentali che costituiscono un sistema, non più come explanandum di un processo ad-attivo occorso ma come explanans di un processo ex-attivo che occorrerà. Ciò equivale in una certa misura a recepire la critica mossa nei confronti dell’Adattazionismo da tutti coloro che vi riscontrano una impronta panglossiana secondo la quale tutti i tratti comportamentali, in quanto frutto di adattamento, rappresenterebbero il migliore degli stati di natura possibili. La questione rinvia ad un problema analogo ma opposto nel gioco abduttivo-metaforico tra cognizione ed evoluzione. Tale problema è sintetizzato dal concetto di myopia dell’apprendimento: l’apprendimento occorso fungerebbe da principale vincolo ad ulteriore apprendimento nella misura in cui produce una trappola inerziale e, altresì, fornisce un criterio selettivo per il potenziale apprendimento futuro. Si pone così il problema di comprendere in che misura la conoscenza attuale rappresenti il principale vincolo per l’apprendimento futuro. Ovvero occorre comprendere lo stesso processo cognitivo attraverso il quale la conoscenza pregressa, riprodotta nella praxis, funga da principale criterio selezionatore delle potenziali traiettorie esplorative. Occorre, in altre parole, indagare sul processo stesso attraverso il quale un modo specifico di esplorare è sempre gestalticamente implicato in un modo singolare di operare, ovvero il cambiamento ottenibile è specificato dalla singolarità dello stato in cui un sistema si trova stabilmente ad operare. Come si desidera mostrare in questo lavoro, i fenomeni esplorativi, che sembrano contraddistinguere i momenti di discontinuità, innovazione e creatività sono, in verità, implicati nella conoscenza stratificata ed emergono — dal punto di vista comportamentale — in modo incrementale, come attività di riconoscimento lasco. L’affermazione di Linneo (1751), “natura non facit saltus” , è evocativa. Nell’ambito degli studi organizzativi e manageriali, il contrasto tra salto e continuità, come attualmente rappresentati nella letteratura, rappresentano più delle idealizzazioni derivanti da concezioni esemplificate di evoluzione. Infatti, tali dualità non sono in grado di tener conto della discriminazione logica tra la “continuità” del processo conoscitivo — che pertiene alla dinamica comportamentale — e il “salto” nei domini di applicazione della conoscenza — che pertiene alle contingenze ambientali. Un incremento della conoscenza, che potrebbe essere marginale in termini di processi di search, potrebbe apportare cambiamenti radicali in situazioni problematiche — domini di applicazione — criticamente sensibili a tale incremento di conoscenza. Tra salto e continuità esiste un dominio di salienza diverso che non è possibile illuminare soltanto attraverso gli estremi ideali del dualismo. La propensione alla ricerca di un framework generalizzante ed onnicomprensivo sul cambiamento endogeno, basato sulle categorie, mutualmente escludentesi, di “salto/radicalità” e “continuità/incrementalità” ha finito per mettere in ombra due aspetti fondamentali (nonostante la loro auto-evidenza): i) esiste un patrimonio di conoscenze sul quale i processi di variazione si innestano; ii) tale patrimonio di conoscenze si identifica con specifici domini di expertise e quindi si struttura come prassi. La ricerca di regole universali del cambiamento — alimentata da un afflato fondazionista — ha allontanato la possibilità di vedere la natura del cambiamento, come fenomeno spiegabile muovendo dalle stesse contingenze costituite dalla conoscenza sostantiva, ovvero da quella conoscenza che connota, localmente, specifici domini problematici. Tale considerazione critica ri-propone quindi la questione storicista di bilanciamento tra la “possibilità di generalizzazione” e “necessità di particolarizzazione”, questione che appare critica nel quadro che si va delineando. La ricerca di modelli epistemici onnicomprensivi e generalisti ha ridotto la conoscenza a mera entità sintattica declinata in una varietà di domini idiosincratici. Tale impostazione ha spinto a concepire i comportamenti esplorativi come meccanismi di ricerca disembodied ovvero separati dal dominio fenomenologico. Tali comportamenti sarebbero realizzati mediante l’applicazione di regole comportali universali che possono essere declinate in domini di conoscenza particolari i cui elementi non costituiscono mai gli ingredienti fondamentali ai fini della spiegazione del cambiamento. In altre parole, è come se, in letteratura, la spiegazione logica, domain-free e generica del cambiamento avesse costituito una priorità teoretica rispetto alla stessa possibilità di individuazione/predizione di “quale cambiamento”. Per quanto paradossale, lo “stato attuale” — inteso essenzialmente come lo stato di conoscenza attuale connessa ad uno specifico dominio problematico — appare l’elemento più trascurato per la identificazione e/o la spiegazione delle traiettorie del cambiamento. Ed appare anche l’unica — e minima — evidenza fenomenica sulla quale una speculazione scientifica sul cambiamento può innestarsi.

Il comportamento esplorativo nell'organizzazione

Di Nauta, Primiano
2024-01-01

Abstract

“Per raggiungere il punto che non conosci, devi prendere la strada che non conosci.” Se siamo pronti a riconoscere che il mondo di ogni giorno è caratterizzato da pratiche che assumono la veste di comportamenti ripetuti, allora, probabilmente, siamo anche pronti a riconoscere che questa affermazione di San Giovanni della Croce, descrive, attraverso un’argomentazione logica stringente, il processo che porta a nuova conoscenza. Eppure, ben lungi dal dichiararsi compiuta nella sua dimensione puramente razionale, l’affermazione racchiude un’inquietudine che sembra surclassare la sola consistenza logica: essa rinvia a una più profonda riflessione sulla natura della conoscenza e del conoscere, evocando il processo stesso di scoperta. Infatti, l’affermazione racchiude, allo stesso tempo, la difficoltà e l’auspicabilità della violazione di norme entro le quali un sistema umano si pone in essere e si regola attraverso praxis. Ed è proprio una violazione intenzionale dello status quo, la condizione sufficiente per la realizzazione di una consapevolezza più profonda. Se si snatura la problematica della sua dimensione esistenziale e la si riconduce ad una più stilizzata riflessione scientifica ci si rende facilmente conto di come tale problematica costituisca il nocciolo di una questione fondamentale e sostanzialmente antica: la spiegazione del cambiamento endogeno nei fenomeni sociali. Da secoli ormai la riflessione scientifica ci ha abituato a rinunciare a chiavi di lettura idiografiche dei fenomeni storici e ci ha abituato a pensare al cambiamento in termini evoluzionistici ovvero ha innestato la necessità di rinvenire logiche generali in grado di spigare la non-invarianza che contraddistingue il divenire storico. Tale approccio, che oggi coincide essenzialmente con l’eredità (neo-)darwiniana, si sostanzia in una prospettiva sul cambiamento la cui logica è retta da due opposte pressioni: da un lato la pressione alla discontinuità — realizzata attraverso i processi di variazione — dall’altro la pressione alla conservazione (in stati inerziali) di adattamenti occorsi — realizzata attraverso processi di selezione e ritenzione. La questione delineata appare particolarmente saliente nell’ambito dei domini di speculazione sui fenomeni organizzativi e manageriali; infatti, il problema non è quello di spiegare il cambiamento tout court ma quello di concepirlo nell’ambito di una logica organizzativa secondo la quale la ricerca di stabilità (e quindi di efficienza) appaiono imperativi categorici per il funzionamento fisiologico del sistema. La problematica del cambiamento appare quindi critica proprio nella misura in cui si riconosce nella stabilità e nell’invarianza dei comportamenti, un elemento costitutivo della stabilità dei sistemi organizzativi; la conservazione inerziale di stati di efficienza raggiunti rappresenta, allo stesso tempo, un imperativo normativo ed un elemento irriflesso del comportamento economico. Herbert A. Simon (1947, 1955, 1962, 1982) aveva già messo in luce come l’agire umano risolva l’inattuabilità di un comportamento totalmente razionale attraverso la docilità, la memoria, l’abitudine e l’automatismo. E facendolo poneva implicitamente un problema al quale questo lavoro vuole contribuire a dare una risposta: se riconosciamo che automatismi e routinizzazione rappresentano una costante del comportamento (la normalità) come possiamo spigare il cambiamento proprio a partire da essi? Risulta, così, rilevante ribaltare la questione posta dagli approcci evoluzionistici recepiti nelle discipline organizzative e manageriali. Non tanto porre la questione del cambiamento in termini di processo adattivo ma al contrario ribaltarne la logica: come concepire il cambiamento partendo dallo stato inerziale di un sistema? come gli attuali comportamenti di un sistema vincolano il suo cambiamento specificando, ineluttabili e particolari, traiettorie evolutive? In altre parole, la questione che si pone in questo lavoro non è retrospettiva — spiegare i tratti di un sistema come frutto di un processo adattivo pregresso — ma è prospettica e si sostanzia in due questioni logicamente connesse: 1) quali traiettorie evolutive si manifesteranno a partire dai tratti comportamentali presenti (cosa) e 2) attraverso quale logica (come). La questione, quindi, è quella di vedere i tratti comportamentali che costituiscono un sistema, non più come explanandum di un processo ad-attivo occorso ma come explanans di un processo ex-attivo che occorrerà. Ciò equivale in una certa misura a recepire la critica mossa nei confronti dell’Adattazionismo da tutti coloro che vi riscontrano una impronta panglossiana secondo la quale tutti i tratti comportamentali, in quanto frutto di adattamento, rappresenterebbero il migliore degli stati di natura possibili. La questione rinvia ad un problema analogo ma opposto nel gioco abduttivo-metaforico tra cognizione ed evoluzione. Tale problema è sintetizzato dal concetto di myopia dell’apprendimento: l’apprendimento occorso fungerebbe da principale vincolo ad ulteriore apprendimento nella misura in cui produce una trappola inerziale e, altresì, fornisce un criterio selettivo per il potenziale apprendimento futuro. Si pone così il problema di comprendere in che misura la conoscenza attuale rappresenti il principale vincolo per l’apprendimento futuro. Ovvero occorre comprendere lo stesso processo cognitivo attraverso il quale la conoscenza pregressa, riprodotta nella praxis, funga da principale criterio selezionatore delle potenziali traiettorie esplorative. Occorre, in altre parole, indagare sul processo stesso attraverso il quale un modo specifico di esplorare è sempre gestalticamente implicato in un modo singolare di operare, ovvero il cambiamento ottenibile è specificato dalla singolarità dello stato in cui un sistema si trova stabilmente ad operare. Come si desidera mostrare in questo lavoro, i fenomeni esplorativi, che sembrano contraddistinguere i momenti di discontinuità, innovazione e creatività sono, in verità, implicati nella conoscenza stratificata ed emergono — dal punto di vista comportamentale — in modo incrementale, come attività di riconoscimento lasco. L’affermazione di Linneo (1751), “natura non facit saltus” , è evocativa. Nell’ambito degli studi organizzativi e manageriali, il contrasto tra salto e continuità, come attualmente rappresentati nella letteratura, rappresentano più delle idealizzazioni derivanti da concezioni esemplificate di evoluzione. Infatti, tali dualità non sono in grado di tener conto della discriminazione logica tra la “continuità” del processo conoscitivo — che pertiene alla dinamica comportamentale — e il “salto” nei domini di applicazione della conoscenza — che pertiene alle contingenze ambientali. Un incremento della conoscenza, che potrebbe essere marginale in termini di processi di search, potrebbe apportare cambiamenti radicali in situazioni problematiche — domini di applicazione — criticamente sensibili a tale incremento di conoscenza. Tra salto e continuità esiste un dominio di salienza diverso che non è possibile illuminare soltanto attraverso gli estremi ideali del dualismo. La propensione alla ricerca di un framework generalizzante ed onnicomprensivo sul cambiamento endogeno, basato sulle categorie, mutualmente escludentesi, di “salto/radicalità” e “continuità/incrementalità” ha finito per mettere in ombra due aspetti fondamentali (nonostante la loro auto-evidenza): i) esiste un patrimonio di conoscenze sul quale i processi di variazione si innestano; ii) tale patrimonio di conoscenze si identifica con specifici domini di expertise e quindi si struttura come prassi. La ricerca di regole universali del cambiamento — alimentata da un afflato fondazionista — ha allontanato la possibilità di vedere la natura del cambiamento, come fenomeno spiegabile muovendo dalle stesse contingenze costituite dalla conoscenza sostantiva, ovvero da quella conoscenza che connota, localmente, specifici domini problematici. Tale considerazione critica ri-propone quindi la questione storicista di bilanciamento tra la “possibilità di generalizzazione” e “necessità di particolarizzazione”, questione che appare critica nel quadro che si va delineando. La ricerca di modelli epistemici onnicomprensivi e generalisti ha ridotto la conoscenza a mera entità sintattica declinata in una varietà di domini idiosincratici. Tale impostazione ha spinto a concepire i comportamenti esplorativi come meccanismi di ricerca disembodied ovvero separati dal dominio fenomenologico. Tali comportamenti sarebbero realizzati mediante l’applicazione di regole comportali universali che possono essere declinate in domini di conoscenza particolari i cui elementi non costituiscono mai gli ingredienti fondamentali ai fini della spiegazione del cambiamento. In altre parole, è come se, in letteratura, la spiegazione logica, domain-free e generica del cambiamento avesse costituito una priorità teoretica rispetto alla stessa possibilità di individuazione/predizione di “quale cambiamento”. Per quanto paradossale, lo “stato attuale” — inteso essenzialmente come lo stato di conoscenza attuale connessa ad uno specifico dominio problematico — appare l’elemento più trascurato per la identificazione e/o la spiegazione delle traiettorie del cambiamento. Ed appare anche l’unica — e minima — evidenza fenomenica sulla quale una speculazione scientifica sul cambiamento può innestarsi.
2024
978-88-98-85448-6
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11369/446188
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