Default economici, calamità naturali, guerre, atti di terrorismo, epidemie sembrano ormai la cifra delle so-cietà contemporanee, imponendo ai Governi democratici di agire con velocità per fare fronte alle emergen-ze. La «necessità» diviene dunque il principio ordinatore della politica e le decisioni vengono prese «in fret-ta» (White 2020, 22). Questo ci spinge a riflettere sulle modalità con cui, in questo periodo storico, e al netto delle congiunture emergenziali, vengono assunte le decisioni socialmente vincolanti nelle democrazie contemporanee. La premessa è che in democrazia la politica è formalmente sovrana e può assumere deci-sioni che siano il prodotto di accordi presi in Parlamento o con il Parlamento. Tale sovranità non implica però onnipotenza, nel senso che ogni decisione va assunta nell’ambito delle compatibilità costituzionali che delineano l’inviolabilità formale e sostanziale dei diritti individuali. L’emergenza pandemica ha per esempio spinto i Governi ad assumere decisioni che andavano diretta-mente a restringere gli spazi di libertà connessi ad alcuni diritti fondamentali – come quelli alla mobilità, alla riunione, al lavoro, al tempo libero, alle relazioni sociali – tanto da spingere qualcuno a ravvisare, in taluni casi, una potenziale confusione tra «stato d’emergenza» e «stato d’eccezione» che ci porta quanto-meno a problematizzare la reale fonte dei poteri emergenziali riconosciuti ai capi di Governo. In questa se-de, non è nostro interesse mettere in discussione il merito di certi provvedimenti, quanto piuttosto le mo-dalità con cui essi vengono deliberati. Quando parliamo di stato d’emergenza ci riferiamo a quelle congiunture in cui i Governi possono mette-re in pratica comportamenti che velocizzino il processo decisionale per fare fronte a eventi imprevisti che impongano un immediato intervento amministrativo. Si tratta perlopiù di provvedimenti tecnici che non inficiano la tenuta democratica del sistema, rispondendo piuttosto a un bisogno congiunturale di immedia-tezza dell’intervento pubblico. Lo «stato d’eccezione» prevede al contrario una momentanea sospensione dell’ordinamento giuridico, sovvertendo i parametri di gestione del potere previsti nello Stato di diritto. I poteri eccezionali spaccano le procedure e i meccanismi di governo diventano sempre più informali e poli-ticamente irresponsabili (ibid., 21). Tutti gli ordinamenti democratici contemplano questa possibilità da applicarsi però in casi limite, come in una guerra o in situazioni di disordine pubblico che possano di per sé generare un sovvertimento dell’ordine costituito. Eppure, sono diverse le interpretazioni, talvolta, va detto, ai limiti del grottesco, in cui si constata da tempo come nelle democrazie occidentali post ’89 si sia realiz-zato una sorta di «stato d’eccezione» permanente destinato a svuotare progressivamente gli spazi e i signi-ficati della politica democratica (Agamben 2003). Con questo contributo non intendiamo entrare nel meri-to di un dibattito che è stato fin troppo banalizzato nelle pseudo-polemiche da social network in cui si ri-schia di introdurre nello stesso calderone ridicole posizioni complottistiche, negazionistiche e antiscienti-ste, che rifiutiamo con nettezza, e riflessioni critiche, a nostro avviso ben più pertinenti, rispetto alla ridu-zione degli spazi partecipativi e democratici che registriamo, a partire dalle modalità decisionali, da almeno due decenni e cioè molto prima che la sindemia attuale coinvolgesse l’intero pianeta. A prescindere dalla recente emergenza pandemica, sembrano infatti prevalere da anni, anche nell’esercizio di governo, le cosiddette «tecniche sostitutive», cioè tutti quei dispositivi giuridici che prov-vedono alla gestione delle emergenze attraverso tecnicalità non ordinarie che assumono però nel tempo i tratti dell’ordinarietà. Tali procedure si concretizzano in «poteri d’emergenza esecutivi», che non sono il frutto di una delega da parte dei Parlamenti, e che Clinton Rossiter ben distingueva dai cosiddetti «poteri d’emergenza legislativi», che sono invece attribuiti all’esecutivo attraverso una legislazione specifica (Ros-siter 1963, 290). Sotto alcuni aspetti, l’impressione è che le crisi endemiche abbiano generato, nelle pratiche, una fre-quente indistinzione tra i concetti socio-giuridici di «emergenza» ed «eccezione». Nel caso della pandemia, che utilizziamo in questo contesto solo come esempio paradigmatico, la paura del contagio, oltre a una re-torica mediatica (e politica) che spesso ha assimilato la lotta al Covid-19 a una vera e propria guerra, ha fat-to sì che l’esigenza di adottare provvedimenti emergenziali si sia tradotta in veri e propri «poteri speciali» accordati alla Presidenza del Consiglio. In Italia, per esempio, il Governo ha concentrato su di sé il potere d’intervento, mantenendo la pratica del Dpcm anche nei mesi di reflusso pandemico, quando probabilmen-te ci sarebbero state le condizioni per un confronto parlamentare. Lo stesso si è realizzato a livello decen-trato in cui i Presidenti delle Regioni, prendendo troppo sul serio la retorica giornalistica che li definisce erroneamente “governatori”, hanno personalizzato la gestione dell’emergenza andando talvolta in conflitto con il Governo nazionale. Questa nuova consuetudine che centralizza e al contempo personalizza il deci-sion making tende dunque a standardizzare uno stato di quasi-eccezionalità. Indubbiamente, il Governo italiano si è trovato a dover fronteggiare una situazione inedita, ma non pos-siamo non problematizzare la propensione, antecedente la pandemia, a svuotare il Parlamento della sua funzione legislativa e di rappresentanza che, come mostra la recente letteratura sui processi di depoliticiz-zazione (de Nardis 2017), caratterizza una prassi che connota l’azione politica di molti Governi occidentali. La centralizzazione del processo decisionale attraverso la pratica del voto di fiducia o del Decreto, che di fatto azzerano la discussione in Parlamento, ha infatti connotato le modalità di governo della cosa pubblica negli ultimi due decenni. L’emergenza pandemica ha solo radicalizzato una tendenza già in atto di concen-trazione del potere e privazione sostanziale del Parlamento della sua funzione legislativa, spesso trasfor-mandolo in un organo poco più che consultivo. Nella fattispecie italiana dell’emergenza pandemica, a seguito della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 Gennaio 2020 con cui è stato dichiarato lo «stato d’emergenza» per rischio sanitario, poi prorogato due volte, il 21 Luglio e il 7 Ottobre dello stesso anno, le cittadine e i cittadini sono stati sommersi da provvedimenti emergenziali (Decreti-legge, Dpcm, Ordinanze di Sindaci e Presidenti di Regione) orientati a una radicale privazione delle libertà individuali. La mancata parlamentarizzazione dell’emergenza è stata spesso criticata soprattutto rispetto alla pratica del Dpcm. Se infatti i Decreti-legge presuppongono comun-que un breve passaggio parlamentare, le Delibere del Presidente del Consiglio dei Ministri sono invece completamente fuori dal controllo politico da parte delle Camere e da quello di legittimità da parte della Corte Costituzionale. La scelta di operare in questo modo ha quasi prefigurato una sorta di «normazione di guerra» tipica di uno «stato d’eccezione» (Covella 2020), avallata tra l’altro dai mass media che hanno spesso sviluppato un linguaggio paramilitare (si pensi alla richiesta di utilizzo delle forze armate per la ge-stione del lockdown, o alla retorica del «coprifuoco» per definire un banale e giustificato blocco alla circo-lazione serale nei locali per evitare la diffusione del virus). Parziale limitazione delle libertà, centralizzazio-ne e personalizzazione del potere politico sono dunque i tratti che caratterizzano questa fase storica in cui la politica emergenziale sembra diventata un tratto saliente delle democrazie contemporanee, da tempo in-filtrate da retoriche e mentalità autoritarie ben rappresentate da alcuni nuovi populismi, ma anche dalla re-strizione degli spazi di partecipazione. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, scriveva Carl Schmitt (1972). Di fronte alle emergenze, lo Stato di diritto arretra lasciando il campo libero al vero sovrano, uomo solo al comando. Eppure, in democrazia, pur dentro una dimensione emergenziale, è sempre necessario trovare un equilibrio tra i poteri e integrare i diritti senza che uno prevalga in modo netto sugli altri. Infatti, al di là della fattispecie pandemica, le emergenze producono sempre un potenziale trade-off tra i diritti, in cui il diritto alla sicurezza tende a prevalere rispetto agli altri (Badwin 2005). In questo caso, il diritto alla salute (sicurezza sanitaria) ha gio-cato giustamente un ruolo di sovra-ordinazione sugli altri diritti costituzionali che subito dopo la pandemia dovrebbero auspicabilmente essere riabilitati. Un’esigenza espressa anche dall’Alta Commissaria delle Na-zioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che ha fatto esplicito riferimento al rischio che l’emergenza sanitaria si tramuti «in una catastrofe per i diritti umani». Una riflessione sul senso delle politiche di emergenza è dunque pertinente soprattutto in un’epoca in cui i processi di mondializzazione economica e gli effetti spesso catastrofici sull’ecosistema di un determinato modello di sviluppo impongono ai governi democratici di gestire congiunture impreviste mettendo in atto pratiche reattive rispetto al riproporsi di congiunture critiche. Tali crisi assumono una funzione al contem-po trasformativa e conservativa. Nella gestione dell’emergenza, da un lato, entrano in gioco nuovi attori, nuove pratiche, nuove procedure che sovente si stabilizzano dentro una dimensione adattiva di resilienza sociale e istituzionale; dall’altro, le nuove politiche emergenziali, in quanto resilienti, operano perlopiù per proteggere e riconfermare gli equilibri di potere preesistenti (Arienzo 2006). I Governi utilizzano le politi-che d’urgenza anche per rafforzarsi attraverso l’uso e l’abuso di poteri non ordinari. Enfatizzano il momen-to esecutivo rispetto a quello legislativo, anche disincentivando e reprimendo le pratiche sociali di parteci-pazione politica. Ci si trova dunque di fronte alla situazione che, in tempi non sospetti, era stata ben identificata da Mi-chel Foucault attraverso la categoria teorica della «governamentalità» intesa come una «forma molto speci-fica, sebbene molto complessa di potere, che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza» (Foucault 1994, 65). Nella logica dei governi neoliberali si attribuisce un ruolo dirimente al nesso tra sicurezza e libertà. L’assoluta libertà necessaria al dispiegarsi di una certa political economy determina incertezze, rischi, emergenze cicliche date dalla fragilità sistemica del modo capitalistico di produzione e accumulazione della ricchezza. Tale imprevedibilità genera paura e ansietà sociale che sono diventati i due sentimenti su cui si articola la dimensione della dialettica politica e della legittimazione del potere nelle società contemporanee, favorendo l’attivazione di procedure di controllo e coercizione che agiscono come una sorta di contropartita della libertà (Foucault 2001). Per questa ragione, il nesso tra emergenza e neoliberismo appare sensata in un saggio dedicato alla crisi delle condizioni democratiche. La paura del non previsto (e in genere del migrante, del terrorista, del criminale) e la conseguente milita-rizzazione diventano tra l’altro due aspetti importanti della politica nell’epoca delle emergenze e della de-politicizzazione dei processi di governo (Ahmed 2003; Booth and Wheeler 2009; Papandreou 2013; Wodack 2015). La “necessità” genera centralizzazione del potere e militarizzazione, perché le forze dell’ordine di-ventano i garanti della sicurezza di fronte alla minaccia (Sheppele 2010, 133-34). Vengono imposte forti restrizioni alla libertà di movimento, ma anche di partecipazione e protesta, aumentando la sorveglianza e la violenza anticipatoria nei confronti di chi opta per forme di partecipazione non istituzionale. Nel saggio che presentiamo, tali trasformazioni delle condizioni democratiche in Occidente, che segna-lano un chiaro processo di de-democratizzazione, per usare un’espressione cara a Charles Tilly (2017), sa-ranno connesse, da un lato, alle dinamiche di de-politicizzazione sopracitate – e cioè a come la politica isti-tuzionale agisce oggi nei confini della governance neoliberale (de Nardis 2017); dall’altro, a quelle dinami-che ben descritte dall’ormai fitta letteratura che da alcuni anni ha problematizzato il concetto di “neoliberi-smo autoritario”, inteso come quell’insieme di strategie statali attraverso le quali i parametri del sistema neoliberista sono tenuti al riparo da ogni possibile pressione popolare. Assumiamo dunque che il neoliberi-smo prenda forma e si rinforzi, in primo luogo, attraverso pratiche statali coercitive finalizzate a disciplina-re, marginalizzare e sovente criminalizzare le forze sociali di opposizione; in secondo luogo, attraverso gli apparati giuridico-amministrativi degli Stati che limitano i percorsi attraverso cui le politiche neoliberali possono essere messe in discussione e sfidate (Tansel 2017, 2). Sono dunque due in sostanza gli elementi che qualificano il neoliberismo autoritario: da un lato, esso determina elementi di novità rispetto al tradi-zionale modo di agire degli Stati in un contesto di capitalismo avanzato (Poulantzas 1978); dall’altro, attra-verso tale categoria analitica, identifichiamo quel cambiamento qualitativo intrinseco alla propensione illi-berale del neoliberismo. Nel connettere crisi democratica, depoliticizzazione e neoliberismo autoritario, as-sumiamo dunque che quest’ultimo operi attraverso meccanismi di disciplinamento preventivi che isolano e proteggono le politiche pubbliche neoliberali attraverso strumenti giuridici, amministrativi e coercitivi fina-lizzati a mettere al riparo il decisore politico da ogni forma di dissenso sociale (Bruff 2014). Da questo pun-to di vista, appare evidente come il neoliberismo si discosti dal pensiero liberale classico fondato sull’idea dello Stato minimo o tutt’al più arbitro dei processi di dispiegamento del libero mercato (Garapon 2021). Le politiche neoliberali hanno infatti bisogno di uno Stato e un sistema amministrativo forti, ma di una democrazia debole sotto l’aspetto della relazione (non necessariamente conflittuale) tra istituzioni e citta-dini. Come nota lo stesso Bruff (ibid., 123), nell’epoca del neoliberismo autoritario, le tecniche di gover-nance non sono solo reattive, ma anche preventive, incastrando il sistema delle politiche pubbliche dentro una sorta di stato di necessità permanente. Ecco che il riferimento iniziale alle politiche di emergenza rien-tra in gioco come uno strumento simbolico (e retorico) funzionale alla riproduzione di tale schema interpretativo.

Politica dell’emergenza e crisi democratica in epoca di neoliberismo autoritario

Fabio de Nardis
2022-01-01

Abstract

Default economici, calamità naturali, guerre, atti di terrorismo, epidemie sembrano ormai la cifra delle so-cietà contemporanee, imponendo ai Governi democratici di agire con velocità per fare fronte alle emergen-ze. La «necessità» diviene dunque il principio ordinatore della politica e le decisioni vengono prese «in fret-ta» (White 2020, 22). Questo ci spinge a riflettere sulle modalità con cui, in questo periodo storico, e al netto delle congiunture emergenziali, vengono assunte le decisioni socialmente vincolanti nelle democrazie contemporanee. La premessa è che in democrazia la politica è formalmente sovrana e può assumere deci-sioni che siano il prodotto di accordi presi in Parlamento o con il Parlamento. Tale sovranità non implica però onnipotenza, nel senso che ogni decisione va assunta nell’ambito delle compatibilità costituzionali che delineano l’inviolabilità formale e sostanziale dei diritti individuali. L’emergenza pandemica ha per esempio spinto i Governi ad assumere decisioni che andavano diretta-mente a restringere gli spazi di libertà connessi ad alcuni diritti fondamentali – come quelli alla mobilità, alla riunione, al lavoro, al tempo libero, alle relazioni sociali – tanto da spingere qualcuno a ravvisare, in taluni casi, una potenziale confusione tra «stato d’emergenza» e «stato d’eccezione» che ci porta quanto-meno a problematizzare la reale fonte dei poteri emergenziali riconosciuti ai capi di Governo. In questa se-de, non è nostro interesse mettere in discussione il merito di certi provvedimenti, quanto piuttosto le mo-dalità con cui essi vengono deliberati. Quando parliamo di stato d’emergenza ci riferiamo a quelle congiunture in cui i Governi possono mette-re in pratica comportamenti che velocizzino il processo decisionale per fare fronte a eventi imprevisti che impongano un immediato intervento amministrativo. Si tratta perlopiù di provvedimenti tecnici che non inficiano la tenuta democratica del sistema, rispondendo piuttosto a un bisogno congiunturale di immedia-tezza dell’intervento pubblico. Lo «stato d’eccezione» prevede al contrario una momentanea sospensione dell’ordinamento giuridico, sovvertendo i parametri di gestione del potere previsti nello Stato di diritto. I poteri eccezionali spaccano le procedure e i meccanismi di governo diventano sempre più informali e poli-ticamente irresponsabili (ibid., 21). Tutti gli ordinamenti democratici contemplano questa possibilità da applicarsi però in casi limite, come in una guerra o in situazioni di disordine pubblico che possano di per sé generare un sovvertimento dell’ordine costituito. Eppure, sono diverse le interpretazioni, talvolta, va detto, ai limiti del grottesco, in cui si constata da tempo come nelle democrazie occidentali post ’89 si sia realiz-zato una sorta di «stato d’eccezione» permanente destinato a svuotare progressivamente gli spazi e i signi-ficati della politica democratica (Agamben 2003). Con questo contributo non intendiamo entrare nel meri-to di un dibattito che è stato fin troppo banalizzato nelle pseudo-polemiche da social network in cui si ri-schia di introdurre nello stesso calderone ridicole posizioni complottistiche, negazionistiche e antiscienti-ste, che rifiutiamo con nettezza, e riflessioni critiche, a nostro avviso ben più pertinenti, rispetto alla ridu-zione degli spazi partecipativi e democratici che registriamo, a partire dalle modalità decisionali, da almeno due decenni e cioè molto prima che la sindemia attuale coinvolgesse l’intero pianeta. A prescindere dalla recente emergenza pandemica, sembrano infatti prevalere da anni, anche nell’esercizio di governo, le cosiddette «tecniche sostitutive», cioè tutti quei dispositivi giuridici che prov-vedono alla gestione delle emergenze attraverso tecnicalità non ordinarie che assumono però nel tempo i tratti dell’ordinarietà. Tali procedure si concretizzano in «poteri d’emergenza esecutivi», che non sono il frutto di una delega da parte dei Parlamenti, e che Clinton Rossiter ben distingueva dai cosiddetti «poteri d’emergenza legislativi», che sono invece attribuiti all’esecutivo attraverso una legislazione specifica (Ros-siter 1963, 290). Sotto alcuni aspetti, l’impressione è che le crisi endemiche abbiano generato, nelle pratiche, una fre-quente indistinzione tra i concetti socio-giuridici di «emergenza» ed «eccezione». Nel caso della pandemia, che utilizziamo in questo contesto solo come esempio paradigmatico, la paura del contagio, oltre a una re-torica mediatica (e politica) che spesso ha assimilato la lotta al Covid-19 a una vera e propria guerra, ha fat-to sì che l’esigenza di adottare provvedimenti emergenziali si sia tradotta in veri e propri «poteri speciali» accordati alla Presidenza del Consiglio. In Italia, per esempio, il Governo ha concentrato su di sé il potere d’intervento, mantenendo la pratica del Dpcm anche nei mesi di reflusso pandemico, quando probabilmen-te ci sarebbero state le condizioni per un confronto parlamentare. Lo stesso si è realizzato a livello decen-trato in cui i Presidenti delle Regioni, prendendo troppo sul serio la retorica giornalistica che li definisce erroneamente “governatori”, hanno personalizzato la gestione dell’emergenza andando talvolta in conflitto con il Governo nazionale. Questa nuova consuetudine che centralizza e al contempo personalizza il deci-sion making tende dunque a standardizzare uno stato di quasi-eccezionalità. Indubbiamente, il Governo italiano si è trovato a dover fronteggiare una situazione inedita, ma non pos-siamo non problematizzare la propensione, antecedente la pandemia, a svuotare il Parlamento della sua funzione legislativa e di rappresentanza che, come mostra la recente letteratura sui processi di depoliticiz-zazione (de Nardis 2017), caratterizza una prassi che connota l’azione politica di molti Governi occidentali. La centralizzazione del processo decisionale attraverso la pratica del voto di fiducia o del Decreto, che di fatto azzerano la discussione in Parlamento, ha infatti connotato le modalità di governo della cosa pubblica negli ultimi due decenni. L’emergenza pandemica ha solo radicalizzato una tendenza già in atto di concen-trazione del potere e privazione sostanziale del Parlamento della sua funzione legislativa, spesso trasfor-mandolo in un organo poco più che consultivo. Nella fattispecie italiana dell’emergenza pandemica, a seguito della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 Gennaio 2020 con cui è stato dichiarato lo «stato d’emergenza» per rischio sanitario, poi prorogato due volte, il 21 Luglio e il 7 Ottobre dello stesso anno, le cittadine e i cittadini sono stati sommersi da provvedimenti emergenziali (Decreti-legge, Dpcm, Ordinanze di Sindaci e Presidenti di Regione) orientati a una radicale privazione delle libertà individuali. La mancata parlamentarizzazione dell’emergenza è stata spesso criticata soprattutto rispetto alla pratica del Dpcm. Se infatti i Decreti-legge presuppongono comun-que un breve passaggio parlamentare, le Delibere del Presidente del Consiglio dei Ministri sono invece completamente fuori dal controllo politico da parte delle Camere e da quello di legittimità da parte della Corte Costituzionale. La scelta di operare in questo modo ha quasi prefigurato una sorta di «normazione di guerra» tipica di uno «stato d’eccezione» (Covella 2020), avallata tra l’altro dai mass media che hanno spesso sviluppato un linguaggio paramilitare (si pensi alla richiesta di utilizzo delle forze armate per la ge-stione del lockdown, o alla retorica del «coprifuoco» per definire un banale e giustificato blocco alla circo-lazione serale nei locali per evitare la diffusione del virus). Parziale limitazione delle libertà, centralizzazio-ne e personalizzazione del potere politico sono dunque i tratti che caratterizzano questa fase storica in cui la politica emergenziale sembra diventata un tratto saliente delle democrazie contemporanee, da tempo in-filtrate da retoriche e mentalità autoritarie ben rappresentate da alcuni nuovi populismi, ma anche dalla re-strizione degli spazi di partecipazione. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, scriveva Carl Schmitt (1972). Di fronte alle emergenze, lo Stato di diritto arretra lasciando il campo libero al vero sovrano, uomo solo al comando. Eppure, in democrazia, pur dentro una dimensione emergenziale, è sempre necessario trovare un equilibrio tra i poteri e integrare i diritti senza che uno prevalga in modo netto sugli altri. Infatti, al di là della fattispecie pandemica, le emergenze producono sempre un potenziale trade-off tra i diritti, in cui il diritto alla sicurezza tende a prevalere rispetto agli altri (Badwin 2005). In questo caso, il diritto alla salute (sicurezza sanitaria) ha gio-cato giustamente un ruolo di sovra-ordinazione sugli altri diritti costituzionali che subito dopo la pandemia dovrebbero auspicabilmente essere riabilitati. Un’esigenza espressa anche dall’Alta Commissaria delle Na-zioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che ha fatto esplicito riferimento al rischio che l’emergenza sanitaria si tramuti «in una catastrofe per i diritti umani». Una riflessione sul senso delle politiche di emergenza è dunque pertinente soprattutto in un’epoca in cui i processi di mondializzazione economica e gli effetti spesso catastrofici sull’ecosistema di un determinato modello di sviluppo impongono ai governi democratici di gestire congiunture impreviste mettendo in atto pratiche reattive rispetto al riproporsi di congiunture critiche. Tali crisi assumono una funzione al contem-po trasformativa e conservativa. Nella gestione dell’emergenza, da un lato, entrano in gioco nuovi attori, nuove pratiche, nuove procedure che sovente si stabilizzano dentro una dimensione adattiva di resilienza sociale e istituzionale; dall’altro, le nuove politiche emergenziali, in quanto resilienti, operano perlopiù per proteggere e riconfermare gli equilibri di potere preesistenti (Arienzo 2006). I Governi utilizzano le politi-che d’urgenza anche per rafforzarsi attraverso l’uso e l’abuso di poteri non ordinari. Enfatizzano il momen-to esecutivo rispetto a quello legislativo, anche disincentivando e reprimendo le pratiche sociali di parteci-pazione politica. Ci si trova dunque di fronte alla situazione che, in tempi non sospetti, era stata ben identificata da Mi-chel Foucault attraverso la categoria teorica della «governamentalità» intesa come una «forma molto speci-fica, sebbene molto complessa di potere, che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza» (Foucault 1994, 65). Nella logica dei governi neoliberali si attribuisce un ruolo dirimente al nesso tra sicurezza e libertà. L’assoluta libertà necessaria al dispiegarsi di una certa political economy determina incertezze, rischi, emergenze cicliche date dalla fragilità sistemica del modo capitalistico di produzione e accumulazione della ricchezza. Tale imprevedibilità genera paura e ansietà sociale che sono diventati i due sentimenti su cui si articola la dimensione della dialettica politica e della legittimazione del potere nelle società contemporanee, favorendo l’attivazione di procedure di controllo e coercizione che agiscono come una sorta di contropartita della libertà (Foucault 2001). Per questa ragione, il nesso tra emergenza e neoliberismo appare sensata in un saggio dedicato alla crisi delle condizioni democratiche. La paura del non previsto (e in genere del migrante, del terrorista, del criminale) e la conseguente milita-rizzazione diventano tra l’altro due aspetti importanti della politica nell’epoca delle emergenze e della de-politicizzazione dei processi di governo (Ahmed 2003; Booth and Wheeler 2009; Papandreou 2013; Wodack 2015). La “necessità” genera centralizzazione del potere e militarizzazione, perché le forze dell’ordine di-ventano i garanti della sicurezza di fronte alla minaccia (Sheppele 2010, 133-34). Vengono imposte forti restrizioni alla libertà di movimento, ma anche di partecipazione e protesta, aumentando la sorveglianza e la violenza anticipatoria nei confronti di chi opta per forme di partecipazione non istituzionale. Nel saggio che presentiamo, tali trasformazioni delle condizioni democratiche in Occidente, che segna-lano un chiaro processo di de-democratizzazione, per usare un’espressione cara a Charles Tilly (2017), sa-ranno connesse, da un lato, alle dinamiche di de-politicizzazione sopracitate – e cioè a come la politica isti-tuzionale agisce oggi nei confini della governance neoliberale (de Nardis 2017); dall’altro, a quelle dinami-che ben descritte dall’ormai fitta letteratura che da alcuni anni ha problematizzato il concetto di “neoliberi-smo autoritario”, inteso come quell’insieme di strategie statali attraverso le quali i parametri del sistema neoliberista sono tenuti al riparo da ogni possibile pressione popolare. Assumiamo dunque che il neoliberi-smo prenda forma e si rinforzi, in primo luogo, attraverso pratiche statali coercitive finalizzate a disciplina-re, marginalizzare e sovente criminalizzare le forze sociali di opposizione; in secondo luogo, attraverso gli apparati giuridico-amministrativi degli Stati che limitano i percorsi attraverso cui le politiche neoliberali possono essere messe in discussione e sfidate (Tansel 2017, 2). Sono dunque due in sostanza gli elementi che qualificano il neoliberismo autoritario: da un lato, esso determina elementi di novità rispetto al tradi-zionale modo di agire degli Stati in un contesto di capitalismo avanzato (Poulantzas 1978); dall’altro, attra-verso tale categoria analitica, identifichiamo quel cambiamento qualitativo intrinseco alla propensione illi-berale del neoliberismo. Nel connettere crisi democratica, depoliticizzazione e neoliberismo autoritario, as-sumiamo dunque che quest’ultimo operi attraverso meccanismi di disciplinamento preventivi che isolano e proteggono le politiche pubbliche neoliberali attraverso strumenti giuridici, amministrativi e coercitivi fina-lizzati a mettere al riparo il decisore politico da ogni forma di dissenso sociale (Bruff 2014). Da questo pun-to di vista, appare evidente come il neoliberismo si discosti dal pensiero liberale classico fondato sull’idea dello Stato minimo o tutt’al più arbitro dei processi di dispiegamento del libero mercato (Garapon 2021). Le politiche neoliberali hanno infatti bisogno di uno Stato e un sistema amministrativo forti, ma di una democrazia debole sotto l’aspetto della relazione (non necessariamente conflittuale) tra istituzioni e citta-dini. Come nota lo stesso Bruff (ibid., 123), nell’epoca del neoliberismo autoritario, le tecniche di gover-nance non sono solo reattive, ma anche preventive, incastrando il sistema delle politiche pubbliche dentro una sorta di stato di necessità permanente. Ecco che il riferimento iniziale alle politiche di emergenza rien-tra in gioco come uno strumento simbolico (e retorico) funzionale alla riproduzione di tale schema interpretativo.
2022
9788857586397
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