Introduzione Pandemie, default economici, calamità naturali, guerre, atti di terrorismo, sembrano ormai la cifra delle società contemporanee, imponendo ai Governi democratici di agire con velocità per fare fronte alle emergenze. La «necessità» diviene il principio ordinatore della politica e le decisioni vengono prese «in fretta» (White 2020, 22). Questo ci spinge a riflettere sulle modalità con cui, in questo periodo storico, e al netto delle congiunture emergenziali, vengono assunte le decisioni socialmente vincolanti nelle democrazie con-temporanee. La premessa è che in democrazia la politica è formalmente sovrana e può assumere decisioni che siano il prodotto di accordi presi in Parlamento o con il Parlamento. Tale sovranità non implica però onnipotenza, nel senso che ogni decisione va assunta nell’ambito delle compatibilità costituzionali che de-lineano l’inviolabilità formale e sostanziale dei diritti individuali. L’emergenza pandemica ha portato i Go-verni ad assumere decisioni che andavano direttamente a restringere gli spazi di libertà connessi ad alcuni diritti fondamentali – come quelli alla mobilità, alla riunione, al lavoro, al tempo libero, alle relazioni socia-li – tanto da poter ravvisare, in taluni casi, una potenziale confusione tra «stato d’emergenza» e «stato d’eccezione» che ci porta quantomeno a problematizzare la reale fonte dei poteri emergenziali riconosciuti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non discutiamo qui il merito di certi provvedimenti, quanto piuttosto le modalità con cui vengo adottati. Quando parliamo di stato d’emergenza ci riferiamo a quelle congiunture in cui i Governi possono mette-re in pratica comportamenti che velocizzino il processo decisionale per fare fronte a eventi imprevisti che impongano un immediato intervento amministrativo. Si tratta perlopiù di provvedimenti tecnici che non inficiano la tenuta democratica del sistema, rispondendo piuttosto a un bisogno congiunturale di immedia-tezza dell’intervento pubblico. Lo «stato d’eccezione» prevede al contrario una momentanea sospensione dell’ordinamento giuridico, sovvertendo i parametri di gestione del potere previsti nello Stato di diritto. I poteri eccezionali spaccano le procedure e i meccanismi di governo diventano sempre più informali e poli-ticamente irresponsabili (ibid., 21). Tutti gli ordinamenti democratici contemplano questa possibilità da applicarsi però in casi limite, come una guerra o in situazioni di disordine pubblico che possano di per sé generare un sovvertimento dell’ordine costituito. Eppure, sono diverse le interpretazioni in cui si constata da tempo come nelle democrazie occidentali post ’89 si sia realizzato una sorta di «stato d’eccezione» per-manente destinato a svuotare progressivamente gli spazi e i significati della politica democratica (Agamben 2003). Sembrano prevalere, anche nell’esercizio di governo, le cosiddette «tecniche sostitutive», cioè tutti quei dispositivi giuridici che provvedono alla gestione delle emergenze attraverso tecnicalità non ordinarie che assumono però nel tempo i tratti dell’ordinarietà. Tali procedure si concretizzano in «poteri d’emergenza esecutivi», che non sono il frutto di una delega da parte dei Parlamenti, e che Clinton Rossi-ter ben distingueva dai cosiddetti «poteri d’emergenza legislativi», che sono invece attribuiti all’esecutivo attraverso una legislazione specifica (Rossiter 1963, 290). Sotto molti aspetti, l’impressione è che l’emergenza pandemica abbia determinato, nelle pratiche, una sostanziale indistinzione tra i concetti socio-giuridici di «emergenza» ed «eccezione». La paura del conta-gio, oltre a una retorica mediatica (e politica) che spesso ha assimilato la lotta al Covid-19 a una vera e pro-pria guerra, ha fatto sì che l’esigenza di adottare provvedimenti emergenziali si sia tradotta in veri e propri «poteri speciali» accordati alla Presidenza del Consiglio. Il Governo ha concentrato su di sé il potere d’intervento, mantenendo la pratica del Dpcm anche nei mesi di reflusso pandemico, quando probabilmen-te ci sarebbero state le condizioni per un confronto parlamentare. Lo stesso si è realizzato a livello decen-trato in cui i Presidenti delle Regioni, forse prendendo troppo sul serio la retorica giornalistica che li defini-sce erroneamente “governatori”, hanno personalizzato la gestione dell’emergenza andando talvolta in con-flitto con il Governo nazionale. Questa nuova consuetudine che centralizza e al contempo personalizza il decision making tende dunque a standardizzare uno stato di eccezionalità. Pur ammettendo che il Governo italiano si sia trovato a dover effettivamente fronteggiare una situazione inedita, non possiamo non problematizzare la propensione a svuotare il Parlamento della sua funzione legi-slativa e di rappresentanza che, come mostra la recente letteratura sui processi di depoliticizzazione (de Nardis 2017), è di gran lunga precedente l’emergenza pandemica e caratterizza una prassi che connota l’azione politica di molti Governi occidentali. La centralizzazione del processo decisionale attraverso la pra-tica del voto di fiducia o del Decreto, che di fatto azzerano la discussione in Parlamento, ha infatti caratte-rizzato le modalità di governo della cosa pubblica negli ultimi due decenni. L’emergenza pandemica ha so-lo radicalizzato una tendenza già in atto di concentrazione del potere e privazione sostanziale del Parlamen-to della sua funzione legislativa, spesso trasformandolo in un organo poco più che consultivo. Nella fattispecie italiana dell’emergenza pandemica, a seguito della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 Gennaio 2020 con cui è stato dichiarato lo «stato d’emergenza» per rischio sanitario, poi prorogato due volte, il 21 Luglio e il 7 Ottobre dello stesso anno, le cittadine e i cittadini sono stati sommersi da provvedimenti emergenziali (Decreti-legge, Dpcm, Ordinanze di Sindaci e Presidenti di Regione) orientati a una radicale privazione delle libertà individuali. La mancata parlamentarizzazione dell’emergenza è stata da più parti criticata soprattutto rispetto alla pratica del Dpcm. Se infatti i Decreti-legge presuppongono co-munque un breve passaggio parlamentare, le Delibere del Presidente del Consiglio dei Ministri sono invece completamente fuori dal controllo politico da parte delle Camere e da quello di legittimità da parte della Corte Costituzionale. La scelta di operare in questo modo ha quasi prefigurato una sorta di «normazione di guerra» tipica di uno «stato d’eccezione» (Covella 2020), avallata tra l’altro dai mass media che hanno spesso sviluppato un linguaggio paramilitare (si pensi alla richiesta di utilizzo delle forze armate per la ge-stione del lockdown, o alla retorica del «coprifuoco» per definire un banale blocco alla circolazione serale nei locali per evitare la diffusione del virus). Parziale limitazione delle libertà, centralizzazione e personalizzazione del potere politico sono dunque i tratti che connotano questa fase storica in cui la politica emergenziale sembra diventata un tratto endemico delle democrazie contemporanee, da tempo infiltrate da retoriche e mentalità autoritarie ben rappresentate dai nuovi populismi, ma anche dalla restrizione degli spazi di partecipazione. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, scriveva Carl Schmitt (1972). Di fronte alle emergenze, lo Stato di diritto arretra lascian-do il campo libero al vero sovrano, uomo solo al comando. Eppure, in democrazia, pur dentro una dimen-sione emergenziale, è sempre necessario trovare un equilibrio tra i poteri e integrare i diritti senza che uno prevalga in modo netto sugli altri. Infatti, al di là della fattispecie pandemica, le emergenze producono un potenziale trade-off tra i diritti, in cui il diritto alla sicurezza tende a prevalere rispetto agli altri (Badwin 2005). In questo caso, il diritto alla salute (sicurezza sanitaria) ha giocato giustamente un ruolo di sovra-ordinazione sugli altri diritti costituzionali che subito dopo la pandemia dovrebbero auspicabilmente essere riabilitati. Un’esigenza espressa anche dall’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Mi-chelle Bachelet, che ha fatto esplicito riferimento al rischio che l’emergenza sanitaria si tramuti «in una catastrofe per i diritti umani». Una riflessione sul senso delle politiche di emergenza è pertinente soprattutto in un’epoca in cui i pro-cessi di mondializzazione economica e gli effetti spesso catastrofici sull’ecosistema di un determinato mo-dello di sviluppo impongono ai governi democratici di gestire congiunture impreviste mettendo in atto pra-tiche reattive rispetto al riproporsi di congiunture critiche. Tali crisi assumono una funzione al contempo trasformativa e conservativa. Nella gestione dell’emergenza, da un lato, entrano in gioco nuovi attori, nuo-ve pratiche, nuove procedure che sovente si stabilizzano dentro una dimensione adattiva di resilienza socia-le e istituzionale; dall’altro, le nuove politiche emergenziali, in quanto resilienti, operano perlopiù per pro-teggere e riconfermare gli equilibri di potere preesistenti (Arienzo 2006). I Governi utilizzano le politiche d’urgenza anche per rafforzarsi attraverso l’uso e l’abuso di poteri non ordinari. Enfatizzano il momento esecutivo rispetto a quello legislativo, anche disincentivando e reprimendo le pratiche sociali di partecipa-zione politica. Ci si trova dunque di fronte alla situazione che, in tempi non sospetti, era stata ben identificata da Mi-chel Foucault attraverso la categoria teorica della «governamentalità» intesa come una «forma molto speci-fica, sebbene molto complessa di potere, che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza» (Foucault 1994, 65). Nella logica dei governi neoliberali si attribuisce un ruolo dirimente al nesso tra sicurezza e libertà. L’assoluta libertà necessaria al dispiegarsi di una certa political economy determina incertezze, rischi, emergenze cicli-che date dalla fragilità sistemica del modo capitalistico di produzione e accumulazione della ricchezza. Tale imprevedibilità genera paura e ansietà sociale che sono diventati i due sentimenti su cui si si articola la di-mensione della dialettica politica e della legittimazione del potere nelle società contemporanee, favorendo l’attivazione di procedure di controllo e coercizione che agiscono come una sorta di contropartita della li-bertà (Foucault 2001). Per questa ragione, il nesso emergenza/eccezione appare pertinente in un paper foca-lizzato su violenza e politica d’emergenza. La paura del non previsto (e in genere del migrante, del terrorista, del criminale) e la conseguente milita-rizzazione diventano due aspetti importanti della politica nell’epoca delle emergenze e della depoliticizza-zione dei processi di governo (Ahmed 2003; Booth and Wheeler 2009; Papandreou 2013; Wodack 2015). L’emergenza genera centralizzazione del potere e forte militarizzazione, perché le forze dell’ordine diven-tano i garanti della sicurezza di fronte alla minaccia (Sheppele 2010, 133-34). Vengono imposte forti restri-zioni alla libertà di movimento, ma anche di partecipazione e protesta, aumentando la sorveglianza e la vio-lenza anticipatoria nei confronti di chi opta per forme di partecipazione non istituzionale. Decidiamo di non trattare in questa sede tutti i casi di violenza in cui la relazione tra società e istituzioni è in qualche modo coinvolta. Ci dedicheremo essenzialmente alla violenza politica, sia quando è esercitata dalle istitu-zioni, sia quando è orientata contro l’ordine costituito.

Violenza e terrorismo. Potere e contro-poteri in epoca emergenziale

Fabio de Nardis
2021-01-01

Abstract

Introduzione Pandemie, default economici, calamità naturali, guerre, atti di terrorismo, sembrano ormai la cifra delle società contemporanee, imponendo ai Governi democratici di agire con velocità per fare fronte alle emergenze. La «necessità» diviene il principio ordinatore della politica e le decisioni vengono prese «in fretta» (White 2020, 22). Questo ci spinge a riflettere sulle modalità con cui, in questo periodo storico, e al netto delle congiunture emergenziali, vengono assunte le decisioni socialmente vincolanti nelle democrazie con-temporanee. La premessa è che in democrazia la politica è formalmente sovrana e può assumere decisioni che siano il prodotto di accordi presi in Parlamento o con il Parlamento. Tale sovranità non implica però onnipotenza, nel senso che ogni decisione va assunta nell’ambito delle compatibilità costituzionali che de-lineano l’inviolabilità formale e sostanziale dei diritti individuali. L’emergenza pandemica ha portato i Go-verni ad assumere decisioni che andavano direttamente a restringere gli spazi di libertà connessi ad alcuni diritti fondamentali – come quelli alla mobilità, alla riunione, al lavoro, al tempo libero, alle relazioni socia-li – tanto da poter ravvisare, in taluni casi, una potenziale confusione tra «stato d’emergenza» e «stato d’eccezione» che ci porta quantomeno a problematizzare la reale fonte dei poteri emergenziali riconosciuti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non discutiamo qui il merito di certi provvedimenti, quanto piuttosto le modalità con cui vengo adottati. Quando parliamo di stato d’emergenza ci riferiamo a quelle congiunture in cui i Governi possono mette-re in pratica comportamenti che velocizzino il processo decisionale per fare fronte a eventi imprevisti che impongano un immediato intervento amministrativo. Si tratta perlopiù di provvedimenti tecnici che non inficiano la tenuta democratica del sistema, rispondendo piuttosto a un bisogno congiunturale di immedia-tezza dell’intervento pubblico. Lo «stato d’eccezione» prevede al contrario una momentanea sospensione dell’ordinamento giuridico, sovvertendo i parametri di gestione del potere previsti nello Stato di diritto. I poteri eccezionali spaccano le procedure e i meccanismi di governo diventano sempre più informali e poli-ticamente irresponsabili (ibid., 21). Tutti gli ordinamenti democratici contemplano questa possibilità da applicarsi però in casi limite, come una guerra o in situazioni di disordine pubblico che possano di per sé generare un sovvertimento dell’ordine costituito. Eppure, sono diverse le interpretazioni in cui si constata da tempo come nelle democrazie occidentali post ’89 si sia realizzato una sorta di «stato d’eccezione» per-manente destinato a svuotare progressivamente gli spazi e i significati della politica democratica (Agamben 2003). Sembrano prevalere, anche nell’esercizio di governo, le cosiddette «tecniche sostitutive», cioè tutti quei dispositivi giuridici che provvedono alla gestione delle emergenze attraverso tecnicalità non ordinarie che assumono però nel tempo i tratti dell’ordinarietà. Tali procedure si concretizzano in «poteri d’emergenza esecutivi», che non sono il frutto di una delega da parte dei Parlamenti, e che Clinton Rossi-ter ben distingueva dai cosiddetti «poteri d’emergenza legislativi», che sono invece attribuiti all’esecutivo attraverso una legislazione specifica (Rossiter 1963, 290). Sotto molti aspetti, l’impressione è che l’emergenza pandemica abbia determinato, nelle pratiche, una sostanziale indistinzione tra i concetti socio-giuridici di «emergenza» ed «eccezione». La paura del conta-gio, oltre a una retorica mediatica (e politica) che spesso ha assimilato la lotta al Covid-19 a una vera e pro-pria guerra, ha fatto sì che l’esigenza di adottare provvedimenti emergenziali si sia tradotta in veri e propri «poteri speciali» accordati alla Presidenza del Consiglio. Il Governo ha concentrato su di sé il potere d’intervento, mantenendo la pratica del Dpcm anche nei mesi di reflusso pandemico, quando probabilmen-te ci sarebbero state le condizioni per un confronto parlamentare. Lo stesso si è realizzato a livello decen-trato in cui i Presidenti delle Regioni, forse prendendo troppo sul serio la retorica giornalistica che li defini-sce erroneamente “governatori”, hanno personalizzato la gestione dell’emergenza andando talvolta in con-flitto con il Governo nazionale. Questa nuova consuetudine che centralizza e al contempo personalizza il decision making tende dunque a standardizzare uno stato di eccezionalità. Pur ammettendo che il Governo italiano si sia trovato a dover effettivamente fronteggiare una situazione inedita, non possiamo non problematizzare la propensione a svuotare il Parlamento della sua funzione legi-slativa e di rappresentanza che, come mostra la recente letteratura sui processi di depoliticizzazione (de Nardis 2017), è di gran lunga precedente l’emergenza pandemica e caratterizza una prassi che connota l’azione politica di molti Governi occidentali. La centralizzazione del processo decisionale attraverso la pra-tica del voto di fiducia o del Decreto, che di fatto azzerano la discussione in Parlamento, ha infatti caratte-rizzato le modalità di governo della cosa pubblica negli ultimi due decenni. L’emergenza pandemica ha so-lo radicalizzato una tendenza già in atto di concentrazione del potere e privazione sostanziale del Parlamen-to della sua funzione legislativa, spesso trasformandolo in un organo poco più che consultivo. Nella fattispecie italiana dell’emergenza pandemica, a seguito della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 Gennaio 2020 con cui è stato dichiarato lo «stato d’emergenza» per rischio sanitario, poi prorogato due volte, il 21 Luglio e il 7 Ottobre dello stesso anno, le cittadine e i cittadini sono stati sommersi da provvedimenti emergenziali (Decreti-legge, Dpcm, Ordinanze di Sindaci e Presidenti di Regione) orientati a una radicale privazione delle libertà individuali. La mancata parlamentarizzazione dell’emergenza è stata da più parti criticata soprattutto rispetto alla pratica del Dpcm. Se infatti i Decreti-legge presuppongono co-munque un breve passaggio parlamentare, le Delibere del Presidente del Consiglio dei Ministri sono invece completamente fuori dal controllo politico da parte delle Camere e da quello di legittimità da parte della Corte Costituzionale. La scelta di operare in questo modo ha quasi prefigurato una sorta di «normazione di guerra» tipica di uno «stato d’eccezione» (Covella 2020), avallata tra l’altro dai mass media che hanno spesso sviluppato un linguaggio paramilitare (si pensi alla richiesta di utilizzo delle forze armate per la ge-stione del lockdown, o alla retorica del «coprifuoco» per definire un banale blocco alla circolazione serale nei locali per evitare la diffusione del virus). Parziale limitazione delle libertà, centralizzazione e personalizzazione del potere politico sono dunque i tratti che connotano questa fase storica in cui la politica emergenziale sembra diventata un tratto endemico delle democrazie contemporanee, da tempo infiltrate da retoriche e mentalità autoritarie ben rappresentate dai nuovi populismi, ma anche dalla restrizione degli spazi di partecipazione. Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, scriveva Carl Schmitt (1972). Di fronte alle emergenze, lo Stato di diritto arretra lascian-do il campo libero al vero sovrano, uomo solo al comando. Eppure, in democrazia, pur dentro una dimen-sione emergenziale, è sempre necessario trovare un equilibrio tra i poteri e integrare i diritti senza che uno prevalga in modo netto sugli altri. Infatti, al di là della fattispecie pandemica, le emergenze producono un potenziale trade-off tra i diritti, in cui il diritto alla sicurezza tende a prevalere rispetto agli altri (Badwin 2005). In questo caso, il diritto alla salute (sicurezza sanitaria) ha giocato giustamente un ruolo di sovra-ordinazione sugli altri diritti costituzionali che subito dopo la pandemia dovrebbero auspicabilmente essere riabilitati. Un’esigenza espressa anche dall’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Mi-chelle Bachelet, che ha fatto esplicito riferimento al rischio che l’emergenza sanitaria si tramuti «in una catastrofe per i diritti umani». Una riflessione sul senso delle politiche di emergenza è pertinente soprattutto in un’epoca in cui i pro-cessi di mondializzazione economica e gli effetti spesso catastrofici sull’ecosistema di un determinato mo-dello di sviluppo impongono ai governi democratici di gestire congiunture impreviste mettendo in atto pra-tiche reattive rispetto al riproporsi di congiunture critiche. Tali crisi assumono una funzione al contempo trasformativa e conservativa. Nella gestione dell’emergenza, da un lato, entrano in gioco nuovi attori, nuo-ve pratiche, nuove procedure che sovente si stabilizzano dentro una dimensione adattiva di resilienza socia-le e istituzionale; dall’altro, le nuove politiche emergenziali, in quanto resilienti, operano perlopiù per pro-teggere e riconfermare gli equilibri di potere preesistenti (Arienzo 2006). I Governi utilizzano le politiche d’urgenza anche per rafforzarsi attraverso l’uso e l’abuso di poteri non ordinari. Enfatizzano il momento esecutivo rispetto a quello legislativo, anche disincentivando e reprimendo le pratiche sociali di partecipa-zione politica. Ci si trova dunque di fronte alla situazione che, in tempi non sospetti, era stata ben identificata da Mi-chel Foucault attraverso la categoria teorica della «governamentalità» intesa come una «forma molto speci-fica, sebbene molto complessa di potere, che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza» (Foucault 1994, 65). Nella logica dei governi neoliberali si attribuisce un ruolo dirimente al nesso tra sicurezza e libertà. L’assoluta libertà necessaria al dispiegarsi di una certa political economy determina incertezze, rischi, emergenze cicli-che date dalla fragilità sistemica del modo capitalistico di produzione e accumulazione della ricchezza. Tale imprevedibilità genera paura e ansietà sociale che sono diventati i due sentimenti su cui si si articola la di-mensione della dialettica politica e della legittimazione del potere nelle società contemporanee, favorendo l’attivazione di procedure di controllo e coercizione che agiscono come una sorta di contropartita della li-bertà (Foucault 2001). Per questa ragione, il nesso emergenza/eccezione appare pertinente in un paper foca-lizzato su violenza e politica d’emergenza. La paura del non previsto (e in genere del migrante, del terrorista, del criminale) e la conseguente milita-rizzazione diventano due aspetti importanti della politica nell’epoca delle emergenze e della depoliticizza-zione dei processi di governo (Ahmed 2003; Booth and Wheeler 2009; Papandreou 2013; Wodack 2015). L’emergenza genera centralizzazione del potere e forte militarizzazione, perché le forze dell’ordine diven-tano i garanti della sicurezza di fronte alla minaccia (Sheppele 2010, 133-34). Vengono imposte forti restri-zioni alla libertà di movimento, ma anche di partecipazione e protesta, aumentando la sorveglianza e la vio-lenza anticipatoria nei confronti di chi opta per forme di partecipazione non istituzionale. Decidiamo di non trattare in questa sede tutti i casi di violenza in cui la relazione tra società e istituzioni è in qualche modo coinvolta. Ci dedicheremo essenzialmente alla violenza politica, sia quando è esercitata dalle istitu-zioni, sia quando è orientata contro l’ordine costituito.
2021
9788864580678
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11369/399297
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