La l. 23 giugno 2017, n. 103, pone numerosi interrogativi in ordine alla tenuta delle garanzie fondamentali della giurisdizione, ed in particolare del diritto di difesa, costituzionalmente garantito con una formula che lo connota in termini di “sacralità” sancendone l’inviolabilità «in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24, comma 2, Cost.). Vi è un fil rouge che ne costituisce la cifra unificante a prima vista più tangibile. Non si tratta di un’esaltazione della “virtù del dubbio” fine a sé stessa, o peggio di una vacua ostentazione di formule barocche. Piuttosto, l’espressione delle perplessità indotte dalla novella legislativa. Una legge a trecentosessanta gradi, che incide su molteplici istituti del processo penale, ma che non per questo manifesta segni di “ravvedimento” da parte di un legislatore sempre più avvezzo a procedere “in ordine sparso” – secondo una linea di tendenza ormai consolidata – negli interventi di make up normativo, elaborati sovente in maniera frammentaria e disorganica e troppo spesso privi di coerenza interna e ancor di più di compattezza sistematica. Quasi una legislazione compulsiva, espressione di una bulimia normativa di difficile inquadramento. Eppure, la legislazione processualpenalistica avrebbe piuttosto bisogno oggi di stabilità, una stabilità propedeutica al suo consolidamento e alla metabolizzazione da parte degli operatori. Di un periodo, insomma, di decantazione. Continua – viceversa – ad essere una normativa in progress, nell’errata ed epidermica convinzione dei conditores che i reiterati mutamenti legislativi possano – quasi magicamente – risollevarne prontamente le sorti. La disciplina contenuta nel d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, è stata così archiviata (raro esempio di provvedimento legislativo ripetutamente “congelato” e mai entrato in vigore). Senza per questo essere sostituita da una normativa in grado di dissipare le criticità della regolamentazione pregressa. È giunto il tempo, allora, di tirare le fila rispetto ad una riforma al contempo controversa e dilatata nel tempo, guardando simultaneamente al “nuovo corso” della giustizia penale inaugurato – dapprima timidamente e poi in maniera più consistente – nel primo segmento della XVIII legislatura. Sulla base, peraltro, di pochi e periferici interventi del governo gialloverde che hanno solo lambito il tessuto normativo e i suoi pilastri, irrobustiti poi dall’azione del governo giallorosso (al momento, come detto, caratterizzata più da annunci che da azioni) fino all’ultimo intervento straordinario imposto dall’emergenza Covid-19. Ma, soprattutto, tenendo conto delle intenzioni manifestate. dall’esecutivo Conte I nella bozza di disegno di legge delega articolata in una trentina di punti di intervento e licenziata dal governo nel marzo 2018, poi sfociata nel luglio successivo in un impianto a prima vista più consolidato ma approvato dal Consiglio dei ministri con l’inedita formula “salvo intese” che maschera – neanche più di tanto – le distanze abissali esistenti tra le forze a sostegno della compagine di governo il cui operato si è precocemente concluso nell'agosto 2019. Il primo afflato normativo costituiva semplicemente una bozza – anzi una bozza iniziale, come recita l’intestazione del provvedimento in fieri – che in quanto tale suggeriva prudenza, consigliava esclusivamente considerazioni di carattere generale, destinate magari – com’è poi avvenuto – ad essere smentite (a pochi mesi di distanza) nel successivo iter legislativo da repentini e inattesi mutamenti di rotta. Scenari magmatici, espressione di una divergenza insanabile tra le forze politiche di maggioranza, oltreché condizionati dalla sopravvenienza di temi sensibili com’è accaduto con riferimento alle regole che disciplinano l’elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura (pur se concernenti l’ambito ordinamentale) a seguito di uno scandalo senza precedenti che ha colpito alcuni suoi componenti. Quel che è importante – però – è coglierne gli input, le ispirazioni sistematiche (sempre se e quando ve ne siano), per provare a delineare gli scenari futuri della giustizia penale in Italia. Asse intorno al quale ruota l’ipotizzata riforma presentata dal guardasigilli Alfonso Bonafede è la riduzione dei tempi processuali, croce e delizia del nostro sistema processuale. Punto su cui si innesta il secondo step dell’iter della XVIII legislatura, impropriamente saldato con la controversa riforma della prescrizione. La versione originaria del codice 1988 e l’assetto attuale costituiscono ormai quasi due rette parallele, due entità isolate e separate da un solco profondo e difficilmente colmabile. Un codice snaturato, che fa fatica a riconoscersi.

Cronaca di una riforma (troppo) a lungo annunciata

sergio lorusso
2020-01-01

Abstract

La l. 23 giugno 2017, n. 103, pone numerosi interrogativi in ordine alla tenuta delle garanzie fondamentali della giurisdizione, ed in particolare del diritto di difesa, costituzionalmente garantito con una formula che lo connota in termini di “sacralità” sancendone l’inviolabilità «in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24, comma 2, Cost.). Vi è un fil rouge che ne costituisce la cifra unificante a prima vista più tangibile. Non si tratta di un’esaltazione della “virtù del dubbio” fine a sé stessa, o peggio di una vacua ostentazione di formule barocche. Piuttosto, l’espressione delle perplessità indotte dalla novella legislativa. Una legge a trecentosessanta gradi, che incide su molteplici istituti del processo penale, ma che non per questo manifesta segni di “ravvedimento” da parte di un legislatore sempre più avvezzo a procedere “in ordine sparso” – secondo una linea di tendenza ormai consolidata – negli interventi di make up normativo, elaborati sovente in maniera frammentaria e disorganica e troppo spesso privi di coerenza interna e ancor di più di compattezza sistematica. Quasi una legislazione compulsiva, espressione di una bulimia normativa di difficile inquadramento. Eppure, la legislazione processualpenalistica avrebbe piuttosto bisogno oggi di stabilità, una stabilità propedeutica al suo consolidamento e alla metabolizzazione da parte degli operatori. Di un periodo, insomma, di decantazione. Continua – viceversa – ad essere una normativa in progress, nell’errata ed epidermica convinzione dei conditores che i reiterati mutamenti legislativi possano – quasi magicamente – risollevarne prontamente le sorti. La disciplina contenuta nel d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, è stata così archiviata (raro esempio di provvedimento legislativo ripetutamente “congelato” e mai entrato in vigore). Senza per questo essere sostituita da una normativa in grado di dissipare le criticità della regolamentazione pregressa. È giunto il tempo, allora, di tirare le fila rispetto ad una riforma al contempo controversa e dilatata nel tempo, guardando simultaneamente al “nuovo corso” della giustizia penale inaugurato – dapprima timidamente e poi in maniera più consistente – nel primo segmento della XVIII legislatura. Sulla base, peraltro, di pochi e periferici interventi del governo gialloverde che hanno solo lambito il tessuto normativo e i suoi pilastri, irrobustiti poi dall’azione del governo giallorosso (al momento, come detto, caratterizzata più da annunci che da azioni) fino all’ultimo intervento straordinario imposto dall’emergenza Covid-19. Ma, soprattutto, tenendo conto delle intenzioni manifestate. dall’esecutivo Conte I nella bozza di disegno di legge delega articolata in una trentina di punti di intervento e licenziata dal governo nel marzo 2018, poi sfociata nel luglio successivo in un impianto a prima vista più consolidato ma approvato dal Consiglio dei ministri con l’inedita formula “salvo intese” che maschera – neanche più di tanto – le distanze abissali esistenti tra le forze a sostegno della compagine di governo il cui operato si è precocemente concluso nell'agosto 2019. Il primo afflato normativo costituiva semplicemente una bozza – anzi una bozza iniziale, come recita l’intestazione del provvedimento in fieri – che in quanto tale suggeriva prudenza, consigliava esclusivamente considerazioni di carattere generale, destinate magari – com’è poi avvenuto – ad essere smentite (a pochi mesi di distanza) nel successivo iter legislativo da repentini e inattesi mutamenti di rotta. Scenari magmatici, espressione di una divergenza insanabile tra le forze politiche di maggioranza, oltreché condizionati dalla sopravvenienza di temi sensibili com’è accaduto con riferimento alle regole che disciplinano l’elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura (pur se concernenti l’ambito ordinamentale) a seguito di uno scandalo senza precedenti che ha colpito alcuni suoi componenti. Quel che è importante – però – è coglierne gli input, le ispirazioni sistematiche (sempre se e quando ve ne siano), per provare a delineare gli scenari futuri della giustizia penale in Italia. Asse intorno al quale ruota l’ipotizzata riforma presentata dal guardasigilli Alfonso Bonafede è la riduzione dei tempi processuali, croce e delizia del nostro sistema processuale. Punto su cui si innesta il secondo step dell’iter della XVIII legislatura, impropriamente saldato con la controversa riforma della prescrizione. La versione originaria del codice 1988 e l’assetto attuale costituiscono ormai quasi due rette parallele, due entità isolate e separate da un solco profondo e difficilmente colmabile. Un codice snaturato, che fa fatica a riconoscersi.
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