Introduzione Quando Marco e Giovanni mi hanno chiesto di scrivere un contributo per un libro in omaggio a Roberto Segatori, mi sono sentito onorato e lusingato. Ho provato quasi una esigenza di restituzione verso uno studioso che ha saputo sempre coniugare rigore scientifico, passione intellettuale, ma soprattutto affetto e sostegno morale per gli studiosi più giovani. Una dote non comune in un sistema universitario che spesso castra i moti di entusiasmo giovanili costringendoli dentro un presunto galateo accademico attraverso cui la passione etica e lo spirito di iniziativa (e di autonomia) sono sovente letti come manifestazione di arroganza. Roberto non è così. Ha sempre sostenuto ogni iniziativa proposta o messa in atto da giovani studiosi, anche dal sottoscritto (ormai non più così giovane). Ricordo come, ad ogni convegno, fin da quando ero solo un giovanissimo dottorando, le conversazioni con Roberto rappresentassero per me una boccata di ossigeno e una carica di entusiasmo in cui le mie velleità organizzative ed editoriali trovavano legittimazione. Per questo ho accettato di buon grado di scrivere questo contributo. Mi è stato inizialmente assegnato un capitolo sul macro-frame dei Social Movements. Ma io credo che un articolo debba essere anche un esercizio di dialogo con lo studioso in omaggio al quale il contributo stesso è pensato e scritto. Roberto nella sua lunga carriera si è occupato di potere, di classe politica, di politica locale, di multiculturalismo, ma mai specificatamente di movimenti sociali. Scelgo quindi di stiracchiare un po’ il tema assegnato connettendo il tema dei movimenti a quello dei partiti usando categorie provenienti sia dai social movement studies sia dai party studies. Allo stesso tempo cerco di connettere questi due discorsi al concetto di populismo di cui Roberto ha scritto (Segatori 2013). Ricordo come in una sua lectio magistralis sul tema presso la Università del Salento, dove lo avevamo invitato proprio a parlare di populismo, egli abbia impostato il discorso sia da un punto di vista storico che da un punto di vista sociologico-politico. Alla base della sua argomentazione vi era l’idea che non vi potesse essere fenomeno populista senza una società populista (espressione mia). Il concetto di “società populista” è connesso al tema dell’anti-politica, così come il concetto di anti-politica è connesso a una qualche forma di “crisi sociale”. Ecco: non si può comprendere empiricamente il populismo senza fare riferimento al concetto multidimensionale di crisi (sociale, politica, culturale, economica). Inoltre, riprendendo uno sforzo già intrapreso in altra sede (Anselmi e de Nardis 2018), scegliamo di collegare l’anti-politica (e quindi il populismo), al fenomeno della depoliticizzazione, intesa come la modalità attraverso cui il neoliberismo incide sui processi decisionali pubblici. In breve, per non tornarci in seguito, intendiamo per depoliticizzazione il processo attraverso il quale il decision-making viene di fatto spogliato del suo carattere eminentemente politico (Burnham 2001; 2017; d’Albergo, Moini 2017; de Nardis 2017; Foster et al.. 2014; Hay 2014; Flinders, Wood 2014; Fawcett, Marsh 2014). Gli attori politici sono così meno responsabili delle scelte che influiscono sulla regolazione della società. I processi economici e culturali acquisiscono i caratteri della necessità o addirittura della inevitabilità. La depoliticizzazione si afferma in vari modi. Nel contesto europeo, per esempio, sono in particolare osservabili una depoliticizzazione «governativa», una «discorsiva» e una «sociale» (Hay 2007). La depoliticizzazione governativa ha di per sé diverse facce connesse alla dimensione della polity (Jessop 2014) e ai rapporti fra government e governance. Essa consiste nello spostamento della competenza decisionale da arene o cariche elettive a sedi esterne ai luoghi della rappresentanza e, per questo, proposte come neutrali (Flinders 2008): banche centrali, autorità regolative indipendenti, agenzie di vario tipo (Burnham 1999; Hay 2007; Kettel 2008), aziende di servizio pubblico privatizzate (Flinders, Bullers 2006a/b). Questi slittamenti definiscono la depoliticiz¬¬za¬zione come uno degli effetti della meta-gover¬nan¬ce, che ri-regola la governance (Jessop 2011; Fawcett, Marsh 2014). Un altro spostamento di poteri, attuato attraverso decisioni di governi e parlamenti nazionali, avvantaggia attori di scala superiore, come gli organi (intergovernativi) e le procedure dell’Unione europea (es: Fiscal Compact) e della c.d. troika (Consiglio Europeo, Commissione Europea e Banca Europea), e produce varie forme di compliance nei confronti di accordi e norme internazionali, il cui enforcement è rimesso ad attori e strumenti tecnici che impongono modelli normativi di Good Governance. Tutti questi spostamenti concentrano poteri al di fuori della politica statale e sollecitano anche una de-responsabilizzazione degli attori politici che li subiscono (Burnham 2001; Kettel 2008; Wood, Flinders 2014). Un'altra faccia della depoliticizzazione governativa è l’adozione di meta-decisioni che rendono impossibile prenderne altre in seguito, legando le mani ai decisori politici (Flinders, Buller 2006a), come per esempio la costituzionalizzazione dell’obbligo del pareggio di bilancio che depoliticizza la politica economica nazionale, il cui compito si riduce a monitorare e aggiustare la rotta con misure che ricadono dentro standard prefissati. Della depoliticizzazione governativa è parte importante anche la tecniciz¬zazione dei processi, con l’affidamento di effetti regolativi e di allocazione di risorse a tecnologie di valutazione (de Leonardis 2013; Giancola 2015), o a procedure tecnicizzate di supporto alla scelta politica che ren¬do¬no le scelte evidence-based e al riparo da ideologie e pressioni sociali, come l’Analisi di Impatto della Regolazione, obbli¬gatoria in Italia per ogni legge, o la data driven decision, basata sull’idea che chi prende decisioni in ambito pubblico non può ignorare il movimento [data driven innovation] che si sta svi¬luppando nel settore commerciale (Bove 2014). La “tecnica”, falsamente presentata come neutrale, diventa la nuova filosofia neoliberale e i “tecnici” ne diventano i protagonisti, talvolta chiamati a svolgere direttamente funzioni di “politica depoliticizzata”, come nei governi di unità nazionale legittimati in nome di emergenze ed eccezionalità, per i quali non contano la rappresentanza e il consenso, ma le competenze professionali e l’affi¬da¬bilità per i mercati e le istituzioni sovra-nazionali. La depoliticizzazione discorsiva ha invece come esito la convergenza delle preferenze (Flinders, Buller 2006a) verso un’unica costruzione cognitiva della realtà (frame per le azioni pubbliche). Non a caso il paradigma prevalente nella political economy di tipo liberista è stato narrato sotto forma di “pensiero unico” [There is no alternative] manifestando una chiara egemonia culturale del capitalismo trans-nazionalizzato e finanziarizzato. Soprattutto in Europa, l’appannarsi delle differenziazioni valoriali e programmatiche fra destra e sinistra è una evidenza di questo tipo di depoliticizzazione. La convergenza ideologica è inoltre aiutata dalla comunicazione di immaginari e knowledge brand dotati di grande valenza (influenza di stati emotivi pre-razionali che coinvolgono individui, decisori politici e comunità epistemiche sull’accettazione o il rifiuto di un’idea relativa a una policy) e seduttività, ossia una specifica forza normativa che si esercita nell’indicare a che cosa e come aspirare (Jessop 2009; Sum, Jessop 2013). Si tratta di forme di comunicazione e costruzione di significati basate su appelli o slogan (Wood 2015) che rimandano a un presunto (buon) senso comune intriso di valori morali. Il consenso viene così mobilitato attorno ad assunti la cui accettabilità sociale non può essere messa in discussione e che quindi legittimano paradigmi indiscutibili. Questo è il contesto istituzionale dentro cui in occidente si riconfigurano i regimi in chiave post-democratica, facilitando una distanza tra élites e masse che produce disagio, scontento e tentativi di ri-politicizzazione in salsa populista.

“Movimenti sociali e partiti ibridi, tra depoliticizzazione, anti-politica e populismo”

Fabio de Nardis
2020-01-01

Abstract

Introduzione Quando Marco e Giovanni mi hanno chiesto di scrivere un contributo per un libro in omaggio a Roberto Segatori, mi sono sentito onorato e lusingato. Ho provato quasi una esigenza di restituzione verso uno studioso che ha saputo sempre coniugare rigore scientifico, passione intellettuale, ma soprattutto affetto e sostegno morale per gli studiosi più giovani. Una dote non comune in un sistema universitario che spesso castra i moti di entusiasmo giovanili costringendoli dentro un presunto galateo accademico attraverso cui la passione etica e lo spirito di iniziativa (e di autonomia) sono sovente letti come manifestazione di arroganza. Roberto non è così. Ha sempre sostenuto ogni iniziativa proposta o messa in atto da giovani studiosi, anche dal sottoscritto (ormai non più così giovane). Ricordo come, ad ogni convegno, fin da quando ero solo un giovanissimo dottorando, le conversazioni con Roberto rappresentassero per me una boccata di ossigeno e una carica di entusiasmo in cui le mie velleità organizzative ed editoriali trovavano legittimazione. Per questo ho accettato di buon grado di scrivere questo contributo. Mi è stato inizialmente assegnato un capitolo sul macro-frame dei Social Movements. Ma io credo che un articolo debba essere anche un esercizio di dialogo con lo studioso in omaggio al quale il contributo stesso è pensato e scritto. Roberto nella sua lunga carriera si è occupato di potere, di classe politica, di politica locale, di multiculturalismo, ma mai specificatamente di movimenti sociali. Scelgo quindi di stiracchiare un po’ il tema assegnato connettendo il tema dei movimenti a quello dei partiti usando categorie provenienti sia dai social movement studies sia dai party studies. Allo stesso tempo cerco di connettere questi due discorsi al concetto di populismo di cui Roberto ha scritto (Segatori 2013). Ricordo come in una sua lectio magistralis sul tema presso la Università del Salento, dove lo avevamo invitato proprio a parlare di populismo, egli abbia impostato il discorso sia da un punto di vista storico che da un punto di vista sociologico-politico. Alla base della sua argomentazione vi era l’idea che non vi potesse essere fenomeno populista senza una società populista (espressione mia). Il concetto di “società populista” è connesso al tema dell’anti-politica, così come il concetto di anti-politica è connesso a una qualche forma di “crisi sociale”. Ecco: non si può comprendere empiricamente il populismo senza fare riferimento al concetto multidimensionale di crisi (sociale, politica, culturale, economica). Inoltre, riprendendo uno sforzo già intrapreso in altra sede (Anselmi e de Nardis 2018), scegliamo di collegare l’anti-politica (e quindi il populismo), al fenomeno della depoliticizzazione, intesa come la modalità attraverso cui il neoliberismo incide sui processi decisionali pubblici. In breve, per non tornarci in seguito, intendiamo per depoliticizzazione il processo attraverso il quale il decision-making viene di fatto spogliato del suo carattere eminentemente politico (Burnham 2001; 2017; d’Albergo, Moini 2017; de Nardis 2017; Foster et al.. 2014; Hay 2014; Flinders, Wood 2014; Fawcett, Marsh 2014). Gli attori politici sono così meno responsabili delle scelte che influiscono sulla regolazione della società. I processi economici e culturali acquisiscono i caratteri della necessità o addirittura della inevitabilità. La depoliticizzazione si afferma in vari modi. Nel contesto europeo, per esempio, sono in particolare osservabili una depoliticizzazione «governativa», una «discorsiva» e una «sociale» (Hay 2007). La depoliticizzazione governativa ha di per sé diverse facce connesse alla dimensione della polity (Jessop 2014) e ai rapporti fra government e governance. Essa consiste nello spostamento della competenza decisionale da arene o cariche elettive a sedi esterne ai luoghi della rappresentanza e, per questo, proposte come neutrali (Flinders 2008): banche centrali, autorità regolative indipendenti, agenzie di vario tipo (Burnham 1999; Hay 2007; Kettel 2008), aziende di servizio pubblico privatizzate (Flinders, Bullers 2006a/b). Questi slittamenti definiscono la depoliticiz¬¬za¬zione come uno degli effetti della meta-gover¬nan¬ce, che ri-regola la governance (Jessop 2011; Fawcett, Marsh 2014). Un altro spostamento di poteri, attuato attraverso decisioni di governi e parlamenti nazionali, avvantaggia attori di scala superiore, come gli organi (intergovernativi) e le procedure dell’Unione europea (es: Fiscal Compact) e della c.d. troika (Consiglio Europeo, Commissione Europea e Banca Europea), e produce varie forme di compliance nei confronti di accordi e norme internazionali, il cui enforcement è rimesso ad attori e strumenti tecnici che impongono modelli normativi di Good Governance. Tutti questi spostamenti concentrano poteri al di fuori della politica statale e sollecitano anche una de-responsabilizzazione degli attori politici che li subiscono (Burnham 2001; Kettel 2008; Wood, Flinders 2014). Un'altra faccia della depoliticizzazione governativa è l’adozione di meta-decisioni che rendono impossibile prenderne altre in seguito, legando le mani ai decisori politici (Flinders, Buller 2006a), come per esempio la costituzionalizzazione dell’obbligo del pareggio di bilancio che depoliticizza la politica economica nazionale, il cui compito si riduce a monitorare e aggiustare la rotta con misure che ricadono dentro standard prefissati. Della depoliticizzazione governativa è parte importante anche la tecniciz¬zazione dei processi, con l’affidamento di effetti regolativi e di allocazione di risorse a tecnologie di valutazione (de Leonardis 2013; Giancola 2015), o a procedure tecnicizzate di supporto alla scelta politica che ren¬do¬no le scelte evidence-based e al riparo da ideologie e pressioni sociali, come l’Analisi di Impatto della Regolazione, obbli¬gatoria in Italia per ogni legge, o la data driven decision, basata sull’idea che chi prende decisioni in ambito pubblico non può ignorare il movimento [data driven innovation] che si sta svi¬luppando nel settore commerciale (Bove 2014). La “tecnica”, falsamente presentata come neutrale, diventa la nuova filosofia neoliberale e i “tecnici” ne diventano i protagonisti, talvolta chiamati a svolgere direttamente funzioni di “politica depoliticizzata”, come nei governi di unità nazionale legittimati in nome di emergenze ed eccezionalità, per i quali non contano la rappresentanza e il consenso, ma le competenze professionali e l’affi¬da¬bilità per i mercati e le istituzioni sovra-nazionali. La depoliticizzazione discorsiva ha invece come esito la convergenza delle preferenze (Flinders, Buller 2006a) verso un’unica costruzione cognitiva della realtà (frame per le azioni pubbliche). Non a caso il paradigma prevalente nella political economy di tipo liberista è stato narrato sotto forma di “pensiero unico” [There is no alternative] manifestando una chiara egemonia culturale del capitalismo trans-nazionalizzato e finanziarizzato. Soprattutto in Europa, l’appannarsi delle differenziazioni valoriali e programmatiche fra destra e sinistra è una evidenza di questo tipo di depoliticizzazione. La convergenza ideologica è inoltre aiutata dalla comunicazione di immaginari e knowledge brand dotati di grande valenza (influenza di stati emotivi pre-razionali che coinvolgono individui, decisori politici e comunità epistemiche sull’accettazione o il rifiuto di un’idea relativa a una policy) e seduttività, ossia una specifica forza normativa che si esercita nell’indicare a che cosa e come aspirare (Jessop 2009; Sum, Jessop 2013). Si tratta di forme di comunicazione e costruzione di significati basate su appelli o slogan (Wood 2015) che rimandano a un presunto (buon) senso comune intriso di valori morali. Il consenso viene così mobilitato attorno ad assunti la cui accettabilità sociale non può essere messa in discussione e che quindi legittimano paradigmi indiscutibili. Questo è il contesto istituzionale dentro cui in occidente si riconfigurano i regimi in chiave post-democratica, facilitando una distanza tra élites e masse che produce disagio, scontento e tentativi di ri-politicizzazione in salsa populista.
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