L’analisi della produzione e della circolazione delle ceramiche nella fascia meridionale dell’attuale Umbria in età tardoantica e altomedievale è un’acquisizione relativamente recente. Le indagini di ricognizione e scavo condotte a partire dagli anni Ottanta, relative agli insediamenti posti nei pressi dei grandi centri abitati e lungo le principali vie di comunicazione fluviale (alto Tevere, Nera) e terrestre (via Flaminia e via Amerina), se hanno consentito da un lato la ricostruzione di un quadro, relativamente dettagliato, della geografia insediativa tra l’età della romanizzazione e gli inizi del IV sec. d.C., dall’altro hanno lasciato poco spazio alle fasi più tarde decretando, in molti casi in maniera frettolosa e spesso sulla sola base dei reperti numismatici o sulla presenza/assenza di fossili guida come le ceramiche di importazione, un abbandono generalizzato di numerosi siti già agli inizi del V sec. d.C., in concomitanza con le grandi invasioni barbariche e, tranne qualche rara eccezione come le ristrutturazioni di VI sec. della villa di Pennavecchia, alcune riprese agli inizi del IX sec. Il riconoscimento di questo gap cronologico sembra essere fortemente condizionato da diversi fattori, prima fra tutti la difficoltà di isolare le stratigrafie del periodo di transizione, spesso scarsamente visibili e, quindi, di identificare le produzioni ceramiche relative (di contesto), inserite in periodizzazioni ancora troppo ampie; a tal proposito un ulteriore problema riguarda la difficoltà di giungere a una necessaria, più precisa seriazione crono-tipologica delle ceramiche comuni, in particolare per il V, il VI e il VII secolo, dal momento che non è sempre agevole isolare contesti chiusi o non contaminati. Questo problema risulta ancor più significativo, come vedremo, in alcune aree dell’Umbria, dove alcune forme riprendono tipologie di antica tradizione. In tal senso la conoscenza ormai diffusa delle classi ceramiche tardoantiche, soprattutto nell’ambito delle produzioni locali, dovrebbe portare ad una rivisitazione delle seriazioni stratigrafiche edite e dei relativi materiali, le cui cronologie meriterebbero di essere riesaminate. Nel tentativo di ricostruire i caratteri della cultura materiale di questo comparto territoriale non si possono dunque sottovalutare la disomogeneità della situazione documentaria, lo stato degli studi e l’eterogeneità delle tipologie insediative prese in esame e, soprattutto, non si può prescindere dalla complessità dei rapporti estremamente diversificati che queste ultime ebbero con l’esterno. In un clima di generale contrazione degli scambi su larga scala, che si traduce in una graduale marginalizzazione dei siti più remoti dell’interno, si riconoscono poli di attrazione che riescono ancora ad acquistare, seppur in maniera ridotta e diversificata, prodotti esteri. La maggior parte delle ville note (ad esempio Lugnano in Teverina, Alviano e Penna in Teverina), gravitanti economicamente e culturalmente su Roma, e per questo dislocate convenientemente lungo i principali assi di collegamento con la capitale (la via Amerina, la via Flaminia e soprattutto il tratto alto del Tevere), dismettono gli impianti produttivi, in taluni casi precocemente, intorno al II-III sec. d.C., importando olio e vino prima dalla Gallia e dalla Spagna e successivamente, a partire dal III-IV sec. d.C., dall’Africa Proconsolare, con forme di rioccupazione e frequentazione ridotta, fino all’abbandono definitivo intorno al V e VI d.C. (più raramente). Sembra ripercorrere lo stesso percorso evolutivo, confermando nelle linee generali un trend ormai noto, il sito manifatturiero di Scoppieto, nel territorio di Baschi, distante pochi km dal Tevere e dall’importante struttura portuale di Pagliano, specializzato nella produzione di sigillata italica e lucerne tra età augustea e traianea e frequentato, con connotazioni diverse, almeno fino alla metà del V sec. d.C. Senza dubbio, come si accennava, la viabilità fluviale deve aver svolto, ancora in età tardoantica, un ruolo importante nei trasporti commerciali e nella ridistribuzione dei prodotti, consentendo collegamenti molto più rapidi ed economici di quelli per via di terra: i grandi porti fluviali di Pagliano a sud di Orvieto, alla confluenza del Paglia con il Tevere, quello di Castiglioni-Seripola a Nord di Orte, il porto di Piscinale alla confluenza del Nera con il Tevere e infine il porto dell’Olio di Ocricoli costituivano solo le punte di diamante di un articolato sistema di cabotaggio endolagunare rappresentato da piccoli approdi secondari capaci di veicolare le merci anche nei luoghi più remoti. Di queste importanti infrastrutture, tuttavia, indagate a più riprese in maniera discontinua nel corso degli ultimi decenni, non abbiamo a disposizione rendiconti editi dei materiali che consentano di valutare se le dismissioni agli inizi del V sec. d.C. segnassero un processo di abbandono irreversibile ovvero se, più verosimilmente, si perpetuasse una sia pur ridimensionata funzione portuale. Il Tevere e i suoi affluenti, dunque, devono aver assicurato per tutto il III-IV sec. d.C. un afflusso costante da Roma di merci estere, prevalentemente provenienti dall’Africa Proconsolare. Analizzando il rapporto tra capacità ricettiva e articolazione produttiva regionale per un campione sub-regionale, quindi abbastanza limitato, sembra delinearsi una tendenza generale, peraltro riscontrata già in altre aree dell’Etruria meridionale: dall’esame dei contesti emerge un quadro caratterizzato dall’elevata incidenza di anfore che trasportano beni di prima necessità a fronte di una presenza quasi irrisoria di merci ‘pregiate’, ceramica da fuoco, lucerne e ceramiche fini da mensa, in ogni caso selezionate in poche tipologie funzionali destinate al consumo collettivo dei cibi (grandi piatti, scodelle e zuppiere). Un ‘paniere’ degli acquisti, dunque selettivo, in cui una voce importante rivestono le produzioni locali o regionali rappresentate, in alcuni casi, da vasellame da tavola ad alto grado di specializzazione che imita o reinterpreta le forme di sigillata più note, come la sigillata chiara italica, di cui è ormai nota la diffusa in Italia centro-settentrionale, accanto a ceramiche da fuoco fortemente standardizzate nei caratteri morfologici e dimensionali intorno a pochi tipi di pentole con orlo a tesa e olle globulari con orlo estroflesso. In linea generale, la geografia distributiva di alcune ceramiche di produzione locale, soprattutto dipinte, attestate in diversi contesti del comparto territoriale preso in esame conferma, coerentemente con i dati provenienti dal bacino dell’Italia centro-meridionale a partire dalla metà del IV secolo, una riduzione dei commerci su vasta scala e un incremento degli scambi a corto e medio raggio, questi ultimi favoriti dai mercati urbani e dalle fiere rurali. Grazie alle indagini stratigrafiche condotte ormai da più di un decennio nel sito a lunga continuità insediativa di Campo della Fiera, nel territorio di Orvieto, su un campione statisticamente attendibile la seriazione cronologica di alcune classi significative comincia a mostrare margini meno sfumati. Le ricerche, condotte dalle Università di Perugia e Macerata, sotto la direzione di Simonetta Stopponi (alla quale porgo in questa sede un sincero ringraziamento insieme al nutrito gruppo di ricercatori da lei radunato intorno a Campo della Fiera), in un’area situata a SO della rupe orvietana, hanno permesso di verificare una frequentazione ininterrotta dal VI sec. a.C. al XIV sec. d.C. Il complesso architettonico più antico, identificato con il santuario federale degli Etruschi, il Fanum Voltumnae, fu coinvolto nella distruzione di Orvieto nel 264 a.C. per essere successivamente rivitalizzato in epoca romana. Tra la fine del I sec. a.C. e il I sec. d.C. venne edificata una residenza rurale, collocata in posizione significativa a ridosso del santuario, che nel frattempo continuò a svolgere le sue funzioni cultuali, commerciali e politiche. Essa doveva svilupparsi su una vasta area, comprendendo, come sembra plausibile, anche le strutture termali individuate circa 30 metri a Ovest. Dopo parziali interventi di ristrutturazione che interessarono tra il II-III sec. d.C sia la residenza sia il balneum, è alla metà del IV secolo che è possibile ascrivere la probabile defunzionalizzazione del luogo di culto pagano; contestualmente nell’impianto termale accumuli di macerie causarono il crollo dei piani pavimentali negli ambienti caldi. Tuttavia, sulla base delle prescrizioni contenute nel così detto Rescritto di Spello, di età costantiniana, è plausibile ipotizzare che nel sito continuassero a svolgersi fiere, manifestazioni agonistiche e spettacoli tradizionalmente e da lungo tempo associati alle cerimonie religiose. Tra la fine del IV e il V sec. d.C. l’impianto termale, ormai in abbandono, fu convertito in una nuova struttura abitativa che sfruttò i muri esterni superstiti, ancora ben conservati in elevato. Il caldarium e il tepidarium furono trasformati in ambienti di servizio, destinati a luoghi di produzione o più semplicemente a dispensa, come testimoniato sia dal consistente numero di manufatti ceramici di produzione locale, sia da un discreto numero di resti faunistici. La maggior parte dei rinvenimenti è composta da vasellame di produzione locale, in particolare dipinto in rosso con una predominanza di forme chiuse (anforette e piccole brocche), su quelle aperte (bacini e ciotole). A fronte di una buona presenza di forme di sigillata africana ascrivibili al IV-V sec. d.C. (Hayes 50, 59, 61) e più sporadicamente al VI (Hayes 91B, 97, 99), accompagnata da una riduzione a poche forme (p.e. l’Hayes 61), alcune delle quali diventano, attraverso il processo di imitazione, elementi caratterizzanti della cultura materiale locale di questo periodo, risultano significativamente assenti i contenitori da trasporto, documentati invece in grosse quantità nelle fasi più antiche almeno fino al III sec. d.C. Interessanti risultano i dati provenienti dall’analisi dei recipienti da cottura che testimoniano disponibilità di determinate risorse alimentari: l’assenza di tegami e casseruole, generalmente utilizzati per gli arrosti, sostituiti dalle olle globulari, con orlo estroflesso e fondo a calotta o apodo, sembra indicare una dieta basata su cibi liquidi e semiliquidi, a base di cereali, verdure e carni sottoposte a cotture prolungate. La fisionomia dell’area, relazionata a importanti assi viari (tra cui la direttrice che, a poca distanza, collegava Orvieto a Bolsena) e a un corso d’acqua, il Rio Chiaro, rinvia a un insediamento vicano, con spazi dedicati all’immagazzinamento delle derrate così come alle attività produttive e commerciali, espletate in relazione allo svolgimento di mercati stagionali (nundinae). Anche le fonti medievali, del resto, connotano Campo della Fiera come campus fori o campus nundinarum: un’area la cui vocazione mercatale è destinata a permanere almeno fino agli inizi del XX sec. Una ripresa della funzione sacra del sito, questa volta in senso cristiano, di cui al momento sfugge la portata, si colloca verosimilmente intorno al VI-VII sec. d.C., quando la grande aula in laterizi venne ulteriormente modificata, forse trasformata in chiesa, ricevendo una nuova pavimentazione musiva. La presenza di un luogo di culto è indiziata, peraltro, non solo dalla vasta necropoli che fu impiantata tra le rovine dell’antico santuario e datata grazie alle analisi al C14 dei resti di alcuni degli inumati, ad alcuni pettini in osso lavorato, di matrice longobarda, e a frammenti di recipienti in pietra ollare tra il VII e l’VIII sec. d.C., ma anche dal rinvenimento di frammenti scultorei altomedievali di pieno IX secolo, rinvenuti nello stesso edificio e verosimilmente pertinenti a una recinzione presbiteriale. Colpisce in ogni caso la continuità insediativa nella stessa area dove, sul finire del XII o, come attestano le fonti, agli inizi del XIII secolo, fu inaugurato il cantiere per l’edificazione della ecclesia di S. Pietro in vetere, per la realizzazione della quale si operò un’impegnativa attività di livellamento dei depositi archeologici ascrivibili alla fase altomedievale.

LEONE D., Le ceramiche comuni di Campo della Fiera, Orvieto (IV-VII d.C.): produzione e circolazione nel quadro dell’Umbria meridionale.

LEONE, DANILO
2015-01-01

Abstract

L’analisi della produzione e della circolazione delle ceramiche nella fascia meridionale dell’attuale Umbria in età tardoantica e altomedievale è un’acquisizione relativamente recente. Le indagini di ricognizione e scavo condotte a partire dagli anni Ottanta, relative agli insediamenti posti nei pressi dei grandi centri abitati e lungo le principali vie di comunicazione fluviale (alto Tevere, Nera) e terrestre (via Flaminia e via Amerina), se hanno consentito da un lato la ricostruzione di un quadro, relativamente dettagliato, della geografia insediativa tra l’età della romanizzazione e gli inizi del IV sec. d.C., dall’altro hanno lasciato poco spazio alle fasi più tarde decretando, in molti casi in maniera frettolosa e spesso sulla sola base dei reperti numismatici o sulla presenza/assenza di fossili guida come le ceramiche di importazione, un abbandono generalizzato di numerosi siti già agli inizi del V sec. d.C., in concomitanza con le grandi invasioni barbariche e, tranne qualche rara eccezione come le ristrutturazioni di VI sec. della villa di Pennavecchia, alcune riprese agli inizi del IX sec. Il riconoscimento di questo gap cronologico sembra essere fortemente condizionato da diversi fattori, prima fra tutti la difficoltà di isolare le stratigrafie del periodo di transizione, spesso scarsamente visibili e, quindi, di identificare le produzioni ceramiche relative (di contesto), inserite in periodizzazioni ancora troppo ampie; a tal proposito un ulteriore problema riguarda la difficoltà di giungere a una necessaria, più precisa seriazione crono-tipologica delle ceramiche comuni, in particolare per il V, il VI e il VII secolo, dal momento che non è sempre agevole isolare contesti chiusi o non contaminati. Questo problema risulta ancor più significativo, come vedremo, in alcune aree dell’Umbria, dove alcune forme riprendono tipologie di antica tradizione. In tal senso la conoscenza ormai diffusa delle classi ceramiche tardoantiche, soprattutto nell’ambito delle produzioni locali, dovrebbe portare ad una rivisitazione delle seriazioni stratigrafiche edite e dei relativi materiali, le cui cronologie meriterebbero di essere riesaminate. Nel tentativo di ricostruire i caratteri della cultura materiale di questo comparto territoriale non si possono dunque sottovalutare la disomogeneità della situazione documentaria, lo stato degli studi e l’eterogeneità delle tipologie insediative prese in esame e, soprattutto, non si può prescindere dalla complessità dei rapporti estremamente diversificati che queste ultime ebbero con l’esterno. In un clima di generale contrazione degli scambi su larga scala, che si traduce in una graduale marginalizzazione dei siti più remoti dell’interno, si riconoscono poli di attrazione che riescono ancora ad acquistare, seppur in maniera ridotta e diversificata, prodotti esteri. La maggior parte delle ville note (ad esempio Lugnano in Teverina, Alviano e Penna in Teverina), gravitanti economicamente e culturalmente su Roma, e per questo dislocate convenientemente lungo i principali assi di collegamento con la capitale (la via Amerina, la via Flaminia e soprattutto il tratto alto del Tevere), dismettono gli impianti produttivi, in taluni casi precocemente, intorno al II-III sec. d.C., importando olio e vino prima dalla Gallia e dalla Spagna e successivamente, a partire dal III-IV sec. d.C., dall’Africa Proconsolare, con forme di rioccupazione e frequentazione ridotta, fino all’abbandono definitivo intorno al V e VI d.C. (più raramente). Sembra ripercorrere lo stesso percorso evolutivo, confermando nelle linee generali un trend ormai noto, il sito manifatturiero di Scoppieto, nel territorio di Baschi, distante pochi km dal Tevere e dall’importante struttura portuale di Pagliano, specializzato nella produzione di sigillata italica e lucerne tra età augustea e traianea e frequentato, con connotazioni diverse, almeno fino alla metà del V sec. d.C. Senza dubbio, come si accennava, la viabilità fluviale deve aver svolto, ancora in età tardoantica, un ruolo importante nei trasporti commerciali e nella ridistribuzione dei prodotti, consentendo collegamenti molto più rapidi ed economici di quelli per via di terra: i grandi porti fluviali di Pagliano a sud di Orvieto, alla confluenza del Paglia con il Tevere, quello di Castiglioni-Seripola a Nord di Orte, il porto di Piscinale alla confluenza del Nera con il Tevere e infine il porto dell’Olio di Ocricoli costituivano solo le punte di diamante di un articolato sistema di cabotaggio endolagunare rappresentato da piccoli approdi secondari capaci di veicolare le merci anche nei luoghi più remoti. Di queste importanti infrastrutture, tuttavia, indagate a più riprese in maniera discontinua nel corso degli ultimi decenni, non abbiamo a disposizione rendiconti editi dei materiali che consentano di valutare se le dismissioni agli inizi del V sec. d.C. segnassero un processo di abbandono irreversibile ovvero se, più verosimilmente, si perpetuasse una sia pur ridimensionata funzione portuale. Il Tevere e i suoi affluenti, dunque, devono aver assicurato per tutto il III-IV sec. d.C. un afflusso costante da Roma di merci estere, prevalentemente provenienti dall’Africa Proconsolare. Analizzando il rapporto tra capacità ricettiva e articolazione produttiva regionale per un campione sub-regionale, quindi abbastanza limitato, sembra delinearsi una tendenza generale, peraltro riscontrata già in altre aree dell’Etruria meridionale: dall’esame dei contesti emerge un quadro caratterizzato dall’elevata incidenza di anfore che trasportano beni di prima necessità a fronte di una presenza quasi irrisoria di merci ‘pregiate’, ceramica da fuoco, lucerne e ceramiche fini da mensa, in ogni caso selezionate in poche tipologie funzionali destinate al consumo collettivo dei cibi (grandi piatti, scodelle e zuppiere). Un ‘paniere’ degli acquisti, dunque selettivo, in cui una voce importante rivestono le produzioni locali o regionali rappresentate, in alcuni casi, da vasellame da tavola ad alto grado di specializzazione che imita o reinterpreta le forme di sigillata più note, come la sigillata chiara italica, di cui è ormai nota la diffusa in Italia centro-settentrionale, accanto a ceramiche da fuoco fortemente standardizzate nei caratteri morfologici e dimensionali intorno a pochi tipi di pentole con orlo a tesa e olle globulari con orlo estroflesso. In linea generale, la geografia distributiva di alcune ceramiche di produzione locale, soprattutto dipinte, attestate in diversi contesti del comparto territoriale preso in esame conferma, coerentemente con i dati provenienti dal bacino dell’Italia centro-meridionale a partire dalla metà del IV secolo, una riduzione dei commerci su vasta scala e un incremento degli scambi a corto e medio raggio, questi ultimi favoriti dai mercati urbani e dalle fiere rurali. Grazie alle indagini stratigrafiche condotte ormai da più di un decennio nel sito a lunga continuità insediativa di Campo della Fiera, nel territorio di Orvieto, su un campione statisticamente attendibile la seriazione cronologica di alcune classi significative comincia a mostrare margini meno sfumati. Le ricerche, condotte dalle Università di Perugia e Macerata, sotto la direzione di Simonetta Stopponi (alla quale porgo in questa sede un sincero ringraziamento insieme al nutrito gruppo di ricercatori da lei radunato intorno a Campo della Fiera), in un’area situata a SO della rupe orvietana, hanno permesso di verificare una frequentazione ininterrotta dal VI sec. a.C. al XIV sec. d.C. Il complesso architettonico più antico, identificato con il santuario federale degli Etruschi, il Fanum Voltumnae, fu coinvolto nella distruzione di Orvieto nel 264 a.C. per essere successivamente rivitalizzato in epoca romana. Tra la fine del I sec. a.C. e il I sec. d.C. venne edificata una residenza rurale, collocata in posizione significativa a ridosso del santuario, che nel frattempo continuò a svolgere le sue funzioni cultuali, commerciali e politiche. Essa doveva svilupparsi su una vasta area, comprendendo, come sembra plausibile, anche le strutture termali individuate circa 30 metri a Ovest. Dopo parziali interventi di ristrutturazione che interessarono tra il II-III sec. d.C sia la residenza sia il balneum, è alla metà del IV secolo che è possibile ascrivere la probabile defunzionalizzazione del luogo di culto pagano; contestualmente nell’impianto termale accumuli di macerie causarono il crollo dei piani pavimentali negli ambienti caldi. Tuttavia, sulla base delle prescrizioni contenute nel così detto Rescritto di Spello, di età costantiniana, è plausibile ipotizzare che nel sito continuassero a svolgersi fiere, manifestazioni agonistiche e spettacoli tradizionalmente e da lungo tempo associati alle cerimonie religiose. Tra la fine del IV e il V sec. d.C. l’impianto termale, ormai in abbandono, fu convertito in una nuova struttura abitativa che sfruttò i muri esterni superstiti, ancora ben conservati in elevato. Il caldarium e il tepidarium furono trasformati in ambienti di servizio, destinati a luoghi di produzione o più semplicemente a dispensa, come testimoniato sia dal consistente numero di manufatti ceramici di produzione locale, sia da un discreto numero di resti faunistici. La maggior parte dei rinvenimenti è composta da vasellame di produzione locale, in particolare dipinto in rosso con una predominanza di forme chiuse (anforette e piccole brocche), su quelle aperte (bacini e ciotole). A fronte di una buona presenza di forme di sigillata africana ascrivibili al IV-V sec. d.C. (Hayes 50, 59, 61) e più sporadicamente al VI (Hayes 91B, 97, 99), accompagnata da una riduzione a poche forme (p.e. l’Hayes 61), alcune delle quali diventano, attraverso il processo di imitazione, elementi caratterizzanti della cultura materiale locale di questo periodo, risultano significativamente assenti i contenitori da trasporto, documentati invece in grosse quantità nelle fasi più antiche almeno fino al III sec. d.C. Interessanti risultano i dati provenienti dall’analisi dei recipienti da cottura che testimoniano disponibilità di determinate risorse alimentari: l’assenza di tegami e casseruole, generalmente utilizzati per gli arrosti, sostituiti dalle olle globulari, con orlo estroflesso e fondo a calotta o apodo, sembra indicare una dieta basata su cibi liquidi e semiliquidi, a base di cereali, verdure e carni sottoposte a cotture prolungate. La fisionomia dell’area, relazionata a importanti assi viari (tra cui la direttrice che, a poca distanza, collegava Orvieto a Bolsena) e a un corso d’acqua, il Rio Chiaro, rinvia a un insediamento vicano, con spazi dedicati all’immagazzinamento delle derrate così come alle attività produttive e commerciali, espletate in relazione allo svolgimento di mercati stagionali (nundinae). Anche le fonti medievali, del resto, connotano Campo della Fiera come campus fori o campus nundinarum: un’area la cui vocazione mercatale è destinata a permanere almeno fino agli inizi del XX sec. Una ripresa della funzione sacra del sito, questa volta in senso cristiano, di cui al momento sfugge la portata, si colloca verosimilmente intorno al VI-VII sec. d.C., quando la grande aula in laterizi venne ulteriormente modificata, forse trasformata in chiesa, ricevendo una nuova pavimentazione musiva. La presenza di un luogo di culto è indiziata, peraltro, non solo dalla vasta necropoli che fu impiantata tra le rovine dell’antico santuario e datata grazie alle analisi al C14 dei resti di alcuni degli inumati, ad alcuni pettini in osso lavorato, di matrice longobarda, e a frammenti di recipienti in pietra ollare tra il VII e l’VIII sec. d.C., ma anche dal rinvenimento di frammenti scultorei altomedievali di pieno IX secolo, rinvenuti nello stesso edificio e verosimilmente pertinenti a una recinzione presbiteriale. Colpisce in ogni caso la continuità insediativa nella stessa area dove, sul finire del XII o, come attestano le fonti, agli inizi del XIII secolo, fu inaugurato il cantiere per l’edificazione della ecclesia di S. Pietro in vetere, per la realizzazione della quale si operò un’impegnativa attività di livellamento dei depositi archeologici ascrivibili alla fase altomedievale.
2015
978-88-7849-094-9
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