I patti parasociali, come noto, rappresentano una delle configurazioni che può assumere l’assetto proprietario di una società. A ben vedere, il controllo coalizionale può essere considerato come uno stadio intermedio fra la situazione in cui la proprietà è detenuta da un unico azionista di maggioranza assoluta e quella in cui la base azionaria è eccessivamente polverizzata e, di conseguenza, prevale il controllo manageriale. Il presente contributo si colloca nell’ambito del filone di studi del governo d’azienda e prende le mosse dalla teoria economica dei diritti proprietari di Grossman, Hart e Moore (1986-1990). L’analisi teorica, inoltre, si connota per una comparazione fra la normativa italiana, inglese e statunitense in tema di individuazione degli obblighi e delle responsabilità di qualsiasi soggetto controllante (es. azionista di maggioranza, soci paciscenti ecc.) nei confronti delle minoranze azionarie e degli altri stakeholder aziendali. In particolare, nel contesto italiano si segnala la necessità di “affinare”, sul piano della trasparenza e dell’efficacia, l’impianto giuridico di riferimento, al fine di monitorare l’operato dell’azionista di controllo. Con specifico riferimento ai patti parasociali, viene condotta – senza alcuna pretesa di esaustività – una rassegna sul quadro normativo predisposto dal legislatore italiano (es. artt. 122 e 124 del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 26 del D.Lgs. n. 127/1991, art. 27 della Legge n. 287/1990 ecc.), allo scopo di regolamentare l’efficacia e la validità dei patti parasociali e, al contempo, di contrastare le asimmetrie informative che potrebbero insorgere fra il major shareholder, la residua compagine sociale e i potenziali investitori. Dopo un breve inquadramento teorico e normativo dei patti parasociali, nel paragrafo 2.3.2 denominato “Assetti proprietari, patti parasociali e redditività aziendale”, è stata svolta un’analisi empirica sia sulle società italiane quotate nei principali listini di Borsa Italiana S.p.a. (ossia Mib 30, Midex, Star, Numtel e Ordinario) sia su un campione di cinquanta aziende inglesi e americane desunto da una classifica pubblicata dal magazine “Business Week” e stilata sulla base dell’ammontare del volume di affari generato nell’esercizio finanziario 2002. La data collection ha avuto luogo nel 2004, mentre i dati borsistici ed economico-finanziari delle aziende esaminate sono relativi al 31 dicembre 2002. L’indagine empirica muove dall’interesse di diagnosticare l’incidenza degli assetti proprietari, e in specie dei patti parasociali, sulla redditività aziendale. Come indicatore di performance economica, è stato scelto il rapporto fra l’Ebit ed il capitale investito. Sul piano della metodologia statistica, invece, la suddetta incidenza è stata testata tramite alcune analisi di correlazione e di varianza (Anova). In estrema sintesi, le evidenze empiriche denotano che nel mercato mobiliare italiano il risparmiatore/investitore dovrebbe vagliare con particolare attenzione la struttura proprietaria dell’azienda in cui intende apportare mezzi finanziari a titolo di equity o di capitale di terzi. Ciò discende dalla constatazione che la performance economica è più elevata nelle società quotate nelle quali i soci non hanno sottoscritto alcun patto parasociale e, in specie, un sindacato di voto. Tali risultati, ancorché inerenti soltanto all’anno 2002, corroborano le proposizioni teoriche formulate da autorevoli studiosi nazionali e internazionali, per cui la presenza di pattuizioni parasociali potrebbe acuire l’inefficienza aziendale. Le evidenze empiriche, a ben vedere, ribadiscono la consolidata “cultura del controllo”, tipica del contesto mobiliare italiano, per cui la bassa redditività potrebbe rappresentare un valido deterrente per scoraggiare la contendibilità societaria. Non è da escludersi, peraltro, che i soci paciscenti optino per la sottoscrizione di un accordo parasociale, al fine di conseguire benefici privati (es. il consolidamento del proprio potere economico, la realizzazione di sinergie di produzione e di mercato ecc.), i quali in via tendenziale potrebbero porre in secondo piano i risultati aziendali. In questa prospettiva, quindi, è ragionevole condividere gli sforzi compiuti dal legislatore italiano, al fine di regolamentare e innovare la normativa domestica in tema di trasparenza e durata delle pattuizioni parasociali.

Alcune riflessioni sui principali tratti distintivi dei patti parasociali.Assetti proprietari, patti parasociali e redditività aziendale.

CORVINO, ANTONIO
2006-01-01

Abstract

I patti parasociali, come noto, rappresentano una delle configurazioni che può assumere l’assetto proprietario di una società. A ben vedere, il controllo coalizionale può essere considerato come uno stadio intermedio fra la situazione in cui la proprietà è detenuta da un unico azionista di maggioranza assoluta e quella in cui la base azionaria è eccessivamente polverizzata e, di conseguenza, prevale il controllo manageriale. Il presente contributo si colloca nell’ambito del filone di studi del governo d’azienda e prende le mosse dalla teoria economica dei diritti proprietari di Grossman, Hart e Moore (1986-1990). L’analisi teorica, inoltre, si connota per una comparazione fra la normativa italiana, inglese e statunitense in tema di individuazione degli obblighi e delle responsabilità di qualsiasi soggetto controllante (es. azionista di maggioranza, soci paciscenti ecc.) nei confronti delle minoranze azionarie e degli altri stakeholder aziendali. In particolare, nel contesto italiano si segnala la necessità di “affinare”, sul piano della trasparenza e dell’efficacia, l’impianto giuridico di riferimento, al fine di monitorare l’operato dell’azionista di controllo. Con specifico riferimento ai patti parasociali, viene condotta – senza alcuna pretesa di esaustività – una rassegna sul quadro normativo predisposto dal legislatore italiano (es. artt. 122 e 124 del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 26 del D.Lgs. n. 127/1991, art. 27 della Legge n. 287/1990 ecc.), allo scopo di regolamentare l’efficacia e la validità dei patti parasociali e, al contempo, di contrastare le asimmetrie informative che potrebbero insorgere fra il major shareholder, la residua compagine sociale e i potenziali investitori. Dopo un breve inquadramento teorico e normativo dei patti parasociali, nel paragrafo 2.3.2 denominato “Assetti proprietari, patti parasociali e redditività aziendale”, è stata svolta un’analisi empirica sia sulle società italiane quotate nei principali listini di Borsa Italiana S.p.a. (ossia Mib 30, Midex, Star, Numtel e Ordinario) sia su un campione di cinquanta aziende inglesi e americane desunto da una classifica pubblicata dal magazine “Business Week” e stilata sulla base dell’ammontare del volume di affari generato nell’esercizio finanziario 2002. La data collection ha avuto luogo nel 2004, mentre i dati borsistici ed economico-finanziari delle aziende esaminate sono relativi al 31 dicembre 2002. L’indagine empirica muove dall’interesse di diagnosticare l’incidenza degli assetti proprietari, e in specie dei patti parasociali, sulla redditività aziendale. Come indicatore di performance economica, è stato scelto il rapporto fra l’Ebit ed il capitale investito. Sul piano della metodologia statistica, invece, la suddetta incidenza è stata testata tramite alcune analisi di correlazione e di varianza (Anova). In estrema sintesi, le evidenze empiriche denotano che nel mercato mobiliare italiano il risparmiatore/investitore dovrebbe vagliare con particolare attenzione la struttura proprietaria dell’azienda in cui intende apportare mezzi finanziari a titolo di equity o di capitale di terzi. Ciò discende dalla constatazione che la performance economica è più elevata nelle società quotate nelle quali i soci non hanno sottoscritto alcun patto parasociale e, in specie, un sindacato di voto. Tali risultati, ancorché inerenti soltanto all’anno 2002, corroborano le proposizioni teoriche formulate da autorevoli studiosi nazionali e internazionali, per cui la presenza di pattuizioni parasociali potrebbe acuire l’inefficienza aziendale. Le evidenze empiriche, a ben vedere, ribadiscono la consolidata “cultura del controllo”, tipica del contesto mobiliare italiano, per cui la bassa redditività potrebbe rappresentare un valido deterrente per scoraggiare la contendibilità societaria. Non è da escludersi, peraltro, che i soci paciscenti optino per la sottoscrizione di un accordo parasociale, al fine di conseguire benefici privati (es. il consolidamento del proprio potere economico, la realizzazione di sinergie di produzione e di mercato ecc.), i quali in via tendenziale potrebbero porre in secondo piano i risultati aziendali. In questa prospettiva, quindi, è ragionevole condividere gli sforzi compiuti dal legislatore italiano, al fine di regolamentare e innovare la normativa domestica in tema di trasparenza e durata delle pattuizioni parasociali.
2006
8846476875
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