La fattispecie dell’abuso d’ufficio, che ha subito, per ben due volte negli anni novanta (1990 e 1997), un profondo restyling normativo, involge questioni di rilevante portata, fra cui, in primo luogo, quella relativa ai limiti del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, sebbene non al fine di una loro eventuale disapplicazione, bensì quali possibili modalità esecutive, inter alios, di una specifica fattispecie criminosa. Tale aspetto, sicuramente meno avvertito nella visione ottocentesca, quando la fattispecie era prevalentemente incentrata sulla «prevaricazione», ad opera del pubblico agente, nei confronti del privato, ha assunto nuovo rilievo con la riforma del ’30, in quanto il passaggio dal danno al pericolo denota un inquadramento della dimensione offensiva nella medesima P.A., che quindi si trova essa stessa ad essere «sindacata», sia pure nella persona del pubblico agente «infedele», oltreché persona offesa. Né il ritorno al modello legato al danno, con la riforma del ’97, ha comportato una «sdrammatizzazione» dei problemi su accennati, fra cui quello dei controversi rapporti tra Amministrazione e Giurisdizione, giacché, al contrario, la norma di cui all’art. 323 c.p. reca ancora con sé l’eredità del peculato per distrazione e dell’abrogato interesse privato, che, secondo l’orientamento prevalente, sono “confluiti” nell’abuso d’ufficio. Se il legislatore del ’97 ha inteso, almeno nelle intenzioni, espungere dal sindacato del giudice penale il vizio di eccesso di potere, limitando la rilevanza penale alle sole violazioni della legalità «formale», deve tuttavia considerarsi che l’eccessiva delimitazione del sindacato del giudice penale sugli atti discrezionali, a causa dell’eredità del peculato per distrazione, non è priva di inconvenienti, data la possibilità che gli atti suddetti impegnino anche notevoli risorse economiche dalla P.A. Il rischio che si prospetta è pertanto che l’abuso d’ufficio, appesantito anche dalla previsione del dolo intenzionale, torni a costituire, nella prassi giurisprudenziale, quella figura «residuale» tipica del ’30, che il legislatore degli anni novanta sembrava voler superare. L’Autore, pertanto, nel tentativo di individuare un paradigma alternativo su cui ri-fondare la fattispecie in esame, procede ad un’analisi comparatistica per verificare i modelli seguiti dai legislatori nazionali e sovra-nazionali; senonché, gli spunti di maggiore interesse sembrano discendere dall’estensione dell’indagine alle condotte d’abuso sul versante c.d. «privatistico», e cioè nella duplice dimensione della tutela penale del patrimonio secondo il modello tedesco dell’infedeltà patrimoniale, da un lato, e quello francese, dall’altro, di recente assunto come punto di riferimento dal legislatore nazionale con la riforma del reati societari e l’introduzione dell’infedeltà patrimoniale. Dall’estensione del campo d’indagine testé evidenziato, infatti, emerge un dato comune, rappresentato dalla situazione di «conflitto d’interessi» in cui viene a trovarsi sia il gestore di patrimoni altrui che l’amministratore di società, laddove privilegia l’interesse lato sensu «egoistico» a danno di quello sociale. Senonché, tale conflitto d’interessi può ravvisarsi anche sul versante «pubblicistico», non solo laddove l’abuso d’ufficio include il c.d. favoritismo affaristico e lo sfruttamento privato dell’ufficio, ma perfino nella più tradizionale ipotesi della prevaricazione, in cui l’“arbitrarietà” dell’atto dimostra come il pubblico agente, ponendosi in una situazione di conflitto, invece di esercitare le proprie attribuzioni a vantaggio della collettività, le utilizza intenzionalmente a danno di uno o più membri della medesima. In tale prospettiva, l’utilizzazione del paradigma del conflitto d’interessi, peraltro già presente nella normativa vigente, in quanto collegato alla violazione del dovere di astensione, diviene lo strumento attraverso cui recuperare l’adesione al principio di legalità, nonché ai suoi corollari della precisione/determinatezza e tassatività, di una fattispecie che rischia, altrimenti, di assumere un carattere ed una funzione eccessivamente «sanzionatori» nella dimensione del diritto vivente.

ABUSO D'UFFICIO E CONFLITTO D'INTERESSI NEL SISTEMA PENALE

MANNA, ADELMO
2004-01-01

Abstract

La fattispecie dell’abuso d’ufficio, che ha subito, per ben due volte negli anni novanta (1990 e 1997), un profondo restyling normativo, involge questioni di rilevante portata, fra cui, in primo luogo, quella relativa ai limiti del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, sebbene non al fine di una loro eventuale disapplicazione, bensì quali possibili modalità esecutive, inter alios, di una specifica fattispecie criminosa. Tale aspetto, sicuramente meno avvertito nella visione ottocentesca, quando la fattispecie era prevalentemente incentrata sulla «prevaricazione», ad opera del pubblico agente, nei confronti del privato, ha assunto nuovo rilievo con la riforma del ’30, in quanto il passaggio dal danno al pericolo denota un inquadramento della dimensione offensiva nella medesima P.A., che quindi si trova essa stessa ad essere «sindacata», sia pure nella persona del pubblico agente «infedele», oltreché persona offesa. Né il ritorno al modello legato al danno, con la riforma del ’97, ha comportato una «sdrammatizzazione» dei problemi su accennati, fra cui quello dei controversi rapporti tra Amministrazione e Giurisdizione, giacché, al contrario, la norma di cui all’art. 323 c.p. reca ancora con sé l’eredità del peculato per distrazione e dell’abrogato interesse privato, che, secondo l’orientamento prevalente, sono “confluiti” nell’abuso d’ufficio. Se il legislatore del ’97 ha inteso, almeno nelle intenzioni, espungere dal sindacato del giudice penale il vizio di eccesso di potere, limitando la rilevanza penale alle sole violazioni della legalità «formale», deve tuttavia considerarsi che l’eccessiva delimitazione del sindacato del giudice penale sugli atti discrezionali, a causa dell’eredità del peculato per distrazione, non è priva di inconvenienti, data la possibilità che gli atti suddetti impegnino anche notevoli risorse economiche dalla P.A. Il rischio che si prospetta è pertanto che l’abuso d’ufficio, appesantito anche dalla previsione del dolo intenzionale, torni a costituire, nella prassi giurisprudenziale, quella figura «residuale» tipica del ’30, che il legislatore degli anni novanta sembrava voler superare. L’Autore, pertanto, nel tentativo di individuare un paradigma alternativo su cui ri-fondare la fattispecie in esame, procede ad un’analisi comparatistica per verificare i modelli seguiti dai legislatori nazionali e sovra-nazionali; senonché, gli spunti di maggiore interesse sembrano discendere dall’estensione dell’indagine alle condotte d’abuso sul versante c.d. «privatistico», e cioè nella duplice dimensione della tutela penale del patrimonio secondo il modello tedesco dell’infedeltà patrimoniale, da un lato, e quello francese, dall’altro, di recente assunto come punto di riferimento dal legislatore nazionale con la riforma del reati societari e l’introduzione dell’infedeltà patrimoniale. Dall’estensione del campo d’indagine testé evidenziato, infatti, emerge un dato comune, rappresentato dalla situazione di «conflitto d’interessi» in cui viene a trovarsi sia il gestore di patrimoni altrui che l’amministratore di società, laddove privilegia l’interesse lato sensu «egoistico» a danno di quello sociale. Senonché, tale conflitto d’interessi può ravvisarsi anche sul versante «pubblicistico», non solo laddove l’abuso d’ufficio include il c.d. favoritismo affaristico e lo sfruttamento privato dell’ufficio, ma perfino nella più tradizionale ipotesi della prevaricazione, in cui l’“arbitrarietà” dell’atto dimostra come il pubblico agente, ponendosi in una situazione di conflitto, invece di esercitare le proprie attribuzioni a vantaggio della collettività, le utilizza intenzionalmente a danno di uno o più membri della medesima. In tale prospettiva, l’utilizzazione del paradigma del conflitto d’interessi, peraltro già presente nella normativa vigente, in quanto collegato alla violazione del dovere di astensione, diviene lo strumento attraverso cui recuperare l’adesione al principio di legalità, nonché ai suoi corollari della precisione/determinatezza e tassatività, di una fattispecie che rischia, altrimenti, di assumere un carattere ed una funzione eccessivamente «sanzionatori» nella dimensione del diritto vivente.
2004
8834842790
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11369/9714
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